FEDE E CULTURA
Santi avventurieri medievali. Vi raccontiamo le prime missioni francescane in Cina
dal Numero 5 del 31 gennaio 2021
di Carlo Codega

Ai primi palpiti missionari del cuore di san Francesco, che si erano volti verso il Vicino Oriente, seguirono quelli dei suoi figli che, già nei primi decenni di vita dell’Ordine, guardarono più lontano, all’Estremo Oriente, portando il Vangelo di Cristo fino in Cina. Ecco una pagina di storia gloriosa, coinvolgente e poco conosciuta.

«Il Padre san Francesco è il modello del missionario; il suo esempio, la sua Regola sono altamente missionari e consentono il massimo slancio apostolico diretto alla salvezza e alla santificazione delle anime» (Scritti Kolbe, n. 299).

Quando nel XX secolo san Massimiliano Maria Kolbe – con quella radicale sicurezza che caratterizza il suo stile – metteva per iscritto questa sua osservazione in una lettera a padre Floriano Koziura, l’Ordine Francescano aveva dietro alle sue spalle circa settecento anni di storia, molti dei quali spesi in effetti in fatiche missionarie in tutti i continenti della terra. Non c’è quasi angolo del globo che l’Ordine Francescano – nei suoi vari rami – non abbia toccato ed esplorato, non alla ricerca di avventure emozionanti o sensazionali scoperte, bensì zelando la salvezza e la santificazione delle anime.

Se è vero che i primi tentativi di penetrazione missionaria serafica, per impeto dello stesso san Francesco, si volsero al Nord Africa e al Vicino Oriente – nel tentativo di conquistare al vero Dio le anime dei seguaci di Maometto –, non a tutti è invece noto che l’Ordine Francescano, a pochi decenni dalla sua nascita, svolse il ruolo di precursore nel tentativo di portare il Vangelo di Cristo nell’Estremo Oriente, in particolar modo in Cina e in Mongolia. Ed è proprio questo l’argomento di cui ci occuperemo in questa serie di articoli, destinati alle prime missioni francescane in Cina, ovvero le missioni medievali, alle quali sono seguite quelle dell’epoca moderna e contemporanea, interrottesi quasi completamente a causa dell’avvento al potere di Mao Tse-Tung... Che la Madonna possa nuovamente aprire le porte di questo territorio immenso e i cuori di questo popolo che tante volte ha accolto, e altrettante ha rigettato, il nostro amato Gesù Cristo! In fondo ai loro cuori – spesso tanto rivolti alle cose materiali più che a quelle celesti – rimane la sete e il desiderio dell’unico Dio vero: che schiere di nuovi figli del Serafico Padre possano portare loro ciò che unicamente può riempire i loro cuori.

La Cina tra XIII e XIV secolo:  la dominazione mongolica

A mo’ di introduzione non possiamo evitare di spendere un paragrafo per descrivere la situazione politica della Cina tra il XIII e il XIV secolo, ovvero il periodo interessato dalle vicende che andremo a narrare. In effetti si tratta di un periodo singolarissimo nella storia travagliata e complessa – per quanto a noi europei spesso sconosciuta – di questo immenso popolo e delle varie entità politiche che lo hanno governato: in effetti a un periodo di grande splendore culturale e scientifico ma di divisione politica e di debolezza militare – quale fu quello della dinastia Song – dette la scure l’ingresso impetuoso del popolo mongolo sul proscenio della storia. Guidato da quel Temujin (1162-1227) – alle nostre fonti noto piuttosto con il suo titolo, Gengis Khan –, che ebbe il grande merito di accentrare nelle sue mani la guida di tutte le tribù mongole e di gran parte di quelle tatare, nel 1213 i mongoli irruppero nel cuore della Cina, tra la Grande Muraglia e il Fiume giallo, sconfiggendo a più riprese l’esercito imperiale e conquistando numerose città. Nel 1215 la capitale Yanjing (poi Bejing e infine Pechino) cadde nelle mani dei mongoli, senza che ciò significasse la resa definitiva dell’imperatore cinese, che avverrà solo nel 1234, sotto il successore di Gengis Khan, Ogodei Khan. Quest’ultimo, che regnò dal 1227 al 1241, è noto alle nostre fonti soprattutto per l’invio in Europa di un immenso esercito sotto la guida di un nipote di Gengis Khan, Batu. Dopo aver devastato i Paesi Baltici, la Polonia e la Boemia, quest’esercito implacabile si spinse fino al Friuli – con l’intenzione non troppo velata di prorompere nella Penisola e giungere a Roma –, sennonché la morte dell’imperatore e la convocazione del kuriltai – l’assemblea della nobiltà mongola – costrinse l’intero esercito, con altrettanta celerità, a tornare indietro per eleggere il nuovo sovrano. E proprio qui ci interrompiamo, perché proprio qui inizia la nostra storia...

Il Cristianesimo in Cina

I Lettori mi concederanno una ulteriore piccola digressione prima di entrare in medias res, ma è necessario sottolineare che il Cristianesimo non era un totale sconosciuto nelle terre dell’Impero celeste. Nel XVII secolo, tra il 1623 e il 1625, nei pressi di Sian, nello Shaanxi, venne trovata una stele intitolata Memoriale della propagazione della luminosa religione di Da Qin in Cina, con due serie di testi paralleli, una in siriaco e una in latino. Non ci volle molto tempo a identificare la luminosa religione di Da Qin (che letteralmente indicava l’Impero Romano) come il Cristianesimo, del cui arrivo in quei territori ci dà contezza proprio questa stele commemorativa. Fu merito del monaco Alopen, un missionario inviato dalla Chiesa nestoriana, se la religione di Gesù Cristo – seppur nella forma imperfetta dell’eresia nestoriana – giunse in Cina e, se diamo ascolto alla stele, il successo e la diffusione della “luminosa religione” sotto la tollerante dinastia Tang fu enorme: tra il 635, data dell’arrivo di Alopen, e il 781, data dell’erezione della stele, numerosi monasteri furono fondati e il Cristianesimo poté così arrivare in molte città della Cina settentrionale e centrale. Questa benefica ondata fu purtroppo interrotta da un’ondata di intolleranza religiosa e nazionalista nel IX secolo, che portò alla distruzione di migliaia di templi e monasteri di tutte le religioni... soprattutto il nascente e debole seme cristiano ne fece le spese, rimanendo confinato in alcuni nuclei famigliari senza possibilità di culto pubblico, e osteggiato dalla vigente dominazione. Per vedere un’opportunità di crescita per questo seme, oppure anche una nuova e più benefica semina del Cattolicesimo romano, in effetti si sarebbe dovuto aspettare un momento in cui alla guida del Celeste Impero ci fosse una famiglia di discendenza non cinese… e il momento opportuno avvenne appunto con il khanato mongolo.

Il “Tartaro” in Europa e il Concilio di Lione

La grande paura causata dall’avanzata dell’esercito mongolo in Europa – che aveva devastato Kiev e Cracovia, e surclassato l’esercito ungherese – aveva portato le genti europee ad una storpiatura linguistica, destinata ad avere grande fortuna nei secoli successivi: la paura per quell’esercito “infernale”, aveva reso i “tatari” (una delle popolazioni che accompagnavano i mongoli) “tartari”, con esplicita allusione all’Inferno, il Tartaro della mitologia greca. Fatto sta che, una volta trasportati per così dire in terreno teologico, anche il Concilio di Lione del 1245 ritenne di doverne trattare come uno dei cinque drammi della Cristianità, in una sessione appositamente dedicata a questo. Afflitta dal fallimento degli ultimi tentativi crociati, lacerata dalla lotta intraeuropea con l’imperatore Federico II, la Chiesa – portavoce della Christianitas medievale – si vedeva ora assalita da una nuova e inaspettata forza, che sicuramente creava una certa apprensione. Torneranno questi inarrestabili assalitori delle steppe asiatiche che, «senza rispetto per l’età e per il sesso con una crudeltà orribile e inaudita» aveva messo alle corde i popoli cristiani? In effetti il Concilio non sa dare una risposta precisa al problema se non richiamare tutti alla vigilanza e a mantenere efficienti le strutture difensive, promettendo l’aiuto della Sede apostolica.

Al di là però della sobrietà dei canoni conciliari, in effetti la Santa Sede, nella persona del Sommo Pontefice Innocenzo IV, elaborò un progetto piuttosto ambizioso (ora, post eventum, diremmo anche fantasioso...) che comportava non il tentativo di sfidare militarmente i mongoli, quanto piuttosto di iniziare delle trattative diplomatiche che avessero come fine quello di trovare in questo popolo apparso dal nulla un alleato contro l’islam e – eventualmente – anche contro l’imperatore ribelle. Ovvero, con una buona dose di ottimismo, il Papa aveva l’intento di arruolare i mongoli nel rilancio dei crociati... naturalmente, come corollario di questo intento, l’imperatore mongolo avrebbe dovuto abbracciare il Cristianesimo e, in qualche modo, riconoscere la superiorità del Papa.

L’ottimismo papale sulla buona uscita di questa operazione diplomatica veniva forse anche da una “leggenda” (ma non priva, come vedremo, di fondamento nella realtà) – già diffusa da quasi un secolo e destinata ad ulteriore fortuna. Si tratta delle leggenda del “Prete Gianni”, un sovrano-sacerdote orientale, di Religione cristiana nestoriana, che presiedeva un immenso e ricchissimo regno cristiano, nel bel mezzo degli infedeli, e che avrebbe potuto essere la chiave di volta per l’estensione della Christianitas in Oriente, soprattutto contro i musulmani. La domanda che balenò nelle menti di molti fu proprio questa: non è che proprio questo popolo misterioso, arrivato improvvisamente in Europa, sia il tanto atteso popolo del Prete Gianni venuto a dar manforte al Cristianesimo nella lotta contro l’islam?


Il precursore: fra’ Giovanni da Pian del Carpine

Non sappiamo in realtà quanto la leggenda del “Prete Gianni” abbia influenzato il giudizio del Papa e dei cardinali, ma con certezza possiamo dire che Innocenzo IV si affrettò a trovare un ambasciatore da mandare verso Oriente, al sovrano dei mongoli, dotandolo di lettere credenziali. Il primo prescelto fu un francescano al quale il Papa diede una lettera per il Gran Khan con la richiesta di convertirsi al Cristianesimo, di smettere gli attacchi alla Cristianità, anzi di allearsi con questa in chiave antimusulmana. Il Francescano però – di cui non conosciamo il nome – non ebbe l’ardire e declinò l’offerta. Non così il domenicano francese Andrea de Longjumeau, al quale però fu chiesto di andare innanzitutto in ambasciata presso la Chiesa nestoriana in Persia, per invitare il patriarca a prendere parte a un futuro Concilio Ecumenico sotto la guida del Papa.

L’effetto della doppia commissione fu però che il domenicano si limitò a svolgere quest’ultima missione religiosa, mentre, riguardo alla missiva diretta al Gran Khan, preferì, giunto ai primi avamposti mongoli, consegnarla a questi senza penetrare nelle sperdute steppe dell’Asia Centrale. Non più fortuna ebbe un altro domenicano, Anscellino da Cremona, il quale per essersi testardamente rifiutato di prestare omaggio a qualche capo mongolo, si limitò a consegnare le missive a questo, venendo poi riaccompagnato a forza a Lione da due inviati mongoli.

A questo punto urgeva la scelta di un uomo più competente e provato nelle virtù, e questo fu trovato in un religioso che assommava in sé dottrina e semplicità, arditezza e mitezza. Un francescano, dunque, ma non un francescano qualsiasi... un francescano della prima generazione, di quelli che avevano conosciuto direttamente san Francesco. Fra’ Giovanni da Pian del Carpine, secondo gli storici, era infatti uno dei primi dotti entrati nell’Ordine Francescano, attorno al 1215, ai quali san Francesco – pur allenandoli nella pratica dell’umiltà e del disprezzo – aveva presto affidato incarichi di prestigio. Dopo infatti la prima e rocambolesca spedizione in Germania dei Francescani, nella quale – a causa della totale ignoranza della lingua – i frati rischiarono di essere messi a morte come eretici, nel 1219 il Capitolo Generale incaricò fra’ Giovanni da Pian del Carpine di guidare un nuovo tentativo missionario in Germania. Questa volta l’effetto fu più favorevole: prima come predicatore, poi come custode e per molti anni come provinciale, la missione in Germania prosperò, contando che la provincia tedesca si estendeva anche ai territori dell’attuale Norvegia e Danimarca a nord, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria a sud-est. Fra’ Giovanni, anzi, giocò un certo ruolo nella collaborazione con la principessa boema Agnese, figlia di Ottocaro, nella sua scelta di lasciare il mondo, farsi clarissa e fondare diversi conventi in quella zona.

10.000 chilometri per Karakorum


Era dunque il 16 aprile 1245 quando da Lione il nostro fra’ Giovanni da Pian del Carpine, insieme al compagno di viaggi fra’ Stefano boemo, si avviò verso le strade dell’Oriente, con le lettere papali per il Gran Khan dei mongoli e i rappresentanti delle Chiese orientali. Prima di tutto però il nostro Francescano, insignito del titolo di legato papale, visitò il re Venceslao di Boemia e il duca di Slesia. Proprio a Breslavia, nell’attuale Polonia, fra’ Giovanni poté constatare i segni della celeberrima “saevitia tartaroum”, ossia della proverbiale violenza manifestata dai mongoli nella loro spedizione europea. Qui ebbe però anche la ventura di incontrare l’inseparabile compagno di viaggio, fra’ Benedetto polono, che si unì a lui. Anche il passaggio da Kiev, rasa al suolo dalle truppe mongole, non lasciò dubbi sulla tempra di questo popolo sconosciuto che, nei sogni del Pontefice Romano, poteva costituire – come gli antichi germani – il “sangue nuovo” con cui rinnovare la Cristianità medievale.

Dopo diverse soste per visitare i vescovi russi, nella regione del Volga i tre frati francescani raggiunsero l’avamposto mongolo: lo spirito di osservazione, l’adattabilità ai costumi e alle usanze popolari oltre che un certo rispetto che sortiva dalla sua matura personalità, sancirono il successo di fra’ Giovanni da Pian del Carpine presso i signori mongoli. Le lettere del Pontefice vennero fatte tradurre in persiano, così da essere comprensibili anche per i maggiorenti mongoli, mentre i tre frati furono dotati di cavalli per poter coprire in tempo utile gli oltre 6.000 chilometri che mancavano a giungere a Karakorum (a cui vanno sommati i 4.000 già percorsi). Lasciato fra’ Stefano di Boemia, troppo affaticato per proseguire, fra’ Giovanni e fra’ Benedetto cavalcarono per 67 giorni di fila, avendo cura però sempre di fermarsi e presentarsi ai vari accampamenti mongoli, tra cui soprattutto quello del celebre Batu, nipote di Gengis Khan e condottiero della spedizione europea.

Nel lungo viaggio il nostro attempato frate ebbe cura di prendere molti appunti e descrizioni di ciò che osservava e sentiva, e questo fu la base per il lavoro a cui è collegata la sua celebrità: l’Historia mongolorum, che in realtà più che una storia è una precisa opera etnografica non priva – come ha fatto notare qualcuno – di una certa propensione spionistica verso l’avversario, di cui vengono descritte con una certa accuratezza le tecniche militari e gli equipaggiamenti.

Davanti al Gran Khan


In tal modo il 22 luglio poterono giungere a Karakorum, ex città dell’Impero cinese trasformata da Ogodai Khan nella capitale del regno mongolo. La Provvidenza volle che arrivassero proprio mentre era in corso la kuriltai, ovvero l’assemblea per l’elezione del sovrano: la morte di Ogodai infatti aveva dato luogo a una vacanza di alcuni anni sotto la reggenza – molto contrastata – della moglie, che nel frattempo aveva atteso la maturità del figlio, Guyuk. E proprio questi alla fine venne eletto imperatore dei mongoli.

I due francescani vennero ospitati per ben 4 settimane nel palazzo imperiale, con tutto il rispetto dovuto agli ambasciatori del più “potente” sovrano occidentale... nonostante questo, secondo le usanze del luogo, non poterono mai parlare di persona con il Khan Guyuk ma solo per interposta persona. Il sovrano comprese comunque l’importanza della loro missione e ricevette con benevolenza le missive del Papa, ma la sua posizione era diametralmente opposta a quella del Pontefice: se c’era qualcuno che poteva ambire al titolo di rappresentante di Dio sulla terra, questi non era il Papa, bensì lo stesso Gran Khan e i successi militari stavano a dimostrare la benedizione divina sulle sue imprese. Quindi non era lui a doversi inchinare davanti al Papa, ma il Papa doveva sottomettersi a lui.

Nonostante la radicale opposizione di vedute e il sostanziale fallimento pratico della spedizione, ciò servì ad allacciare una prima volta i contatti tra la Christianitas e questo nuovo popolo. Il Gran Khan anzi avrebbe voluto far accompagnare i frati da suoi ambasciatori e rappresentanti ma fra’ Giovanni rifiutò, preferendo compiere da solo con il confratello la via del ritorno. Compiendo la medesima strada e con una nuova e prolungata sosta presso il potente e invincibile Batu, i due giunsero a Kiev dove furono accolti come dei “morti risuscitati”, talmente impossibile veniva considerata allora la loro impresa. Proseguirono per Lione dove poterono discutere con il Pontefice e dove fra’ Giovanni poté raccogliere i suoi appunti nell’Historia, che amava spesso presentare a tutti coloro con cui si trovava a discorrere. La sua impresa fu comunque premiata dal Pontefice con la nomina a vescovo di Antivari, nel territorio dell’attuale Montenegro, dove si recò e dove presumibilmente concluse i suoi giorni.

San Luigi IX e fra’ Guglielmo da Rubruck

Non passarono molti anni dopo l’impresa di Giovanni da Pian del Carpine, prima che un altro figlio di san Francesco fosse chiamato a calcare le orme del predecessore, per trovarsi di nuovo a Karakorum alla presenza del Gran Khan. In questo caso in realtà cambiano molte circostanze rispetto alla precedente spedizione, ma l’impresa è altrettanto grandiosa, per quanto altrettanto fallimentare rispetto all’esito propostosi. Siamo nel 1253 in Terra Santa quando, verso il termine della VII Crociata, san Luigi IX, il santo re di Francia, convocava al suo cospetto uno dei frati che aveva accompagnato la sua spedizione: si trattava del fiammingo Guglielmo di Rubruck, uomo di forza fisica ineguagliabile, temperamento sanguigno e intelletto rapido e capiente, ma non privo di certe asprezze di carattere. La missione che il santo Re affidò a questo francescano di sua fiducia non era comunque delle più semplici. Ovunque in Terra Santa si parlava della conversione del condottiero mongolo Sartaq al Cristianesimo – forse una nuova variazione sul tema della leggenda del “Prete Gianni” – e san Luigi voleva che si verificasse questa voce e si invitasse il neoconvertito e lo stesso Gran Khan a scendere con le loro truppe in Palestina per liberare dagli infedeli la Terra bagnata dal sangue di Nostro Signore Gesù Cristo.

Il motivo del viaggio non era comunque principalmente diplomatico ma religioso: in ogni caso il frate avrebbe dovuto tentare di convertire e battezzare i mongoli, a partire dai loro capi. Per fare ciò san Luigi affidò al frate un compagno di viaggio, fra’ Bartolomeo da Cremona, un chierico accompagnatore, il francese Gosset, un presunto interprete arabo, Homodei (Abdullah) – le cui competenze si riveleranno piuttosto discutibili – a cui si aggiungerà più tardi uno schiavo acquistato a Costantinopoli. Il gruppo dei nostri eroi partì nella primavera da San Giovanni d’Acri per raggiungere Costantinopoli, traversarono poi il Mar Nero e con una carovana risalirono la Crimea fino alla piana del Don, dove finalmente poterono incontrare nel luglio del 1253 Sartaq, capo della cosiddetta Orda d’oro, il khanato mongolo più occidentale. Delusi dalla falsità della notizia, il gruppo ricevette comunque l’invito del gentile Sartaq a continuare il loro viaggio verso est per incontrare il padre, il già noto Batu, nipote di Gengis Khan, presso cui aveva dimorato anche fra’ Giovanni da Pian del Carpine. Anche questi però, senza in alcun modo dimostrare qualche volontà di convertirsi, li inviò al Gran Khan stesso per quanto riguardava la spedizione in Terra Santa.

Un francescano fiammingo tra le steppe dell’Asia Centrale

Ecco dunque i nostri due frati con l’interprete arabo riprendere il cammino verso est, per un viaggio che durante il freddo autunno della steppa sarebbe durato tre mesi, molte fatiche ma anche molti incontri curiosi e avventurosi. Superato l’Ural e passando per il Kazakistan, il gruppo trovò la “comoda” strada commerciale che dalla Persia si dirigeva in Mongolia e su questa percorse a piedi i rimanenti 1.500 chilometri. Fra’ Guglielmo era talmente osservante della regola francescana che rifiutò di compiere il viaggio a cavallo e per lungo tempo procedette a piedi scalzi fino a quando, sulle montagne nevose dell’Altaj Nuru, di fronte al rischio di congelamento degli arti fu costretto a prendere delle calzature. In tal modo riuscì a giungere all’accampamento di Mongke Khan, il nuovo imperatore succeduto a Guyuk. A quei tempi infatti i mongoli mantenevano fieramente la loro identità semi-nomadica, pertanto non costruivano case fisse ma abitavano nelle loro tende: l’Imperatore stesso – che aveva fatto costruire un palazzo a Karakorum – preferiva comunque vivere nell’accampamento nomade.

Nonostante l’Imperatore li avesse invitati a prendere dimora nel palazzo di Karakorum, in attesa del suo arrivo lì, i frati preferirono condividere le sorti dell’accampamento nomade del Gran Khan, che non manifestava comunque grande fretta nell’incontrarli. Al pari di fra’ Giovanni da Pian del Carpine, anche fra’ Guglielmo ci ha lasciato una relazione del suo viaggio in Mongolia-Cina, la quale risulta uno dei migliori pezzi di letteratura di viaggio dell’intera storia medievale. A differenza del predecessore, fra’ Guglielmo non ha di mira la descrizione dei costumi mongoli e dei luoghi visitati, ma piuttosto racconta i suoi viaggi, le molteplici avventure affrontate, le dispute con buddisti e sacerdoti nestoriani e i variegati incontri in quel pezzo di mondo, non tanto isolato come si potrebbe credere. Tra questi va ricordato che nell’accampamento del Gran Khan i due francescani incontrarono l’orefice Buchier – catturato in Ungheria insieme alla madre – al quale il Khan aveva commissionato per il palazzo di Karakorum una fontana di oro e argento da cui fuoriuscissero continuamente bevande... opera che purtroppo non sappiamo se riuscì a realizzare, ma che è presente in tutte le più o meno fantasiose rappresentazioni di Karakorum da parte degli europei.
Grande sorpresa fu comunque quella di trovare nell’accampamento del Khan anche una tenda con una croce sopra – probabilmente luogo di culto dei pochi cristiani nestoriani presenti – nella quale Guglielmo stesso ci racconta di essere entrato pieno di entusiasmo e aver cantato a squarciagola la Salve Regina.

Le gocce di latte e l’inferno

Celebrata la Pasqua secondo gli usi e la datazione cattolica, in mezzo a nestoriani aggressivi, buddisti oltranzisti e musulmani, finalmente i francescani ebbero la possibilità di parlare con il Gran Khan Mongke. Questi però rifiutò la proposta di san Luigi IX e piuttosto replicò che era il re di Francia a doversi sottomettere a lui e non viceversa. Lo smacco politico non fu però compensato nemmeno da conquiste apostoliche: tra i cristiani prigionieri e avventurieri riuscì a battezzare solo sei persone e dal loro apostolato non vennero nemmeno molte conversioni. Molto era dovuto alle difficoltà linguistiche e alla scarsa vena del loro interprete arabo... Solo dopo l’incontro con l’orafo Buchier, perfettamente bilingue, i francescani ebbero più zelo e interesse nel predicare il Vangelo.

A un certo punto il khan propose comunque a fra’ Guglielmo una disputa alla sua presenza con un buddista e un musulmano per dimostrare la verità della Religione cristiana: anche se superò i suoi contendenti per eloquenza e dottrina, ad ogni modo il dotto fra’ Guglielmo non riuscì a conquistare il consenso del sovrano. Sembra che questi in particolar modo sia stato contrariato dal fatto che il francescano, innanzitutto, abbia chiesto la conversione con la minaccia dell’Inferno eterno... Davanti a questo il khan Möngke disse al frate che quando una mamma si appresta ad allattare un figlio prima di tutto gli fa cadere qualche goccia di latte dolce e solo poi gli porge il seno. Questo per dire che sarebbe stato meglio mostrare gli aspetti positivi ed attraenti della Religione cristiana, piuttosto che minacciare le pene eterne. Sembra che anche di questo fra’ Guglielmo fece tesoro, insieme alla necessità di conoscere la lingua o avere buoni interpreti... tanto che a un gruppo di domenicani incontrati durante il viaggio di ritorno, proprio queste cose consigliò come requisito della missione.

Ad ogni modo venuta l’estate il Gran Khan chiese a fra’ Guglielmo di tornare in Terra Santa, cosa che fece con riluttanza, in quanto il compagno non godeva di buona salute... per questo il Khan offrì di farlo riaccompagnare con la prima carovana in partenza verso Occidente. Fra’ Guglielmo, invece, seguendo un’altra strada rispetto all’andata riguadagnò la via verso l’accampamento di Batu dove recuperò il servo e il chierico lì lasciati e tornò in Terra Santa. Qui non lo attendeva il re Luigi IX, già partito per la Francia, ma, dato che i superiori impedirono al frate di andare in Europa e lo nominarono lettore di filosofia del convento di Tiro, fra’ Guglielmo mise per iscritto i suoi ricordi come relazione diretta al Re, il che ha permesso anche a noi di conoscere le molte avventure di questo frate.

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