FEDE E CULTURA
La battaglia di Hara. I samurai che lottarono per la Fede
dal Numero 18 del 5 maggio 2013
di Padre Angelomaria Lozzer, FI

Fu una grande conquista, l’instaurazione della Fede cattolica anche nel Giappone del XVI secolo, avviata da san Francesco Saverio, continuata dai confratelli gesuiti dopo la sua morte. Un’ardua battaglia anche per i cristiani autoctoni, che dovettero testimoniare la Fede anche con il sangue.

Il Cristianesimo giunse in Giappone grazie a un fortuito incontro a Malacca del grande apostolo delle Indie san Francesco Saverio con un fuggiasco giapponese. Nell’incontro, avvenuto nel dicembre del 1547, il fuggiasco di nome Anjiro, espose al Santo la situazione di ignoranza completa in cui si trovava il suo popolo nei confronti della Fede, riempiendo di compassione e di zelo l’anima del pio Gesuita, il quale non tardava ad abbandonare la Malesia per recarsi in Giappone.
Il Paese si rivelò subito, anche per un santo del “calibro” di san Francesco Saverio, difficile da convertire a motivo della mentalità, della cultura e della struttura politica instabile. La figura “unificante” dell’imperatore, infatti, era ormai divenuta fittizia e l’Arcipelago si trovava frammentato in tanti feudi che si contendevano tra loro il potere. La maggior parte della popolazione, circa l’80%, era contadina e considerata dai signorotti locali alla stregua degli animali, soggetta continuamente ad un duro lavoro spossante. Su di loro pesava tutto il Paese. Dovevano versare ai loro padroni due terzi del raccolto, nonché prestare parte del tempo alla manodopera della costruzione dei castelli. Se a motivo dei terremoti o delle carestie il raccolto mancava, i signori locali, detti daimyo, non mancavano di costringere i contadini ridotti al lastrico a dare ugualmente quanto dovevano, pena la morte. Il resto della popolazione era costituito dalle famiglie di corte dei vari daimyo e dai samurai che prestavano loro servizio e che nelle continue battaglie tra i feudi rappresentavano la forza e il potere del signore locale.
La cultura giapponese si trovava priva di quei concetti basilari che costituiscono il “sostrato umano” del Cristianesimo, come il concetto di individualità, di responsabilità personale, di peccato. Vigeva fortemente, invece, un senso di obbedienza letterale e indiscussa nei confronti dei propri signori (anche nel caso imponessero il suicidio) con un concetto esorbitante di collettività: «Ogni chiodo che sporge verrà ribattuto» (proverbio giapponese). Per cercare di comprendere questa intricata cultura è bene ricordare che l’imperatore, per secoli, sin dalle origini, aveva rappresentato il potere politico e religioso del Paese. Basti dire che per oltre 2000 anni regnò, almeno concettualmente (secondo la nostra mentalità occidentale in modo non sempre reale e oggettivo), ininterrottamente e solo la stessa dinastia imperiale. L’imperatore in Giappone non dominava e governava per “mandato celeste”, ma perché realmente “divino”, quale diretto discendente della dea solare Amaterasu Omikami. Solo lui poteva conferire un mandato a governare, come accadeva con gli stessi potenti shogun, che da un punto di vista concettuale governavano solo e in forza del fatto che l’imperatore concedeva loro di farlo; da lui dovevano ricevere formale investitura e da lui ne attingevano quell’autorità a cui il popolo si sottometteva religiosamente.
San Francesco Saverio si rese subito conto, quindi, che per evangelizzare questo Paese era necessario partire da chi ne deteneva il potere, alla stregua di quanto era avvenuto in Europa al tempo dei barbari: indirizzarsi ai contadini voleva dire, per la mentalità giapponese, avvilire il messaggio evangelico ad un rango infimo e non credibile. C’era poi un altro fattore determinante di cui tener conto: per la mentalità giapponese la verità, la saggezza e il progresso venivano solo dalla Cina. Tanto che lo stesso Francesco Saverio pensò di volgersi alla “conquista” della Cina. Purtroppo però la morte lo colse prima di poter realizzare questo suo progetto.
I Padri gesuiti proseguirono l’opera del Saverio e nel 1563 ottennero in Giappone la conversione del primo daimyo, Omura Sumitada. Sebbene la sua conversione fosse più legata agli affari con i portoghesi che a una vera convinzione di fondo, Omura concesse ai missionari il porto di Nagasaki che divenne ben presto il centro principale del Cattolicesimo dell’Isola.
    Qualche anno dopo, anche il grande Oda Nobunaga permise ai Gesuiti la costruzione di una chiesa nella capitale, per equilibrare le forze interne e frenare il crescente potere dei Bonzi, nonché assicurarsi l’amicizia degli europei. Questo fatto fu di capitale importanza per i cristiani, perché Oda Nobunaga, sconfiggendo lo shogun Ashikaga Yoshiaki, aveva assunto in pratica gli uffici dello shogunato  prendendo negli anni il controllo di più di un terzo delle province giapponesi (29 su 66). L’atteggiamento di apertura di Oda Nobunaga nei confronti dei cristiani facilitò la conversione al Cattolicesimo di molti daimyo che ricevettero il Battesimo insieme ai loro sudditi. Oda Nobunaga però venne tradito da un suo vassallo e ucciso. Gli succedette il suo generale Toyotomi Hideyoshi. In quel tempo tra i daimyo cristiani si trovava un certo Takayama Ukon, di cui ora si è avviato anche il processo di beatificazione, vassallo prima di Oda e poi di Hideyoshi, distinto per fede e pietà. Egli era riuscito a conquistare il beneplacito e la simpatia della corte in favore dei cristiani al punto che Hideyoshi stesso arrivò a promettere di ricevere il Battesimo, imponendo la Fede cristiana a tutti i sudditi. Hideyoshi però coltivava mire espansionistiche e voleva soprattutto accattivarsi i portoghesi da cui sperava aiuto nel suo progetto folle di conquistare tutta l’Asia. Il gesuita padre Coelho però non gli diede peso e assicurò a Hideyoshi solo l’aiuto dei daimyo cristiani. Inoltre, gli chiese di abbandonare le concubine con cui conviveva se intendeva ricevere il Battesimo. Tutto questo evidentemente alterò Hideyoshi. Sobillato dai bonzi (che gli procuravano le concubine), si insospettì che i missionari facessero il doppio gioco e preparassero il terreno alla conquista dei portoghesi e decise di bandire il Cattolicesimo. Pietro Battista, Paolo Miki e 24 compagni vennero crocifissi a Nagasaki a monito di tutti quei cristiani che avessero voluto proseguire sulla stessa strada.
In seguito alla morte di Hideyoshi, la reggenza passò a Tokugawa Ieyasu che, uccidendone l’erede, si proclamò Shogun del Paese. Dopodiché ordinò a tutti i sudditi di rinnegare il Cristianesimo e di tornare alle religioni precedenti. Quando Ieyasu cedette lo shogunato al figlio, fanatico buddista, iniziò una persecuzione ancora più capillare: le chiese vennero bruciate e molti cristiani uccisi. Nel 1622 lo shogunato passò infine al nipote di Ieyasu, Hidetada, il quale impose a tutti i cittadini l’ordine di dichiarare pubblicamente la propria religione. Chi avesse affermato di appartenere al Cristianesimo doveva immediatamente calpestare le immagini di Gesù e della Madonna, pena la morte. I cristiani che non rinnegavano la Fede subivano le più orride morti: venivano fatti bollire vivi, legati a croci in riva al mare nell’attesa che l’alta marea li sommergesse lentamente, segati in due, appesi a testa in giù con il capo negli escrementi, arsi vivi dopo averli unti con l’olio per divertirsi a vederli saltare e correre come spettacoli notturni, legati nudi nell’acqua gelata fin quando sopraggiungeva la morte, passati continuamente dal caldo al freddo in attesa del collasso, ustionati con dell’acqua bollente che veniva fatta cadere lentamente dalla testa ai piedi per mezzo di un imbuto, tagliati al collo lentamente con una sega alternando l’operazione con degli impacchi di sale...
I sistemi di morte erano tutti lenti e terrificanti, a volte persino fatti sotto controllo medico, perché le torture potessero protrarsi il più a lungo possibile e i cristiani avessero il tempo di abiurare la Fede. Nel giro di alcuni anni perdettero la vita centinaia di missionari e laici e alcuni purtroppo apostatarono.
In questo clima di terrore molti cristiani iniziarono una vita da catacombe. Le stesse immagini sacre venivano camuffate da divinità shinto, per cui la Madonna era rappresentata come la dea Amaterasu, ecc.

Nel triste squarcio di storia illustrato si inserisce anche la grande battaglia dei samurai cristiani.
La rivolta ebbe il suo inizio nel feudo di Arima e, come avviene spesso, per motivi finanziari. Il daimyo Matsukura Shigearu opprimeva i suoi sudditi fino all’inverosimile perché pagassero quanto dovevano. Era comune per esempio denudare la moglie e le figlie del debitore per svergognarle davanti a tutti, bruciacchiandole con tizzoni ardenti. Uno dei debitori il 17 dicembre del 1637 non potendo pagare il debito era fuggito in montagna e le guardie, non trovandolo, se l’erano presa con la figlia. Venuto a sapere la cosa, il debitore si vendicò uccidendo il samurai responsabile dell’accaduto. La notizia si sparse subito in un baleno accendendo la rivolta in tutto il feudo.
Nello stesso anno, a Shimabara, il giorno precedente la festa dell’Ascensione, un contadino notò che attorno all’immagine da lui venerata in segreto si era materializzata una cornice. Preso dal miracolo non poté fare a meno di annunciarlo anche agli altri cristiani e la notizia giunse alle orecchie dei soldati governatoriali che, giunti sul luogo, finirono per giustiziare tutti quelli che trovarono. Questo fu troppo però per i cristiani. Il giorno seguente alla festa dell’Ascensione 200 ronin o “uomini onda” (ossia ex samurai che avevano perduto il loro signore) ripresero in mano le armi e iniziarono la rivolta. Ben presto ad essi si unirono anche le popolazioni contadine di Arima che si erano ribellate per motivi finanziari. Elessero come capo della rivolta Amakusa Shiro, che venne subito considerato dai cristiani come l’Inviato del Cielo per liberarli dalle mani del nemico: una sorta di santa Giovanna d’Arco del Giappone. Difatti, sembrava pienamente incarnare una profezia che i cristiani giapponesi si tramandavano e che da alcuni era attribuita allo stesso Francesco Saverio. I segni della profezia in lui trovavano perfetto compimento: due volte era stata vista l’aurora boreale, prima a est all’alba e poi a ovest al crepuscolo, i ciliegi erano fioriti in anticipo e il ragazzo aveva esattamente due volte otto anni. Shiro era inoltre figlio di uno dei più grandi samurai del Giappone, che durante gli editti persecutori aveva continuato a predicare il Vangelo senza che nessuno dei governativi avesse osato mai affrontarlo.
Il giovane sedicenne si mostrò subito ricco di doti non comuni, ottenendo la conversione di vari pagani che si erano uniti alla rivolta solo per motivi finanziari. Egli predicava loro, insegnando la Dottrina di Cristo e il suo Vangelo.
Il governo centrale, che a quel tempo si trovava a Edo, in principio sottovalutò la portata dell’insurrezione, lasciando al governo locale di Shimabara il disbrigo della faccenda. Il daimyo, vedendosi però impotente a frenare la ribellione con mezzi amministrativi ordinari, e d’altra parte temendo la perdita della carica per incapacità di governo, pensò di arginare la cosa chiedendo subito l’autorizzazione per un intervento militare. Tokugawa Iemitsu lo permise, affidando però il coordinamento delle truppe al generale Itakura Shigemasa, coinvolgendo nella battaglia gli altri signori del Kyushu. Gli insorti, con a capo il giovane Shiro, nel frattempo pensarono di barricarsi nel castello abbandonato di Hara, collocato su un promontorio che dava sul mare, per fare di essa la loro roccaforte di difesa. Tre lati del castello erano circondati d’acqua, mentre il quarto era raggiungibile solo varcando una palude e un tratto di terreno pianeggiante completamente scoperto. Il castello era guarnito di tre cinta di mura a cui i cristiani issarono subito bandiere bianche fregiate di croci. Il generale Itakura inviò le forze governative nei villaggi insorti di Amakusa, ma vi trovarono solo qualche vecchio e qualche malato che non era riuscito a fuggire e lo uccisero, razziando e bruciando tutto quanto trovarono. Poi, si diressero al castello di Hara e lo assediarono. I cristiani intanto non cessavano di cantare inni religiosi e di ascoltare le prediche dell’Inviato del Cielo, rispettando tutte le festività religiose, nella speranza che il governo cedesse e impartisse leggi a favore della libertà religiosa. I governativi, invece, passavano il tempo in litigi e alterchi, tanto più che, appartenendo a feudi diversi, finivano spesso per trovarsi in diverbio e azzuffarsi tra loro. In cambio però avevano il vantaggio di essere in numero esorbitante e tutti soldati di mestiere, con cibo e vestiario in abbondanza, mentre nel castello gli insorti erano in maggioranza contadini, con donne e bambini, ridotti per di più alla miseria e alla fame, tanto che furono costretti a uccidere quei pochi uccelli che passavano in volo sopra il castello e a calare lunghe lenze in mare col pericolo costante del tiro delle navi nemiche, nel tentativo di acciuffare qualche pesce. Itakura all’inizio pensò di distruggere le mura del castello a palle di cannone, ma per la distanza e la robustezza delle mura non ottennero praticamente niente. Cercò allora di penetrare con i suoi uomini all’interno del castello scavando un lungo passaggio sotterraneo, ma i cristiani se ne accorsero e in breve il tunnel venne riempito di fumo, di pietre e di escrementi, costringendoli alla fuga.
Il governo intendeva evidentemente soffocare l’insurrezione con rapidità e con meno perdite possibili, allo scopo di salvare la propria reputazione, ridimensionare la ribellione ed evitare che essa dilagasse altrove.
Per la prima volta, in una guerra aperta, vennero persino ingaggiati dei ninja (“uomini invisibili”), disprezzati dai samurai per il fatto che uccidevano le persone a tradimento. Essi, approfittando del buio, s’infilarono nel castello con lo scopo di seminare il panico e la morte, ma vennero scoperti e pochi riuscirono a sottrarsi al tiro dei cristiani.
Le settimane passavano in fretta e il governo non otteneva ancora niente. Lo Shogun iniziò a preoccuparsi della situazione e decise di inviare altre 60 navi da guerra, affidando l’operazione militare ad un generale più capace. Il generale Itakura, che voleva evitare la vergogna di essere ritenuto un inetto, e non intendeva neanche perdere il merito della vittoria, appena seppe dell’approssimarsi del nuovo generale Matsudaira Nobutsuna, volle tentare un attacco generale al castello che si trasformò in una vera sconfitta e carneficina, con la perdita di ben 4.000 uomini governativi e della sua stessa vita. Il nuovo generale Matsudaira, che non voleva ripetere la follia di Itakura, né perdere altri uomini, pensò di intavolare un compromesso con i rivoltosi, inviando ambascerie che assicuravano ai ribelli in caso di arresa il perdono governativo con l’aggiunta di un premio in risaie. I cristiani risposero che accettavano l’arresa solo se in cambio il governo assicurava la libertà di professare la Fede cristiana, manifestando in tal modo chiaramente che essi lottavano solo per la Fede. Matsudaira però questo non poteva accordarlo, perché di competenza riservata allo Shogun. Pensò allora di chiedere aiuto agli olandesi, che possedevano cannoniere di gran lunga più efficaci di quelle giapponesi e in grado di danneggiare le mura.
Di fede protestante e soprattutto preoccupati di conservare con il governo il così fragile rapporto diplomatico, gli olandesi finirono per assecondare la richiesta del governo. Dopo alcuni giorni di bombardamento, però, agli olandesi venne chiesto di ritirarsi. Matsudaira, infatti, si era reso conto che per il più grande esercito visto in Giappone, composto da 100.000 samurai, contro un paio di centinaia di ronin e un gruppo di contadini, chiedere l’intervento di stranieri equivaleva a perdere la faccia dinanzi a tutti. Decise allora di pazientare per prendere i cristiani con la fame. Dopo circa tre mesi Matsudaira comprese che i cristiani erano ormai alla fame e le munizioni agli sgoccioli e il 12 aprile 1638 sferrava il colpo finale. La battaglia si protrasse per due giorni con numerosissime di perdite da ambedue le parti. Le tre mura vennero conquistate una dopo l’altra dai governativi, i cristiani messi al muro e tutti sterminati. 20.000 teste cristiane vennero appese ai pali sulla spianata di fronte al castello, mentre quella di Shiro fu esposta pubblicamente nella città di Nagasaki come monito per tutti. La figuraccia del governo tuttavia era stata tale che il progetto di conquista delle Filippine poteva dirsi accantonato del tutto e la Penisola si chiudeva ermeticamente a tutto il resto del mondo.
La Fede cristiana venne sempre più perseguitata, ma l’eroismo di Shiro e dei suoi uomini non venne dimenticato. Le loro gesta rimasero vive, dando la forza a tanti cristiani che si trovavano tra persecuzioni e sofferenze, di rimanere saldi nella fede. Essi continuarono a tramandarsi di nascosto la fede di padre in figlio nell’ardente attesa che il Signore inviasse loro nuovamente dei missionari.
Due secoli più tardi, padre Bernard Petjean poté inaugurare finalmente una chiesa cattolica in suolo giapponese, anche se essa restava per ordine del governo tassativamente vietata ai giapponesi e riservata esclusivamente agli occidentali residenti. Il padre Petjean però, in quella chiesetta, ebbe la fortuna e lo stupore di imbattersi in un gruppetto di donne cattoliche giapponesi che, violando la legge, lo informavano dell’esistenza di una ventina di comunità cristiane nascoste in attesa di un sacerdote. Il padre Petjan entrò subito con prudenza in contatto con loro, ma i suoi movimenti vennero di lì a poco intercettati e molti cristiani uccisi.
Bisognò aspettare la Costituzione del 1899, perché il Giappone ammettesse la libertà religiosa e i cristiani potessero uscire allo scoperto.
Riguardando la storia, potremmo essere tentati di scuotere la testa dinanzi all’ostinata resistenza cristiana nei confronti di un governo ingiusto, considerandolo un sacrificio inutile. Così facendo però, dimenticheremmo che la realtà è molto più complessa di quello che appare a prima vista e le reti della Provvidenza molto più vaste di quelle visibili dall’occhio umano. Senza il sacrificio di Shiro e dei suoi compagni, le Filippine probabilmente sarebbero state conquistate e forse anche private della fede, i missionari che da lì sbarcavano per il resto dell’Asia non avrebbero più avuto un punto di appoggio, gli stessi cristiani giapponesi non avrebbero avuto quella forza e quell’esempio eroico per professare la fede e forse sarebbero successe tante altre cose, ma queste solo il Signore le sa.

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