FEDE E SCIENZA
La montagna ardente
dal Numero 7 del 12 febbraio 2023
di Antonio Farina

Prendendo le mosse dalla descrizione di quel fenomeno naturale impressionante che sono i vulcani attivi, scopriamo un’analogia con le teofanie dell’Antico Testamento e soprattutto con il Cuore Sacratissimo di Nostro Signore Gesù Cristo che è un vulcano d’amore per gli uomini.

La Terra è un pianeta roccioso costellato di vulcani, ce ne sono moltissimi: in Italia, in Giappone, in Messico, nelle isole Hawaii, in Islanda, nella cintura di fuoco circumpacifica... Nella sola Indonesia se ne contano qualcosa come 108. Tenerli d’occhio tutti sarebbe un’impresa difficile. Storicamente sono state registrate le eruzioni di 538 vulcani e negli ultimi 19.000 anni quelli attivi sono stati 1.300. Il 94% di essi è ubicato lungo i margini distensivi o compressivi delle cosiddette placche litosferiche. Infatti la crosta terrestre sulla quale noi viviamo e ci muoviamo altro non è che lo strato solido più esterno di una “palla” di roccia fusa che circonda il nucleo di ferro della Terra. 
Il nostro pianeta ha un’età stimata di 4,5 miliardi di anni e, fin dall’inizio, è stato un oceano di fuoco. La litosfera è formata dalla parte superiore del mantello e dalla crosta che formano un involucro rigido. Tale involucro però non è coeso ma frammentato in grandi “tasselli”, chiamati placche o zolle tettoniche. Le placche a loro volta galleggiano sulla parte più fluida e viscosa del mantello (l’astenosfera) compiendo movimenti impercettibili se osservati alla scala dei tempi umani, ma che diventano enormi se osservati nelle ere geologiche. Nelle zone di confine la roccia fusa si insinua in punti di debolezza per risalire fino alla superficie generando i vulcani. Spettacolari e spaventosi, allo stesso tempo sono tra le più affascinanti strutture geologiche che si trovano in natura. 
La statistica afferma che nel mondo circa una persona su 20 vive nella zona limitrofa di un vulcano in attività. Il caso più eclatante (e preoccupante) si registra proprio in Italia. Quando si riceve una cartolina di saluti da Napoli non di rado questa raffigura una magnifica vista del golfo ripreso dal promontorio di Posillipo. Sullo sfondo svetta la figura imponente di una montagna dai bordi frastagliati: il Vesuvio. Il panorama è senz’altro idilliaco e affascinante, però il Vesuvio è un vulcano e – ahimè – tra i più pericolosi del mondo. Il Vesuvio infatti è vivo e vegeto, anche se sembra dormire. La comunità scientifica e le autorità della protezione civile temono la sua attività vulcanica ed è quindi stato istituito fin dal 1840 un osservatorio vulcanologico e sismologico tuttora operativo. 
La prima eruzione storicamente accertata è stata quella descritta da Plinio il Giovane nel 79 d.C. Fu un’autentica catastrofe: lava e ceneri ad altissima temperatura seppellirono Pompei, Ercolano e Stabia con un bilancio di migliaia e migliaia di morti. Ancora oggi dagli scavi archeologici emergono testimonianze sconvolgenti della furia scatenata dal vulcano: la popolazione disperata cercò di guadagnare una via di fuga verso il mare ma si trovò la strada sbarrata da una cortina di fuoco. I tetti delle abitazioni crollarono sotto il peso di 4 m di ceneri incandescenti! Nella notte che precedette l’eruzione i primi segni: terremoti ripetuti, sordi boati, crolli, la temperatura del suolo cominciò minacciosamente a salire, l’aria divenne appestata da miasmi asfittici di gas solforosi, una grande nube sovrastava la cima nera della montagna, illuminata da frequentissimi lampi. Poi all’improvviso un’esplosione immane. La cima del vulcano fu scagliata verso l’alto e si trasformò in una colonna di pietre e di lapilli alta 40 km! Dopo solo qualche minuto iniziò il collasso dell’emissione piroclastica che come una valanga ardente si precipitò verso il basso, scivolando sui fianchi della montagna alla vertiginosa velocità di 200 km/h. Tutto fu trascinato via, arso e distrutto, persone e cose, animali e manufatti. Non ci fu neanche il tempo di raccogliere qualche effetto personale: interi centri abitati sulle pendici meridionali del monte furono letteralmente spazzati via e poi sepolti da una coltre rovente di ceneri, pomici e tefriti basaltici. Nei giorni seguenti i superstiti riusciti a fuggire via mare non poterono neanche riavvicinarsi perché la terra era bruciante. In cielo la colonna di gas aveva proiettato ceneri fino alla stratosfera, generando una specie di “notte” artificiale che durò svariati giorni. Fanghi e lahar [1] ricoprivano come una coltre quella che era stata solo fino a qualche giorno prima la “Campania felix”. 
Questa è la cronaca, drammatica, del disastro a breve termine, ma le eruzioni generano anche impatti a lunga scadenza di tipo climatico. Le più violente eruzioni vulcaniche possono scagliare in aria grandi quantità di particelle che, schermando la luce del Sole, determinano un raffreddamento del clima anche di svariati gradi. L’eruzione del vulcano indonesiano Tambora nel 1815 espulse nell’atmosfera circa 40 km3 di ceneri ed emise una tale quantità di anidride solforosa da avere influenza non solo sul clima dell’Indonesia, ma su quello di tutto il mondo. Gli storici affermano che le piogge torrenziali cadute nei mesi successivi all’eruzione siano state decisive nel determinare la sconfitta militare di Napoleone Bonaparte a Waterloo. E l’anno successivo, il 1816, fu particolarmente freddo e piovoso al punto che è passato alla storia come “l’anno senza estate”. 
In base al tipo di eruzioni a cui danno luogo, i vulcani si possono suddividere in hawaiano, stromboliano, vulcaniano e peleano. 
I vulcani del primo tipo (hawaiano), caratteristici per esempio del territorio delle Hawaii, hanno colate di lava molto fluide, abbondanti e lente, tranquille e senza “scoppi”: il Kilauea, che ha eruttato nella primavera del 2018, ha storicamente avuto emissioni di lava di questo tipo. Tali vulcani hanno versanti dolcemente inclinati e una base larga, e sono chiamati anche “a scudo”. 
Le eruzioni stromboliane (dal vulcano Stromboli nelle Isole Eolie) emettono invece un magma piuttosto fluido che si cristallizza mentre risale e forma “tappi” temporanei che vengono regolarmente fatti saltare. In questi vulcani in genere si alternano colate di lava a scoppi violenti che scagliano in aria piroclasti. Essi si formano per la progressiva solidificazione di colate laviche e materiali effusivi, e per questo motivo sono detti stratovulcani. Anche l’Etna, che domina la costa orientale della Sicilia (di recente nominato patrimonio mondiale dell’umanità), ha avuto in passato un’attività di tipo stromboliano. Una sua particolarità è che il versante che affaccia verso il mare per effetto della gravità sta gradualmente scivolando verso l’acqua alla velocità di 2-3 cm all’anno. In ogni caso l’Etna è anche uno dei vulcani più attentamente monitorati e la convivenza con chi abita alle sue pendici è pressoché pacifica. Ha un’attività stromboliana anche l’Anak Krakatoa, il gigante dell’Indonesia, che, eruttando nel dicembre 2018, scatenò una frana sottomarina che fece sollevare un imponente tsunami. 
Un’eruzione di tipo vulcaniano è un’eruzione simile a quelle del vulcano Vulcano. È caratterizzata da una densa nuvola di cenere pesante che esplode dal cratere e si innalza sopra di esso. La sua natura esplosiva è causata dalla grande quantità di silicio nel magma. Esse di solito cominciano con un’eruzione freomagmatica che può essere estremamente rumorosa a causa del magma che sale e riscalda l’acqua nel terreno. È seguita di solito dalla liberazione esplosiva del cratere e la colonna eruttiva è dal grigio sporco al nero, poiché rocce anticamente consumate sono lanciate fuori dal cratere.
Infine i peleani, che prendono il nome dal vulcano Pelée, in Martinica, hanno eruzioni di tipo esplosivo molto violente: la lava fuoriesce in genere da una spaccatura al di sotto del “tappo” di magma, in orizzontale. Esistono anche supervulcani che sono colossali formazioni magmatiche dormienti poco visibili e che eruttano ogni migliaio di anni. Si tratta di “mostri” che possono espellere anche mille volte la quantità di materiale di una normale eruzione vulcanica. Uno di questi è lo Yellowstone, nascosto sotto l’omonimo parco naturale negli Stati Uniti e visitato ogni anno da migliaia di turisti per la bellezza dei suoi geyser. 
Purtroppo la scienza non è in grado di prevedere sul lungo tempo quando un certo vulcano si risveglierà. Esistono tuttavia dei chiari segnali rivelatori che avvisano quando un’eruzione è ormai imminente. Nonostante i grossi mutamenti sismici dietro ogni singolo evento di questo tipo, per gli studiosi non è possibile prevedere quando avverrà una nuova eruzione. 


I segni premonitori 
Ciò che i sismologi e i geologi possono invece valutare sono quei segnali che, seppur lievi, possono indicare un’imminente attività. La proverbiale “quiete prima della tempesta” trova una perfetta attuazione anche in contesti di questo genere: alcuni vulcanologi dell’università di Oxford e dell’università dell’Islanda, coordinati dalla dott.ssa Diana Roman, hanno infatti notato come un evento vulcanico “esplosivo” importante venga spesso preceduto da un periodo di quiete assoluta, senza scosse sismiche o esalazioni di fumi. Dall’osservazione del vulcano Telica, uno stratovulcano nel Nicaragua, è emerso che prima delle 50 esplosioni occorse durante l’attività, in ben 35 casi si è verificato un intervallo di tempo di almeno mezz’ora dove l’intera struttura vulcanica sembrava essersi acquietata. Negli altri casi le esplosioni erano precedute da momenti di calma molto più brevi (circa 5 minuti). Solo 2 volte su 50, non è stata riscontrata alcuna quiete prima di un forte evento vulcanico. Inoltre, ma questo non è poi così confortante, prima di ogni eruzione la potenza dell’esplosione è direttamente collegata alla lunghezza del periodo di calma che l’aveva preceduta. Maggiore era il tempo di quiete, maggiore era la pressione che si veniva a creare sul magma in uscita, rendendo più potente lo scoppio [2]. 


L’imprevedibilità intrinseca
Ma come mai la scienza non riesce a prevedere il risveglio di un vulcano? La risposta è duplice: la prima, e più scontata, è che per l’uomo è impossibile conoscere il futuro con certezza. La “freccia” del tempo è assolutamente orientata dal passato (di cui possiamo conoscere relativamente molti dati) al presente (che possiamo precisare con delle misurazioni), al futuro (su cui possiamo fare soltanto congetture). La seconda risposta è meno scontata, ma più sconcertante: esistono dei limiti intrinseci per la conoscenza. Cosa vuol dire questo? Possiamo essere sulla Terra, su Marte o dall’altra parte dell’universo (se esistessero creature intelligenti e senzienti come noi) ma ovunque valgono i limiti della conoscenza. Questo è vero a prescindere dal grado di avanzamento delle nozioni scientifiche e delle conquiste tecnologiche. In tutto l’universo valgono infatti cinque principi.


- Il principio di indeterminazione di Heisenberg: questo principio fisico enuncia che è impossibile conoscere con precisione la posizione e la velocità (quantità di moto) di una particella subatomica. E lo stesso vale per il tempo e la sua energia.
- Il principio di invalicabilità della velocità della luce. Questo “assioma”, che è alla base della teoria della relatività di Einstein, afferma che è impossibile per qualunque “oggetto” materiale spostarsi nello spazio a velocità superiore a quella della luce. 
- Il terzo principio della termodinamica, secondo il quale è impossibile portare un corpo fisico a temperatura inferiore allo zero assoluto: -273 °C. 
- Il principio di conservazione dell’energia, che stabilisce che, nei sistemi macroscopici, l’energia non si crea e non si distrugge, semplicemente si trasforma da una maniera all’altra. Ciò vale anche per altre grandezze come la carica elettrica, alcuni numeri quantici, ecc.
- Il principio dell’aumento dell’entropia (ovvero del “disordine”) nei sistemi isolati. Un’indicazione precisa che, in natura, i sistemi tendono ad acquisire gli stati di minima energia e di massimo disordine: è una forma matematica per descrivere la “corruttibilità” delle cose.


Si potrebbe pensare che queste limitazioni potranno essere superate un domani grazie al progresso e allo sviluppo delle conquiste scientifiche e tecnologiche, ma non è così. Si tratta di limiti intrinseci che valgono dovunque e sempre, leggi naturali invalicabili per chiunque (tranne naturalmente che per il Creatore). Consideriamo per esempio la dinamica dell’atmosfera: la scoperta del carattere “caotico” delle equazioni di Lorenz (che descrivono i movimenti delle masse d’aria) unita al principio di indeterminazione di Heisenberg ci rendono certi che le previsioni del tempo meteorologico non saranno mai sicure al 100% a lunga scadenza. Ciò vale qualunque sia la “potenza” dei calcolatori elettronici impiegati o l’accuratezza delle rilevazioni nelle stazioni meteo. La stessa cosa, mutando i termini del discorso, si potrebbe affermare per il risveglio dei vulcani o per il crollo dei ponti o, purtroppo, come ci riferisce la cronaca degli ultimi mesi, per il collasso dei seracchi di un ghiacciaio visitato da turisti. Quello che realisticamente possiamo fare è moltiplicare e affinare la conoscenza dei segni premonitori di tali fenomeni fisici e sorvegliarli per non trovarci impreparati. Tuttavia non sapremo mai dove e quando essi accadranno. È un male? È un bene? Tutto quello che Dio ha fatto è buono ed Egli converge tutto al nostro vero bene. Anche la nostra ignoranza. 
La condizione umana stessa, la vita, la morte sono avvolte nel mistero, ed è bene che sia così: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13). Il futuro è nella mente di Dio: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At 1,7). La grandiosità, la potenza, la spettacolarità, la pericolosità perfino delle eruzioni vulcaniche occupano un posto preminente nel panorama degli eventi naturali di cui possiamo essere spettatori, perché, nostro malgrado, ci pongono dinanzi alla “piccolezza” e alla precarietà della vita.
Nelle isole Hawaii il vulcano Kilauea, che in lingua polinesiana significa “nuvola di fumo che sale”, è considerato il più attivo del mondo e appare ai visitatori come un grande lago di lava ribollente, agitato da onde e fontane magmatiche, sbuffi di gas roventi alla temperatura (impressionante) di 1.200 °C. Il suo cono vulcanico si presenta così fin dal 2013, e sembra tuttora esercitare sugli imprudenti turisti che si spingono fino ai bordi della caldera un fascino magnetico quasi ipnotico. I coniugi Kraft, vulcanologi spericolati, andarono incontro ad una fine orribile: furono seppelliti nel 1991 da una colata lavica alla quale si erano troppo avvicinati diventando l’emblema mondiale della passione insana e divorante per i vulcani attivi. 
Il cineasta dei fenomeni estremi, Werner Herzog, ne parla in un suo documentario dal titolo allusivo e alquanto conturbante: Into the Inferno. E in effetti, se si dovesse stilare una graduatoria di come l’immaginario collettivo si raffigura l’inferno, al primo posto si troverebbe il lago di lava sobbollente del Kilauea. D’altro canto sarebbe troppo riduttivo considerare il vulcano soltanto come un’icona immaginifica e scenografica degli inferi, sebbene – a quanto pare – vi somigli molto [3]. Il timore reverenziale che esso incute travalica la riflessione, del resto molto benefica, del rischio che corrono le nostre anime giunte alle soglie dell’eternità. Il vulcano infatti può diventare uno scenario suggestivo della presenza di Dio sulla terra. Non è un caso che le teofanie più impressionanti riportate nella Sacra Scrittura sono ambientate su qualche montagna infuocata: «Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono» (Es 19,18). E in un parossismo di eventi sconvolgenti: «Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. Allora dissero a Mosè: “Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”» (Es 20,18). Nell’Antico Testamento il rapporto tra Dio ed il popolo eletto era scandito e accompagnato da fenomeni naturali eccezionali, di forte impatto emotivo, e necessitava della presenza di profeti santi come Mosè, Elia, Eliseo, ecc., che fungevano da mediatori degni. Nulla incuteva più paura e riverenza di una montagna fumante ed esplosiva, di un vulcano: «Mosè disse al popolo: “Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore vi sia sempre presente e non pecchiate”» (Es 20,20). 
Nella pienezza del tempo, l’avvento di Nostro Signore Gesù Cristo ha mutato profondamente tale rapporto. L’Emmanuele, il Dio-con-noi, non incute più timore o terrore, ma parla al cuore dell’uomo attirandolo coi vincoli della carità. Il suo Cuore Sacratissimo è rappresentato spesso come un Cuore ardente, fiammeggiante, sormontato dalle vampe d’amore per gli uomini: un vulcano d’amore. È infatti il suo immenso amore per noi che lo ha spinto a sacrificare la sua vita per la nostra salvezza. Un vulcano di santo amore che ci scampa dal vulcano oscuro della perdizione.  

Note
1) I “lahar” sono colate di fango formato da acqua e cenere vulcanica.

2) Si veda: https://www.focusjunior.it/category/scienza/spazio

3) Si veda la descrizione dell’apparizione di Fatima del 13 luglio 1917, in cui la Madonna ha mostrato ai tre Pastorelli l’inferno. 
 

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