APOLOGETICA
L’aborto legale e la salute psichica delle donne
dal Numero 10 del 8 marzo 2020
di Francesca Romana Poleggi

L’aborto non impedisce alla donna di divenire madre: la rende madre di un bambino morto, portando con sé dolorose e profonde conseguenze fisiche e psicologiche. Concentriamoci sulle ultime riservando alle prime un prossimo articolo.

La propaganda abortista da decenni ci dice che l’aborto legale serve a salvaguardare la salute delle donne. Anche la nostra Corte Costituzionale ha giustificato la violazione del diritto alla vita del bambino perché nelle situazioni in cui una donna chiede di abortire – secondo i giudici – c’è un conflitto insuperabile tra il diritto alla vita della madre e quello del figlio, che in quanto “persona in potenza” cede il passo di fronte alla “persona in atto”, cioè la donna.

A parte il fatto che parlare di persona “in potenza” e “in atto” ricorda molto la filosofia dei negrieri che ritenevano le persone di colore “meno persone” dei bianchi, questo contrapporre il diritto alla vita della madre al diritto alla vita del figlio è quanto di più assurdo e innaturale si possa immaginare.

Qualsiasi ginecologo sa spiegare bene che l’aborto non è mai necessario per salvare la vita di una donna. In casi rarissimi, come per esempio nella gravidanza extrauterina, la morte del bambino, pur non voluta, è la conseguenza naturale dell’intervento salvavita della madre. Ma in tali casi neanche si parla tecnicamente di aborto. Anzi, da sempre, è moralmente lecita – anche per il Magistero della Chiesa – l’azione del medico tesa a salvare la vita di una donna che ha per conseguenza non voluta, ma inevitabile, la fine della vita del bambino. Ma – ripetiamo – si tratta di casi estremamente rari. Come quelli in cui, quando davvero la prosecuzione della gravidanza dovesse essere pericolosa per la madre, si procede a un parto cesareo pre-termine, senza compromettere la vita del bambino. Tra l’altro, grazie alle incubatrici moderne, sopravvivono sempre più facilmente, senza danni neurologici né fisici, anche i piccoli molto prematuri (perfino di 22 settimane).

Quindi non c’è contrasto tra il diritto alla vita del figlio e della madre. Ma non solo: la natura (il Creatore) ha predisposto le cose in modo che per la madre la vita del figlio sia importante tanto quanto la sua, se non di più.

Ci sono tante madri eroiche che danno la loro vita per i figli, come Gianna Beretta Molla o la “nostra” Chiara Corbella Petrillo (“nostra” perché Toni Brandi conosceva bene Chiara e la sua famiglia. L’ispirazione di fondare Pro Vita è un frutto dolce del dolore amaro che egli ha sofferto per la morte di lei, nel 2012). Ma l’istinto materno cui facciamo riferimento non appartiene solo a persone sublimi, in concetto di santità, come Gianna e Chiara. L’istinto materno fa parte del sistema neurobiologico di tutte le madri, così come l’istinto di sopravvivenza è radicato nel profondo di tutti gli esseri viventi, anche degli animali.

Infatti, spiegano i neurologi, la sede dell’istinto materno è il cervello rettiliano, che è nell’uomo, nel leone, nel coccodrillo... Chi dubita della sua esistenza reale vada a togliere un cucciolo a mamma tigre.

Il livello cerebrale che ci differenzia dagli animali è quello della corteccia, quello per cui noi uomini siamo in grado di scrivere la Divina Commedia o di costruire i grattacieli.

Quando una donna chiede di abortire, con il cervello corticale reca una violenza profonda a se stessa, al suo cervello rettiliano. Infatti, chi ha un po’ di esperienza nel campo sa bene che le donne che chiedono l’aborto non stanno mai esercitando una “libera scelta” (come dice la propaganda mortifera): c’è sempre dietro una costrizione, da parte della famiglia, degli amici, del lavoro, del partner o comunque a causa della situazione economica e sociale contingente. A questa costrizione spesso si accompagna una pessima informazione su ciò che è l’aborto e su chi si ha nel grembo. Ma se anche una madre volesse lucidamente la morte del figlio, in ogni caso la violenza che arreca a se stessa è incommensurabile e lacerante. Questo spiega l’origine della sindrome post abortiva (depressione, istinti suicidi, come abbiamo visto nel n. 5 di questo Settimanale, abuso di alcol e di sostanze, psicosi, disturbi del sonno e del comportamento...) che può manifestarsi subito, ma può anche manifestarsi anni e anni dopo l’intervento. La sindrome post aborto potrebbe essere alla radice di tanti episodi di cronaca pazzeschi in cui le madri (o i padri) uccidono i figlioletti o uccidono se stesse. Essa infatti potrebbe covare nel profondo della psiche anche delle donne più ciniche, convinte di aver dovuto abortire per mille valide ragioni. E, anche dopo molti anni, può esplodere in tutta la sua pericolosità. Ed esplode in modo tanto più violento e incontrollabile, quanto più si è cercato di negare il problema e quindi non si è potuto elaborare il lutto, né si è potuto chiedere perdono a Dio per l’insano gesto. L’aborto non impedisce alla donna di diventare madre: ella diviene madre appena resta incinta. Se abortisce diventa madre di un bambino morto.

La ferita profonda nel cuore della donna è difficile da guarire. Serve un aiuto professionale e soprannaturale non indifferente. La cicatrice del rimpianto comunque resta per sempre. E i problemi economici, sociali e relazionali che hanno spinto la donna ad abortire restano lì, insoluti, nonostante l’eliminazione del piccolo innocente.

La propaganda abortista nega tutto questo. Le donne che chiedono l’aborto non vengono neanche messe in guardia dai probabili effetti psicologici che ne conseguono: si continua a dire – come dice la Legge 194 – che l’aborto serve alla salute delle donne.


* per approfondire, visita:  www.provitaefamiglia.it

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