RELIGIONE
La vera “maternità” della Chiesa
dal Numero 44 del 18 novembre 2018
di Suor M. Gabriella Iannelli, FI

Dal momento che non si dà vera libertà al di fuori o contro la verità, la fermezza della Chiesa nel difendere categoricamente le norme morali non è intransigenza ma piuttosto vera maternità che cerca il bene dei figli e ne tutela la dignità.

Ai nn. 95-97 dell’enciclica Veritatis splendor, san Giovanni Paolo II illustra in cosa consiste la “maternità” della Chiesa, accusata di “intransigenza intollerabile” che contrasta con la sua missione materna: «Questa, si dice, manca di comprensione e di compassione». «In realtà – chiarisce il Papa – la maternità della Chiesa non può mai essere separata dalla sua missione di insegnamento, che essa deve compiere sempre come Sposa fedele di Cristo, la Verità in persona». La Chiesa è Madre proprio perché insegna, perché educa, perché indica la strada giusta a tutti i suoi figli: «Come Maestra essa non si stanca di proclamare la norma morale [...]. Di tale norma la Chiesa non è affatto né l’autrice né l’arbitra. In obbedienza alla verità, che è Cristo, la cui immagine si riflette nella natura e nella dignità della persona umana, la Chiesa interpreta la norma morale e la propone a tutti gli uomini di buona volontà, senza nasconderne le esigenze di radicalità e di perfezione» (Familiaris consortio, n. 33). 
La funzione della Chiesa è una funzione di servizio alla verità morale della quale non è né l’autrice, né l’arbitra. Quindi anche la Chiesa non può disporre della norma morale, ma per prima deve obbedire ad essa, per poi proporla «a tutti gli uomini di buona volontà», tale quale è..., senza adattamenti e “sconti” e «senza nasconderne le esigenze di radicalità e di perfezione». Non si può quindi accusarla di intransigenza, di mancanza di comprensione e di compassione, solo perché indica la strada della fedeltà alla intramontabile Verità morale, che essa non ha creato, né gestisce a suo piacimento, e alla quale deve essa innanzitutto obbedire.
È poi necessario ribadire che «la vera comprensione e la genuina compassione devono significare amore alla persona, al suo vero bene, alla sua libertà autentica. E questo non avviene, certo, nascondendo o indebolendo la verità morale, bensì proponendola nel suo intimo significato di irradiazione della Sapienza eterna di Dio, giunta a noi in Cristo, e di servizio all’uomo, alla crescita della sua libertà e al perseguimento della sua felicità» (n. 95). Quando la Chiesa indica la verità morale, e non ammette compromessi, fa il vero bene dell’uomo, lo conduce alla libertà autentica e al perseguimento della sua felicità: è una vera madre! Come è una vera madre quella che dà al suo bambino il cibo buono e non quello magari più appetibile, ma non adatto a lui; o quella che prende per mano il suo bambino e lo conduce sulla strada giusta, anche se egli tende a divincolarsi e a correre verso sentieri più piacevoli, ma molto più pericolosi. 
Questa fermezza nel proporre la Verità non deve disgiungersi dal rispetto per la persona e dalla paziente carità; scrive, a tal riguardo, san Giovanni Paolo II: «La presentazione limpida e vigorosa della verità morale non può mai prescindere da un profondo e sincero rispetto, animato da amore paziente e fiducioso, di cui ha sempre bisogno l’uomo nel suo cammino morale, spesso reso faticoso da difficoltà, debolezze e situazioni dolorose. La Chiesa che non può mai rinunciare al “principio della verità e della coerenza, per cui non accetta di chiamare bene il male e male il bene” (Reconciliatio et paenitentia, n. 272), deve essere sempre attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora (cf. Is 42,3)» (Veritatis splendor, n. 95). Quanto queste parole sono state vissute da san Giovanni Paolo II in tante occasioni del suo ministero pastorale, da sacerdote, da vescovo e da papa! Quanto “amore paziente e fiducioso” nell’affrontare situazioni dolorose segnate da debolezze e difficoltà; si pensi alla fiduciosa longanimità del Papa nel caso di Milingo o di altri ecclesiastici, si pensi alla sua misericordiosa pazienza con Alì Agca, colui che aveva tentato di togliergli la vita nell’attentato del 13 maggio 1981. Ma il suo “profondo e sincero rispetto” per ogni uomo, la sua paterna comprensione e delicatezza non lo hanno mai portato a “rinunciare al principio della verità e della coerenza”, né a compromessi dottrinali o pastorali per i quali si “accetta di chiamare bene il male e male il bene”. San Giovanni Paolo II è davvero un esempio mirabile di equilibrio tra carità e verità, di come vivere la carità nella verità: «charitas in veritate!».
Egli insegna con le sue parole di Vicario di Cristo e con il suo esempio, e le sue parole hanno una forza resa più efficace dalla sua esemplarità, che: «La fermezza della Chiesa, nel difendere le norme morali universali e immutabili, non ha nulla di mortificante. È solo al servizio della vera libertà dell’uomo: dal momento che non c’è libertà al di fuori o contro la verità, la difesa categorica, ossia senza cedimenti e compromessi, delle esigenze assolutamente irrinunciabili della dignità personale dell’uomo, deve dirsi via e condizione per l’esistere stesso della libertà» (n. 96).

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