RELIGIONE
A colloquio con gli autori di “Guerrieri serafici”
dal Numero 30 del 15 agosto 2021
a cura della Redazione

Per i lettori del Settimanale abbiamo incontrato gli autori del libro “Guerrieri serafici. Racconti di pace e bene... e guerra” (Tabula Fati, 2021), padre Ambrogio M. Canavesi e padre Wawrzyniec M. Waszkiewicz, e posto loro qualche domanda per capire chi siano questi “guerrieri” e come possano dirsi a pieno titolo “serafici”.

Cari Padri, cominciamo dal titolo. Un po’ curioso questo ossimoro e soprattutto la parafrasi del sottotitolo in cui al motto tipicamente francescano “pace e bene” aggiungete un “guerra”. Spiegateci questa scelta provocatoria.

In realtà nessuna provocazione ma anzitutto la costatazione di un fatto. Leggendo le biografie di santi francescani o di religiosi esemplari appartenuti all’Ordine serafico ci siamo accorti che non sono pochi quelli che tra loro hanno preso parte a battaglie e guerre, quando non addirittura a intere campagne militari, come nel caso del beato Marco d’Aviano. Anzi, pur non basandoci su una stima precisa, ad occhio sembrerebbe che l’Ordine francescano sia quello più “belligerante” o, per parafrasare un’espressione moderna, il più “war-friendly”. 

Naturalmente il più delle volte si tratta di cappellani militari, ma in determinate occasioni la loro partecipazione ad eventi bellici si è trasformata – quando non lo è stata sin dall’inizio – in una vera e propria partecipazione attiva. Se nel caso del beato Marco d’Aviano il suo fu piuttosto un ruolo diplomatico e di consiglio, nei casi di san Lorenzo da Brindisi ad Albareale in Ungheria e di san Giovanni da Capestrano a Belgrado si è trattato senza dubbio di un ruolo attivo nell’esercito, che dovettero inaspettatamente guidare in alcuni frangenti della battaglia. Meno famosi – e forse per questo più curiosi – i casi di padre Anselmo da Pietramelara a Lepanto e di padre Luca Ibrisimovic. Nel nostro libro abbiamo provato a raccogliere queste ed altre vicende per ricollegarle alla figura del santo fondatore, san Francesco, e della sua prima “pianticella”, santa Chiara, concludendole poi con il grande fondatore della “Milizia dell’Immacolata”, san Massimiliano Maria Kolbe.

 

Dunque, a vostro giudizio, la questione non è per nulla casuale? Ovvero ci sarebbe un nesso inscindibile tra Francescanesimo e guerra?

Effettivamente sì... l’ispirazione di san Francesco è anzitutto cavalleresca: quando Dio indica al giovane Francesco la strada da seguire, non mortifica il suo desiderio di divenire cavaliere – e quindi di partecipare alla guerra –, piuttosto sublima questo suo desiderio guerresco in un’ideale più alto, ma non diverso. Anche san Pio da Pietrelcina, il più grande francescano dei nostri tempi, in sogno vide rappresentata la sua vocazione come una guerra da combattere contro Satana e i suoi satelliti su un campo di battaglia. La vocazione francescana è dunque cavalleresca e guerriera fin dalle radici. 

Chiaramente nel caso di san Francesco, il buon Dio ha usato gli onesti desideri di questo giovane sognatore come mezzi per guidarlo a scoprire la sua vocazione, il suo posto nel piano di Dio; ma nel fare ciò, in qualche modo ha affermato la positività della realtà del soldato e del cavaliere. A riprova di ciò è da dire che, nel corso dei secoli, i Francescani non hanno mai dubitato di poter prendere parte alle battaglie come cappellani militari o di aver parte attiva nell’organizzazione e promozione delle Crociate. 

 

E allora come vi spiegate che nella coscienza comune contemporanea la figura di san Francesco e quella dell’Ordine francescano siano piuttosto collegate alla pace?

La figura di san Francesco – sull’onda degli studi rivoluzionari di Paul Sabatier – è stata ampiamente deformata, prima dagli storici atei o non cattolici e poi, ahinoi, dagli stessi membri dell’Ordine francescano. Ancora a inizio Novecento un famoso cappuccino, padre Ilarino Felder, poteva scrivere uno dei più bei libri sul santo fondatore dell’Ordine francescano, intitolandolo San Francesco, cavaliere di Cristo... ma da lì in poi questo ideale militante francescano è andato in crisi. Si sono piuttosto imposte nella storiografia francescana quelle che potremmo denominare “leggenda rossa, leggenda verde e leggenda arcobaleno”. La leggenda rossa vede san Francesco come un proto-rivoluzionario, sia in campo religioso (e quindi un proto-protestante) sia in campo civile e sociale (quindi un proto-comunista). Per la leggenda verde, invece, san Francesco sarebbe una sorta di ecologista radicale, attento ai diritti della natura e degli animali più che a quelli di Dio, quando invece ben si sa che san Francesco amava il creato in quanto vi vedeva riflesse le tracce del Creatore. Infine per la leggenda arcobaleno san Francesco sarebbe un pacifista ante litteram, una sorta di fricchettone hippy in sandali, con sfumature gay-friendly. Un vero abominio per la santità cristiana e per la stessa storia... In realtà la pace di cui san Francesco era un propugnatore e – soprattutto – un fruitore è anzitutto la pace che sorge nell’anima in grazia come frutto del rispetto della Legge di Dio, dell’accondiscendenza alla sua santissima Volontà e del contatto quotidiano con Lui nella preghiera e nei sacramenti. Una pace interiore che poi si riflette anche nei rapporti sociali, e per difendere la quale bisogna essere disposti in alcune circostanze anche a prendere le armi. La guerra è dunque un mezzo per la pace, e la pace un mezzo per rimanere legati a Dio.

 

“Si vis pacem, para bellum” (Se vuoi la pace, prepara la guerra). Il famoso detto di Vegezio sarebbe sottoscritto anche dai vostri guerrieri serafici dunque?

Certamente, la Dottrina cattolica non ha mai condannato la guerra tout court ma ha fissato delle condizioni morali per intraprenderla e condurla: la guerra deve sempre avere come fine la pace. Nel nostro libro, raccontando l’episodio del beato Marco d’Aviano – riallacciandoci a una frase da lui pronunciata nel suo ultimo discorso ai soldati prima della battaglia del Kahlenberg –, abbiamo provato a sviluppare il concetto nel dialogo con Jan Sobieski e ad esprimerlo con la comparsa – peraltro documentata storicamente – di un’aquila e di una colomba nel corso della battaglia. 

In senso cristiano e serafico poi dobbiamo precisare che la guerra che assicura la pace non è solo la guerra esterna, contro nemici che potrebbero impedirci di adorare il nostro Dio, ma anche la guerra contro i nemici della nostra anima – la carne, il mondo e il demonio – che cercano in tutti i modi di insidiare la pace dell’anima in grazia, che gode della presenza di Dio e cammina confidando nel Signore verso la meta eterna. 

 

Ci ha colpito la frequenza con cui le azioni belliche da voi descritte siano legate a guerre contro gli ottomani... è un caso secondo voi?

Non lo è affatto, considerando quanta importanza abbiano avuto nella storia dell’Europa moderna le guerre contro gli ottomani, le quali, in qualche modo, sono da vedersi come una continuazione dello spirito crociato medievale. Al contrario di quanto si crede, san Francesco non condannò affatto le crociate, tuttalpiù ne criticò alcune deviazioni dall’intento originario. Il Francescanesimo negli anni delle lotte contro i turchi era sicuramente uno dei movimenti religiosi spirituali più vivi e, nella sua generosa spinta missionaria, non aveva paura di accettare missioni e compiti nelle zone più difficili, comprese quelle di occupazione turca, per esempio nei Balcani, come il racconto di padre Ibrisimovic ben esprime. Ciò in parte spiega perché nella maggior parte dei casi le nostre vicende abbiano come nemici i turchi. D’altronde la vittoria di Belgrado, quella di Albareale e quella del Kahlenberg, presso Vienna, furono episodi decisivi nella difesa della Cristianità europea, economicamente e militarmente circondata sul mare, assediata via terra e minata da contese e inimicizie interne. L’intervento dei nostri “guerrieri serafici” in questo contesto fu assolutamente risolutivo.

 

Dunque un Francescanesimo militante, che a volte diviene addirittura militare, ma non perde mai la sua dimensione di militanza spirituale?

Esatto. La cornice ideologica che inquadra invisibilmente tutti i racconti è sicuramente quella della cavalleria medievale, una delle più belle invenzioni del Medioevo cristiano: gli uomini di Chiesa seppero infatti trasformare dei briganti armati dediti a rapine e violenze, in uomini dediti al servizio di Dio e degli altri. La cavalleria medievale non era anzitutto un esercito a servizio dei soldati ma piuttosto un codice morale e spirituale volto al miglioramento di se stessi. Il primo nemico del cavaliere era proprio se stesso – il proprio “uomo vecchio” – e poi tutti i nemici della propria anima: per questo, sulla scia di san Paolo, si diffuse l’abitudine di collegare l’armamento del soldato alle virtù o ai mezzi spirituali. La bellissima svolta che si ha con san Francesco e il Francescanesimo è che lo spirito cavalleresco si incarna in un Ordine religioso. Lo spirito francescano è cavalleresco e, in tal senso militare, proprio perché concepisce il proprio servizio al Signore come una militanza sotto il vessillo del Re dei re, da servire a costo del sacrificio della vita, e con la rinunzia di tutto. Come è ben evidente poi nell’episodio di padre Anselmo di Pietramelara, questa vocazione spiritualmente militante torna, a volte, anche ad essere militare, ma senza smettere di essere francescana. 

 

Anche il nostro san Pio da Pietrelcina ha fatto – nel famoso discorso d’inaugurazione della Casa Sollievo della Sofferenza, guardando al futuro della sua opera – un rapido ma esplicito riferimento a un “francescanesimo militante”. Una preziosa conferma, non trovate? Forse una profezia...

Non ne abbiamo parlato nel libro – anche se ne abbiamo avuto la tentazione – ma sicuramente questa profezia di san Pio dimostra chiaramente come il Francescanesimo o è militante o muore. O milita, lottando per Dio contro le potenze delle tenebre e per la salvezza delle anime, o soccombe ad esse. È militante qualsiasi cosa faccia... si tratti del servizio ai poveri o agli ammalati, dell’apostolato parrocchiale, della vita contemplativa o della scienza e della cultura. In ogni caso deve essere militante. E lo smarrimento dell’aspetto interiormente ed esteriormente militante dell’Ordine francescano e della Chiesa in generale è uno degli aspetti più drammatici del decadimento della vita cattolica odierna. Non devono essere i numeri a spaventare, ma la mancanza di zelo apostolico, di sacrificio personale e di militanza in tutti i campi della vita ecclesiastica. Ed è in effetti questo uno dei fini del nostro libro: risvegliare questo spirito guerresco nei giovani cattolici di oggi, per far loro comprendere come, se non vogliono soccombere al mondo, devono combattere nella loro vita personale e spirituale, ma anche in ogni ambiente in cui si trovano a vivere. 

 

E i guerrieri serafici si fermano qui? Nessun altro personaggio meriterebbe di essere immortalato?

In effetti, nelle nostre ricerche abbiamo trovato materiale – o almeno tracce di esso – utile a riempire un altro volumetto di vicende di guerrieri serafici. Tutto questo per dimostrare ai giovani che la vita spirituale e religiosa non è in effetti nulla di vergognoso o di pavido, bensì quanto di più virile ci si possa aspettare. Peraltro, nella storia del Francescanesimo si dovrebbero immortalare anche quegli avventurieri serafici che hanno girato il mondo, fin nelle più remote regioni, per portare il Vangelo di Cristo, ma questa è un’altra storia...

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