La decisione di rimandare in segreto la Madonna fu la conclusione sofferta e obbligata di chi, dopo un pensoso e penoso temporeggiare, aveva intuito il compiersi d’un mistero divino che lo superava, ma pure compreso che non avrebbe potuto prendervi parte senza un esplicito invito di Dio. Osservato in questo suo intimo combattimento, scopriamo un san Giuseppe umile e profondo nella riflessione, sincero nell’amore, retto nell’azione, grande nella fede, eroico nell’obbedienza.
San Giuseppe credeva per propria e sicura intuizione che la Sposa aveva serbato intatta la sua immacolata verginità e che era quindi oggetto d’una misteriosa azione soprannaturale. Ma in mancanza di un’autenticazione divina doveva agire, pur con sommo dolore, contrariamente a questa sua convinzione, secondo le prescrizioni della Legge. L’avviso dall’Alto venne nel tempo opportuno attraverso l’Angelo che svelandogli la divina maternità della Sposa, lo chiamava ad un’altissima missione.
L’atteggiamento di san Giuseppe si delinea sempre più simile a quello di Maria Santissima. Anch’egli è profondamente pensoso, come uomo veramente prudente: cosa tanto più notevole in lui che doveva essere allora giovanissimo, forse sulla ventina, secondo l’età consueta del matrimonio degli ebrei. San Matteo infatti dice esattamente: «Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, divisò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). «Divisò» e non «volle». Poi aggiunge: «Mentre egli stava considerando queste cose...» (1,20). Tutte espressioni che ci dipingono un Giuseppe raccolto in profonda riflessione, come abbiamo visto per la Madonna fin dall’Annunciazione. L’intimo combattimento è anche indicato dalla sfumatura di parole usate dall’Evangelista: in contrapposto al «divisò» e al «stava considerando» suddetti, che indicano più che una volontà netta, una tendenza, c’è il «non volendo» precedente, che indica la volontà ferma con cui aveva stabilito di non «accusarla pubblicamente» (Mt 1,19). La volontà seguente si presenta quindi, in confronto, come il penoso frutto d’un dibattuto ragionamento. E infatti si trattava – secondo le parole dell’Angelo: «Non temere...» (Mt 1,20) – d’uno stato d’animo di santo «timore» il quale, piuttosto che una volontà risoluta, implicava interna trepidazione.
Tuttavia una deliberazione vera c’era stata. La narrazione matteana non autorizza a pensare che quello stare a riflettervi sopra, quando apparve l’Angelo, significasse ch’egli poteva ancora cambiar parere: egli rifletteva alla deliberazione presa e alla sua esecuzione pratica. L’Evangelista infatti attribuisce il cambiamento di parere – contro il «divisò» già avvenuto – esclusivamente all’assicurazione angelica. Non sono esatti quindi gli autori che affermano che non era stata presa ancora alcuna risoluzione. È la solita tendenza a minimizzare il fatto, per facilitarne la soluzione. Ma ciò non è né obiettivo, né necessario.
Come Maria
Il parallelo con l’Annunciazione di Maria è poi molto significativo per le rassomiglianze dei rispettivi atteggiamenti interiori. Questa annunciazione giuseppina si svolge, si può dire, in due parti, di cui la prima, anteriore alle spiegazioni angeliche, è costituita dalla visibile maternità dell’Immacolata Sposa. Di fronte ad essa ecco Giuseppe che, invece di parlare e dare in esclamazioni, tace e pensa e, pur non dubitando del fatto – ormai intuito nel suo carattere soprannaturale –, va cercando «come» regolarsi (con atteggiamento che richiama tanto il «Come avverrà questo?» della Vergine: Lc 1,34) in ordine alla decisione pratica di immensa importanza: prender cioè o no con sé Maria.
In ciò non si sa cosa più ammirare: se l’immensa sua fede nel credere prontamente al prodigioso mistero e nell’inchinarsi davanti al misterioso silenzio della Sposa, o l’immensa umiltà nel superare ogni considerazione egocentrica dei diritti di sposo, dei diritti d’affetto, del naturale desiderio di chiarimenti, per fissarsi soltanto, con quelle disposizioni di perfezione che vedremo meglio tra poco, nel dovere da compiere di fronte alla volontà santa di Dio.
Prima ancora del sogno rivelatore, tra la Madonna che, dopo la spiegazione dell’Angelo, dice il fiat della più eroica immolazione e Giuseppe che, dopo la rivelazione dei fatti e le conseguenti riflessioni tormentose, prende la decisione di rimandar Maria, c’è l’identità di questo purissimo zelo di adempiere il divino volere e l’eroismo sconfinato – per quanto inverso – della decisione.
Quanto al portentoso silenzio, eroico fu quello della Vergine e proporzionatamente eroico quello di Giuseppe: eroico per la suddetta umile noncuranza dei normali diritti del suo cuore di sposo e più ancora per la tremenda decisione a cui sarebbe giunto.
Motivo per tal silenzio, nella Madonna, fu la fede del perfetto abbandono in Dio in quegli avvenimenti da Lui regolati direttamente fino al minimo particolare. In Giuseppe fu eguale fede nel rispettare il misterioso silenzio della Vergine, evitando qualsiasi interrogazione. Consapevole della celestiale sapienza e della prudenza di Maria, era facile per lui questa deduzione: s’Ella non parlava mentre sarebbe stato così ovvio il farlo, vi doveva essere un ben giusto motivo; nel conservare quel silenzio Ella era certo interprete illuminata del divino volere e a lui non restava che conformarvisi appieno.
La Madonna rispettava i silenzi di Dio, Giuseppe quelli corrispondenti di Lei. Quest’abbandono in Dio non toglieva però la pena del cuore. L’uno comprendeva la pena dell’altro, ma entrambi compivano generosamente l’offerta di questo dolore, per adempiere perfettamente la volontà divina.
Una sola fiamma ardeva in quei cuori: comprendere ed attuare nel modo più perfetto tale volontà.
Prova suprema
L’obbedienza di san Giuseppe, la sua «giustizia» – per cui è detto «giusto» (Mt 1,19) – ebbe qui la prova suprema, nonostante che il suo progetto, per l’intervento angelico, non si attuasse: come venne provata un tempo l’obbedienza di Abramo, nella predisposta, ma non attuata uccisione del figlio.
Per comprendere il valore di tale prova bisogna pensare quanto fosse straziante la decisione presa. Giuseppe sapeva infatti che avrebbe ferito in modo acutissimo tre cuori: il suo, quello della Vergine, e, a suo tempo, quello della prodigiosa creatura.
Il cuore suo sarebbe stato trafitto per il distacco dall’incomparabile tesoro dell’elettissima Sposa che la Provvidenza gli aveva donato e che egli, qualunque fosse, a questo punto, la pienezza di comprensione delle grandezze di Lei, certo aveva imparato a conoscere nelle sue straordinarie virtù. Era un distacco che sarebbe dovuto avvenire senza spiegazione di sorta, nell’imminenza delle prestabilite nozze solenni e come se egli avesse veramente sospettato, pur avendo invece intuito il compiersi d’un fatto divino che, anziché detrarre, esaltava lo splendore e la grandezza di Maria. E ne sarebbe seguita la separazione anche dalla misteriosa creatura che, pure essendo a lui completamente sconosciuta, doveva esser ben grande se concepita in così prodigiosa maniera. Il Cuore della Vergine Santissima sarebbe stato ferito a sua volta per il doloroso e tanto umiliante abbandono in cui Ella sarebbe stata lasciata: poiché – si badi bene – anche senza l’infamia del pubblico ripudio, Ella sarebbe stata sottoposta, davanti a tutti, all’obbrobrio di essere stata abbandonata dallo sposo dopo esser divenuta madre. Il cuore della creaturina lo sarebbe stato pure in avvenire, quando si sarebbe trovata in grado di comprendere la dolorosa mancanza del suo paterno sostegno.
E si deve notate che la triplice ferita acutissima, nonostante che il rimando di Maria non si sia attuato, già si compì, in certo modo, anche solo con il pensiero avutone. Giuseppe già con esso era disposto a tutto; la Vergine Santissima aveva forse intuito nell’animo di Giuseppe tale deliberazione o per lo meno letto molto a fondo nelle sue pene; Gesù poi aveva divinamente penetrato tutto il dolore di quei cuori e vi partecipava col suo tenerissimo cuore.
Se si considera la sublime grandezza e santità di quella triade beata, Gesù, Maria, Giuseppe, e la perfezione e delicatezza dei loro sentimenti, non si può concepire una triplice ferita più acuta e straziante. Non dunque macchia di vergognosi sospetti, ma acutissima prova di dolore aveva sigillato gli albori della Sacra Famiglia. Gesù che aveva santificato nell’esultanza il Battista ed Elisabetta all’avvicinarsi di Maria, ora, con stile più conforme al Calvario, santificava Maria e Giuseppe nell’eroismo del dolore.
Il segreto della tragica decisione
Passiamo finalmente a indagare il perché di questa tragica deliberazione. Sarebbe presunzione voler giungere, con ulteriore applicazione del nostro metodo analitico, a determinare con assoluta sicurezza i motivi nascosti nell’animo di Giuseppe. È giunto il punto in cui, dalla sufficiente certezza delle affermazioni già fatte, si deve passare a una pura probabilità per quanto seria, e contentarsi di essa. La nostra analisi tuttavia sarà facilitata dalle verità già raggiunte e dalle esclusioni già fatte.
Il punto di partenza di essa è questo: san Giuseppe era sicuro che la maternità della Madonna Santissima non era dovuta a cause naturali ma a un soprannaturale intervento. Perché dunque non prenderla senz’altro con sé? Perché l’Angelo dovrà poi assicurarlo che l’opera era tutta divina, quasi che egli ne avesse per lo meno dubitato?
Ci troviamo di fronte insomma ad un’apparente contraddizione. Giuseppe non sospettò minimamente, ma d’altra parte è certo che voleva rimandare Maria; e inoltre dall’Angelo venne rassicurato in modo da far pensare che avesse sospettato davvero: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa; poiché il bambini che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20).
Contro la fiducia piena di Giuseppe in Maria si oppongono cioè due gravissime difficoltà: il proposito di rimandarla e le parole dell’Angelo. Consideriamo subito la prima difficoltà, rimandando l’analisi delle parole angeliche al punto [articolo, n.d.r.] seguente.
Per risolvere tale difficoltà occorre fare un’accurata distinzione. San Giuseppe si trovava di fronte a una duplice questione: di fatto l’una, di diritto l’altra. La prima riguardava la causa della maternità di Maria Santissima, la seconda riguardava la legittimità e convenienza di prenderla con sé, in quelle condizioni.
La questione di fatto e quella di diritto erano evidentemente collegate, ma non in modo così semplice come potrebbe sembrare a prima vista. Il fatto poteva essere appurato con una conoscenza qualunque purché sicura. Il diritto richiedeva invece determinate condizioni, per dir così, giuridiche, affinché tale conoscenza potesse venire legittimamente utilizzata, in ordine alle pratiche decisioni da prendere.
La questione di fatto
San Giuseppe, in linea di fatto, conosceva per propria e sicura intuizione che Maria Santissima non aveva in alcun modo leso la sua immacolata verginità e che era stata quindi oggetto d’una misteriosa azione divina; ma, in linea di diritto, non aveva ricevuto di tale divina azione alcuna certa ed autentica rivelazione, la quale, nel caso, non poteva essere data evidentemente che da un inviato di Dio. Per un’opera umana sarebbe potuta bastare la sua indagine umana, ma per tale opera divina occorreva una certa dichiarazione divina. E questa non solo era mancata, ma v’era stata anzi – nel misterioso profondissimo silenzio della Vergine – una positiva indicazione del disegno di Dio di mantener nascosto con lui, per il momento, il suo intervento.
Tutto ciò, per quanto costituisse una sottigliezza, era sufficiente per l’estrema delicatezza del «giusto» Giuseppe a indurlo a regolarsi in ordine pratico, pur a costo di tanto dolore, contrariamente alla sua convinzione. “Che niente mi venga autenticamente detto – doveva aver pensato il delicatissimo Giuseppe –, che la Vergine stessa taccia in modo così sorprendente e il Cielo resti inflessibilmente muto, è un tacito invito divino a regolarmi per ora praticamente come se il fatto soprannaturale non sia avvenuto. Per cambiare atteggiamento devo attendere un avviso di Dio”.
Restando pertanto nel piano naturale la maternità di Maria, avvenuta indipendentemente da lui, costituiva una difficoltà insormontabile, per un giovane pio, a prenderla in sposa, qualunque ipotesi fatta, anche la più mite della subita violenza. Egli prese la sua deliberazione quindi come se la Vergine Sposa si fosse trovata in questa ultima che era la migliore delle ipotesi naturali, la quale suggeriva tuttavia anch’essa, come vedemmo, in base allo spirito della legge, la dimissione, fornendo però ben giusti motivi perché avvenisse in quel modo occulto che egli effettivamente deliberò.
Per riassumere dunque la nostra analisi, possiamo dire: san Giuseppe nel suo interno non sospettò male, e senza alcun dubbio credette a un misterioso intervento di Dio; ma si regolò in sede pratica, in considerazione del divino silenzio, come se non ammettesse tale intervento, o ne avesse per lo meno dubitato.
E fu il perfettissimo suo spirito di obbedienza al divino volere che lo indusse a tale distinzione e a tale tragica decisione. Ma oltre lo spirito di obbedienza rifulse in Giuseppe una sconfinata fede – compagna ed essenziale sostegno dell’obbedienza e dell’abbandono in Dio – con la quale egli risolse ogni penoso timore circa le possibili conseguenze della sua dolorosissima decisione. Egli si era preparato, è vero, ad allontanare l’innocente, la prediletta di Dio, ma per affidarne la sorte alla divina Provvidenza, nella piena fiducia che essa non avrebbe mancato di intervenire – come di fatto intervenne – quando e come sarebbe stato opportuno. Si noti come si corrispondono mirabilmente nelle gigantesche loro proporzioni, la fede e l’eroico abbandono in Dio, in Maria e in Giuseppe. Maria, nulla dicendo, lascia fare. Giuseppe, non interrogando, sta per fare. Ma l’una e l’altro sanno che al momento opportuno è Dio che tutto farà.
La questione di diritto
Abbiamo risolta, in armonia alla premessa della piena fiducia di Giuseppe in Maria, la prima difficoltà, costituita dal proposito di rimandarla. Viene ora l’altra, delle assicurazioni angeliche, che sembrano presupporre in Giuseppe un timore contrario a tale fiducia. Ma anch’essa cade osservando che le parole dell’Angelo non vengono che a fornire quell’autentica rivelazione della divina opera compiutasi in Maria, che il «giusto» Giuseppe attendeva: rivelazione che avvenne con una tempestività e una completezza che fu largo premio del suo abbandono fiducioso alla Provvidenza divina.
L’autenticazione celeste
Per comprendere bene quanto pienamente la comunicazione angelica soddisfacesse ai dubbi di san Giuseppe, dobbiamo fermarci però ancora un momento a considerare un’altra nota speciale del suo stato d’animo [...].
Non poteva infatti la sua umiltà non aver trepidato profondamente, già fin da quando si era delineato il divino prodigio compiutosi in Maria, ma assai più non trepidare dopo la rivelazione angelica – da lui certo penetrata, con tutta la pienezza in quel supremo momento conveniente – al pensiero di tenere in sposa una creatura così sublimemente privilegiata e riceverne come figlio il frutto sublime, concepito di Spirito Santo: quel frutto di cui non avrebbe dovuto limitarsi a dire attonito, come fecero per il Battista: «Che diverrà dunque questo bambino?» (Lc 1,66), ma che avrebbe dovuto adorare come il divino Salvatore del mondo.
Dei fatti nuovi si erano inaspettatamente sovrapposti alla realtà da lui precedentemente conosciuta, elevando la Vergine sua sposa ad altezze ancora enormemente più grandi di quelle già grandissime – per eccelsa virtù – che erano a lui note, e avevano mutato quindi, in qualche modo, i termini del purissimo patto del loro matrimonio. Pur avendo egli osato, divinamente ispirato, di prendere in sposa quella fanciulla sublimemente pura e votata alla castità, poteva ora, senza estrema trepidazione e santo timore, mantenere il medesimo proposito, avvedendosi che Costei era eletta addirittura alla maternità del Redentore divino?
Ed era una trepidazione che dovette crescere tanto più dopo aver ricevuta l’autenticazione divina del prodigioso concepimento ed essere caduta la difficoltà fondamentale a prendere Maria. Quell’autenticazione cioè che dissolveva il primo timore, consolidava, invece, per sé, questo secondo. Era un santo timore, sgorgato dall’umiltà, simile a quello di Maria Santissima al glorioso saluto dell’Angelo.
Esso non poteva essere superato che in base al divino volere, col quale sarebbero stati certo congiunti tutti gli aiuti necessari per così alta responsabilità.
Ed effettivamente l’annuncio angelico come autentificò il fatto, così indicò chiaramente la volontà di Dio.
La Voce della chiamata divina
Si sa come le cose si svolsero. L’Angelo, probabilmente lo stesso arcangelo Gabriele, presto intervenne durante il sonno di san Giuseppe a dare esauriente risposta all’ansia tormentosa ch’era culminata nella straziante deliberazione [di rimandare in segreto Maria] da lui presa proprio in quei giorni.
Il fatto meraviglioso che si era compiuto in Maria, non solo gli fu autenticamente rivelato, ma anche precisato quanto al modo incredibilmente sublime: era avvenuto cioè per opera diretta dello Spirito Santo. Con ciò il timore che aveva motivato la dolorosa deliberazione, sgorgato dalla sua delicatissima obbedienza alla volontà divina e alla divina Legge, era pienamente dissolto.
Con la precisazione suddetta, la confusione sgorgante dall’umiltà veniva ad aggravarsi, però, enormemente. E le ulteriori spiegazioni del nome del fanciullo e della sua missione, con cui san Giuseppe veniva a ricevere sostanzialmente tutta la rivelazione avuta dalla Madonna sul Salvatore promesso, dovevano aumentare quella confusione ancor più: «Ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21).
Giuseppe ebbe anzi, circa la missione salvifica di Gesù, un chiarimento più esplicito. Contro l’antico concetto ebraico terreno della liberazione dai nemici – che riecheggia ancora nel «Benedictus» di Zaccaria, almeno secondo il senso letterale di certe espressioni: «Liberarci dai nostri nemici», «dalle mani di quanti ci odiano» – gli fu apertamente presentata la ben più intima salvezza dal peccato: «Salverà il suo popolo dai suoi peccati». Era un chiarimento autentico particolarmente conveniente per il capo giuridico e responsabile della Sacra Famiglia: poiché ne dipendeva tutto l’orientamento della vita di Gesù, che a lui sarebbe stato per tanti anni soggetto. Era un’autenticazione: non che tale interpretazione delle profezie messianiche non fosse conosciuta da Giuseppe.
Tanto meno può esservi dubbio, su tale conoscenza, per l’animo illuminato di Maria. Il chiarimento le sarebbe stato davvero superfluo.
Ma ecco che insieme alla rivelazione del fatto c’era – a superare tale secondo umile timore – l’indicazione evidente del volere di Dio, sia nell’invito stesso formale a non temere di prendere Maria, sia nell’incarico datogli di imporre il nome al nascituro, tipico atto di paterna autorità. Al quale riguardo tuttavia non deve sfuggire la precisione mirabile delle parole dell’Angelo il quale non disse a Giuseppe, come a Zaccaria: «Ti darà un figlio» (Lc 1,13), ma solo: «Ella darà alla luce un figlio», come s’addiceva maggiormente a chi era nato senza il concorso paterno.
Svegliatosi, appurato ormai il fatto, caduto anche il timore d’umiltà innanzi al divino volere – come avvenne per l’analogo timore di Maria – e, dinanzi alla prospettiva dei sacrifici, dilatatosi il cuore ad abbracciarli, sgorgò dall’animo suo il fiat più generoso.
E lo sigillò coi fatti, appena desto, immediatamente: «Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore, e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24).
Quanto durò la prova di san Giuseppe?
Quanto si fece attendere il messaggero celeste? Certo non fu un periodo molto lungo, visto che l’assicurazione angelica prevenne l’esecuzione della decisione presa, la quale, una volta terminate le riflessioni relative, non avrebbe avuto ragione di essere procrastinata. Inoltre il tempo prestabilito per le nozze solenni era forse imminente: e così si spiega – come rivedremo meglio tra poco – perché, dopo l’assicurazione, san Giuseppe le compì subito (cf. Mt 1,24).
Ma neanche poté essere così fugace, come pensano alcuni, nell’intento di svalutare il terribile dubbio e la tragica decisione: tanto fugace da potersi ridurre a un pensiero che, appena affiorato alla mente, fu subito dissolto dall’intervento angelico.
Di fatto, il Vangelo presenta Giuseppe in stato di perdurante riflessione. La narrazione fa pensare anzi ad un periodo di alcuni giorni. La visita angelica viene infatti presentata come avvenuta all’improvviso, mentre Giuseppe stava pensando al suo progetto, durante il sonno: «Ecco un Angelo...». Se fosse stata la prima notte – nella quale ipotesi l’ansia sarebbe durata tuttavia almeno un giorno – sarebbe stato più preciso dire, anziché genericamente: “Nel sonno”, determinatamente: “Venuta la notte, nel sonno”; né si sarebbe potuto parlare, con proprietà, del sonno notturno come di un momento di quello stato di perdurante riflessione in cui si trovava Giuseppe, mentre cioè “stava pensando”, perché addormentatosi, la riflessione era cessata. L’espressione è invece esatta se si riferisce a un periodo di vari giorni, intervallato dalle rispettive notti, in una delle quali il fatto avvenne.
Il fiat di san Giuseppe
Nessuna manifestazione di esultanza, nessun ripiegarsi e attardarsi gaudioso su di sé, all’annuncio di tanta gloria, nonostante che tutta quella della Sposa e del Figlio si riversasse per riflesso sopra di lui: è il medesimo stile di Maria, è la medesima umiltà ed obbedienza che gli fa dimenticare se stesso, per preoccuparsi soltanto del perfetto adempimento della divina volontà.
E va notato che, anche qui, l’Angelo, per sé, non aveva dato alcun precetto; ma avendo fatto tuttavia capire quale fosse la volontà di Dio, questa divenne subito per Giuseppe come un precetto: «Fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore».
Nessun dubbio ch’egli avesse provato intima gioia al chiarimento così completo della penosissima situazione. Ma ciò nonostante si presentava anche per lui, come per la Madonna, la necessità di pronunciare un fiat, veramente eroico, di compiere una generosissima immolazione. Al suo sguardo limpido infatti, alla sua illuminata prudenza, alla sua delicatissima coscienza – della cui sensibilità egli aveva già dato un saggio tanto significativo nelle ansie che l’avevano condotto alla tragica decisione – si prospettava l’immensa dignità della Sposa datagli da Dio, la divina grandezza del Fanciullo datogli qual figlio e le conseguenti immense responsabilità, che egli vedeva, alla luce della sua umiltà, sproporzionate alle sue forze. Si prospettavano le sofferenze, le contraddizioni che, secondo la Scrittura – a lui pio ebreo certo familiare e che poté tanto più intendere con la particolare luce che il Signore convenientemente gli avrà dato in quei momenti –, avrebbero accompagnato la vita del Redentore. Si presentavano insomma immense responsabilità e immensi dolori, di cui già aveva avuto un saggio nelle precedenti ansie sofferte e di cui presto nella natività, nella fuga, ecc., avrebbe avuto la più tremenda conferma.
Solo la sua luminosa fede nel divino aiuto, la sua carità e la sua generosissima disposizione ad ogni sacrificio potevano fargli accettare, senza titubanza, la difficilissima missione, fargli pronunziare il suo fiat. Chi ha provato un disorientamento di fronte a qualche grande responsabilità dovuta affrontare e pensa quanto a dismisura superasse ogni responsabilità della terra quella affidata al «giusto» Giuseppe, potrà un po’ meglio comprendere questo stato dell’animo suo.
Egli aveva compiuto una decisione eroica nel voler rimandare Maria, ma un’altra decisione sublimemente gloriosa e insieme non meno eroica fu quella di riceverla, in sposa, qual Madre del divin Salvatore.
Nella ripulsa precedente e nella accettazione seguente è un solo medesimo palpito che lo sospinge: di amoroso e fiducioso abbandono in Dio.
tratto da: Maria Santissima nel Vangelo