PASQUA
I dolori di Maria modello e via alla Gloria celeste
dal Numero 13 del 27 marzo 2016
di Padre Luca M. Genovese

La dipartita di Gesù è «un passare dalla morte alla vita». Egli insegna ai suoi Discepoli di ogni tempo che non si giunge alla Gloria senza la Passione. E perciò la Vergine Santa è la prima a godere col Figlio della Gloria eterna e in maniera impareggiabile: per la sua Fede invitta anche nell’ora della Croce e la sua compartecipazione.

La Risurrezione è un evento assolutamente ineffabile che esce fuori da ogni schema umano e da ogni capacità razionale. Nel giorno della Risurrezione «i discepoli gioirono nel vedere il Signore» (Gv 20,20), ma allo stesso tempo furono pieni di paura perché «temevano di vedere un fantasma» (Lc 24,37). Ciò dice l’intimo, segreto anelito dell’uomo a vivere per sempre a causa del suo amore per la vita, un dato naturale, e allo stesso tempo la paura dell’ignoto, di ciò che lo sovrasta e non si può in alcun modo comprendere.
Gesù cerca di rompere questo circolo chiuso (desiderio della vita, frustrazione della morte)  presentandosi ai Discepoli dopo la Risurrezione, parlando con loro, lasciandosi toccare e addirittura mangiando ciò che essi mangiano. Il Maestro vuole che la Risurrezione entri nella loro mente e nella loro esperienza quotidiana.
Ma un’altra cosa Gesù voleva inculcare nel cuore dei Discepoli e questo già da quando dimorava nella condizione terrena: per entrare nella Gloria bisogna molto soffrire (cf. Lc 24,7). La Trasfigurazione del Signore è l’anticipo del compimento della sua Passione. Proprio durante la Trasfigurazione Gesù con Mosè ed Elia parlava «della sua dipartita» (nel testo greco del Vangelo: éxodos) «che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (Lc 9,31).
Il vero esodo (éxodos), o dipartita, che intende Gesù è questo: passare dalla morte alla vita, dalla vita terrena, che è morte, alla vita celeste che è vera vita. Questo passaggio conosce lo sgomento della Passione, del rifiuto del mondo, addirittura l’ostilità degli altri uomini. Gesù profeta di bene, di un bene assoluto che supera ogni bene di questo mondo, viene maltrattato ed umiliato, percosso a morte e sepolto in fretta come un uomo da nulla, senza neppure gli onori funebri minimi che si tributavano ad ogni uomo, dato che le donne sentono ancora di recarsi al sepolcro nella mattina di Pasqua per completare la pia opera della sepoltura, lasciata a metà due giorni prima.
Questo éxodos comporta una grande spesa: il tuffo fiducioso nella morte, anche terribile e vergognosa. Il premio sarà la Gloria celeste.
Nessuno dei Discepoli del Signore pensava a questo tipo di éxodos. Quando Gesù lo annuncia ritengono forse che parli in maniera simbolica, riferendosi all’antico éxodos di Israele dall’Egitto che doveva compiersi anche nell’oggi della fede, qui ed ora.
Ciò era pure buono. Infatti nella parabola del figliol prodigo Gesù fa dire al padre riguardo al figlio che ha lasciato il peccato: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24).
Lasciare il peccato è un grande esodo, ma non basta. Bisogna lasciare il peccato per entrare definitivamente nella Vita eterna. E qui allora si propone un’altra salita, un’altra violenta uscita da se stessi che non riguarda più solo il peccato ma il pensiero dell’uomo, i suoi desideri più intimi, la sua volontà di conformarsi pienamente a Cristo che percorre la via della morte per giungere per sempre alla Risurrezione: «Cristo risorto dai morti non muore più, la morte non ha più potere su di Lui» (Rm 6,9).
Quando Gesù si presenta ai Discepoli di Emmaus li trova «col volto triste», delusi nella loro aspettativa di salvezza semplicemente terrena: «I sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele» (Lc 24,20-21).
Questo arrivano a pensare gli uomini. Che Gesù sia stato molto grande e potente, in «parole ed opere» (Lc 24,19), ma che poi ha fallito totalmente il suo obiettivo di liberazione perché la morte lo ha ghermito. Dunque non ha liberato un bel nulla. È la logica terrena del qui ed ora, dell’oggi o mai più, del carpe diem epicureo che vuole godere solo l’attimo fuggente e in esso vuole trovare paradossalmente il suo infinito...
Gesù guarda lontano. Quando arriva al termine del cammino dei due di Emmaus «egli fece come se dovesse andare più lontano» (Lc 24,28), quasi ad indicare che il cammino della vita non è mai finito, non si conclude in questa vita.
Anche questo i Discepoli non comprendono. Però a loro piace quell’uomo. Ricorda forse vagamente il Maestro. Poi spezza il pane con loro e sparisce. I due sono forzati a riconoscerlo per evidenza. Sono costretti a pensare da quel giorno in poi in maniera diversa. Ad essere fedeli a questo pensiero.
Sulla strada dei Discepoli si fa incontro anche la Madre di Dio.
La Santa Vergine non ha problemi di fede: «Beata Colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45).
Non ha problemi di tristezza interiore dopo la Risurrezione del Figlio. Non ha problemi di incredulità nel riconoscerlo: «Regina Coeli laetare, Alleluja. Quia Quem meruisti portare, Alleluja. Resurrexit sicut dixit».
Qual è il segreto di Maria nello stare così vicino a Cristo, soprattutto al suo Cuore Santissimo ferito dai nostri peccati e colpito a morte dalle nostre iniquità (cf. Is 53,5)?
Solo l’amore! Un amore infinito che si sostanzia nella comunione più profonda con tutti gli atti della sua vita. Maria non immagina il tipo di sofferenza che Gesù incontrerà a Gerusalemme, secondo le sue parole. Ma vi crede. Già Simeone le aveva annunciato: «Una spada ti trafiggerà l’anima» (Lc 2,35).
Maria si immerge nella morte con Cristo; è “Battezzata” (Baptisma significa Immersione) nella stessa morte di Cristo e per questo suo merito infinito, quello di aver accolto con fede anche quest’ultima esperienza terrena del Suo Figlio e Signore, è degna di entrare nella Vita eterna.
«Gridava per le doglie ed il travaglio del parto» (Ap 12,2). Possibile che Maria soffrisse nel partorire la prima volta Cristo dal suo Grembo, Lei che ha concepito e partorito verginalmente il Signore? No, dicono i santi Padri ed i Dottori! Quella sofferenza è il suo personale éxodos verso la Pasqua, la sua Pasqua, il suo passaggio alla vita che non muore, intimamente unita in tutto al suo amatissimo Figlio ed anche quindi nella perfetta accettazione della sua terribile prova di martirio sulla croce. Ma anche tra gli atroci tormenti poteva con certezza ripetere, come la prima volta: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente» (Lc 1,49)! La spada del dolore è il più grande dono terreno che Dio abbia fatto al Cuore purissimo e pieno d’amore della Vergine Immacolata. Grandi cose, per l’altissimo prezzo pagato per il riscatto di ogni uomo. Grandi cose, per la grandezza della Redenzione da Dio predisposta per la salvezza di ogni uomo. Grandi cose, per la magnifica corona regale (cf. Is 62,3), che Dio le porrà per sempre sul capo al di sopra di ogni creatura e che porrà anche sul capo all’immensa (speriamo!) schiera dei suoi figli che si sono consacrati al Suo Cuore Immacolato, cioè a portare le sue stesse sofferenze con fede indefessa, con totale abbandono nelle mani di Dio e con invincibile speranza nella felice conclusione dell’éxodos pasquale di Cristo.
«Lei, in tutto fu simile al suo Figlio paziente, avendone ricopiato l’animo e il coraggio. Se Cristo ha sofferto per noi e ci ha lasciato l’esempio spronandoci a ricalcare le sue orme, ha sofferto anche la sua Madre Maria la quale, accanto al medesimo Figlio, ci ha riproposto l’esempio per farci ricopiare la sua identica traccia, per fare come Ella stessa ha fatto (cf. 1Pt 2,21)... Ci stia a cuore Cristo e la sua Madre Santissima, ponendo ogni nostro impegno per imitarli! Vogliamo dunque ricordare Maria perché è Lei che ha sopportato l’opposizione dei peccatori perché non ci stancassimo, venendo meno nella via difficile della virtù e della salvezza. Maria sia per noi l’esempio indimenticabile della pazienza invitta e invincibile, della virtù vittoriosa, dell’animo irremovibile, a tal segno che sia impossibile alla tribolazione più forte e anche alla creatura più affascinante di separarci dall’amore di Cristo» (San Lorenzo da Brindisi, Mariale I, 1, 7).
Santi dolori di Maria! Per ogni anima modello e via dell’eterna Gloria!

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