APOLOGETICA
La bellezza è nella dimensione della luce
dal Numero 45 del 15 novembre 2015
di Corrado Gnerre

La preziosa teoria agostiniana dell’illuminazione da parte di Dio dell’anima è stato il tesoro dell’arte Medievale, impregnata di Cristianesimo. Lo stesso Verbo Incarnato si definisce Luce venuta nel mondo; nella Rivelazione cristiana tutto è luce.

La vita può spiegare la vita? L’uomo può spiegare l’uomo? La storia può spiegare la storia? Immaginiamo una situazione di questo tipo: siamo in una stanza completamente buia e dunque non si vede nulla, c’è il rischio di andare facilmente a sbattere contro qualcosa. Improvvisamente irrompe la luce, tutto diventa visibile e chiaro; la semplice irruzione della luce con la dissipazione delle tenebre ha risolto tutto. Al buio i nostri occhi, in quanto organi, erano completamente sani così come prima che entrassimo nella stanza buia, dunque non vi era un’incapacità nostra a vedere, quanto il fatto che alla nostra capacità visiva mancava una condizione assolutamente necessaria perché si potesse esplicare, la luce appunto.
Ora, come gli oggetti non si conoscono attraverso gli oggetti qualora fossimo in un locale buio, così anche la vita dell’uomo non si spiega con la vita. Occorre la luce per tutto. Questa, di fatto, è stata la convinzione presente fino ad un certo punto della storia dell’arte; meglio: è stata la convinzione dell’arte prodotta nei secoli della fede cristiana. Il motivo lo capiremo tra pochissimo. 
Nel libro della Genesi, quando si parla della creazione, l’avvento della luce introduce alla nascita delle forme. Prima dell’inizio tutto è acqua, e l’acqua rappresenta la fluidità, cioè l’informe per eccellenza; non a caso, una nota frase idiomatica per indicare ciò che è impossibile dice: «...è come fare un buco nell’acqua»: il ghiaccio si può scolpire, l’acqua no. La forma è ciò che prende consistenza e si presenta come realtà distinguibile da ciò che distinguibile non è. Ma se è vero che la forma (che è consistenza) esiste di per sé, è pur vero che, per essere riconosciuta, ha bisogno della luce; solo grazie alla luce può essere riconosciuta. È la luce che illumina il vero, è la luce che illumina l’esistere, è la luce che fa riconoscere il significato, che lo evidenzia.
Sant’Agostino (354-430) capì quanto fosse importante l’approccio conoscitivo di cui parla Platone, ma per lui era ovviamente inaccettabile il presupposto di quell’approccio che prevedeva la convinzione dell’esistenza dell’anima prima della nascita del corpo. Sant’Agostino non poteva accettare che la conoscenza umana si attuasse attraverso una reminiscenza: l’anima avendo contemplato le idee nell’Iperuranio conserverebbe nella memoria tali idee di cui poi si servirebbe al momento della conoscenza; non potendo cristianamente accettare una simile teoria della conoscenza, sostituì la reminiscenza con l’illuminazione: Dio illumina l’anima affinché questa possa davvero conoscere. Sant’Agostino, insomma, dice che senza la luce non è possibile la conoscenza, meglio: senza la luce non è possibile un adeguato esercizio dell’intelligenza.
Tutto il Medioevo farà tesoro dell’intuizione di sant’Agostino: senza la luce non è possibile l’esercizio dell’intelligenza. Anche l’altro grande filosofo del Medioevo, san Tommaso d’Aquino, che pur sostiene una teoria della conoscenza diversa e anche più corretta di quella del Vescovo d’Ippona, concorda sul fatto che senza la luce (che è la grazia di Dio) non può esserci efficace intelligenza. Attenzione: non stiamo dicendo “non può esserci intelligenza” bensì “efficace intelligenza”. Anche san Tommaso, infatti, afferma il primato della libera volontà e quindi concorda sul fatto che, senza l’esercizio delle virtù, non può esserci vera sapienza. A proposito del rapporto pensiero medioevale-luce, un importante filosofo del XII e XIII secolo, Roberto Grossatesta, scrive: «La luce è bella di per sé, poiché la sua natura è semplice, e ha in sé tutte le cose insieme [...]. Essa tra le cose corporali è la dimostrazione più evidente per via analogica della somma Trinità. Perciò Dio, che è luce, ha cominciato l’opera dei sei giorni dalla luce stessa, di cui tanto grande è la dignità».
Dunque, la luce è lo splendore del Vero. La luce è bellezza e la bellezza è luce; la bellezza è nella dimensione della luce. Gesù dice di Se stesso: «Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12,46). Gesù come Verità incarnata, venuto nel mondo, si definisce luce. Una luce per illuminare il mondo, anzi per liberare il mondo dalla schiavitù delle tenebre.
È la luce il comune denominatore della bellezza e della verità. Anzi, possiamo dire che proprio perché la luce accomuna tanto il vero quanto il bello, questi sono intimamente legati. Nel Prologo di san Giovanni è scritto: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta» (1,1-5).
Lo ha detto anche Benedetto XVI, la luce produce due effetti: permette la conoscenza perché illumina, riscalda perché dà tepore. Alla conoscenza corrisponde la verità; al tepore l’amore. Dunque, la luce è unione di conoscenza e amore e in questa unione diventa bellezza. Non è un caso che alla mancanza della luce è legata proporzionalmente la mostruosità. Gli abissi marini sono inesplorati, ma si sa che più si va in profondità, più le specie animali sono mostruose; e non è un caso che anche gli animali notturni non siano belli quanto quelli diurni.
«Sei la camera buia / cui si ripensa sempre / come al cortile antico / dove s’apriva l’alba». Scrive Cesare Pavese pensando a ciò che è accaduto nella sua vita, dove il buio ha sconfitto la luce. La “camera buia” si contrappone al “cortile antico dove s’apriva l’alba”. Il buio della tristezza si contrappone alla luce della gioia; la gioia che il Poeta piemontese identifica con il cortile antico. Il cortile è il luogo dell’infanzia, è il luogo dei giochi spensierati.
È la luce il comune denominatore della bellezza e della verità. San Giovanni aggiunge: «Chiunque fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte da Dio» (3,20).
Eschilo ne L’Antigone fa dire alla protagonista (per l’appunto Antigone) che viene condotta a morire chiusa in una caverna: «Soffro: il mio occhio non ha più diritto al chiarore dell’alba. La mia fine brucia: nessuno la bagna di pianto». La condanna terribile di non aver più diritto alla luce. 
L’arte che è stata prodotta dal Cristianesimo; meglio: l’arte che è stata prodotta da quel Cristianesimo che ha saputo dare forma consistente al vivere sociale creando la civiltà cristiana (mi riferisco in questo caso soprattutto alla societas christiana mediovale), ha manifestato se stessa soprattutto come “photofania”, cioè come manifestazione della Luce. Ho utilizzato la “L” maiuscola perché la luce di cui è impregnata l’arte cristiana è il riverbero della Luce per eccellenza, di quella Luce che rende tutto luminoso in quanto questo tutto luminoso partecipa di Essa. Un Monaco greco, chiamato Simeone il Nuovo Teologo, vissuto tra il X e XI secolo, descrive bene come nella Rivelazione cristiana tutto sia Luce e, proprio perché tutto ha inizio dalla Luce, per partecipazione è luce ogni cosa: «“Dio è luce” (1Gv 1,5), una luce infinita e incomprensibile. Il Padre è luce, il Figlio è luce, lo Spirito è luce; i tre sono luce unica, semplice, pura, fuori dal tempo, in un’eterna identità di dignità e di gloria. Ne consegue che quanto viene da Dio è luce e ci viene distribuito come venuto dalla luce: luce la vita, luce l’immortalità, luce la sorgente della vita, luce l’acqua viva, la carità, la pace, la verità, la porta del Regno dei cieli. Luce lo stesso Regno dei cieli; luce la stanza nuziale, il letto nuziale, il paradiso, le delizie del paradiso, la terra dei miti, le corone della vita, luce gli stessi abiti dei santi. Luce il Cristo Gesù, il salvatore e re dell’universo, luce il pane della sua carne immacolata, luce il calice del suo sangue preziosissimo, luce la sua risurrezione, luce il suo volto; luce la sua mano, il suo dito, la sua bocca, luce i suoi occhi; luce il Signore, la sua voce come luce da luce. Luce il Consolatore, la perla, il chicco di senapa, la vigna vera, il lievito, la speranza, la fede: luce!» (Discorsi teologici, 3).

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