SPIRITUALITÀ
Maggio con Charles de Foucauld | Piccolo fratello di tutti
dal Numero 19 del 15 maggio 2022
di Padre Ambrogio M. Canavesi

Il suo eremo abitato solo da Gesù eucaristico, nel cuore del deserto, si trasformò in un via vai di poveri, ammalati, soldati, curiosi. San Charles voleva che tutti lo considerassero «come loro fratello, il fratello universale», e predicava il Vangelo con il sorriso e la carità del Cuore di Gesù.

La profonda esperienza di Dio fatta da Charles de Foucauld è spesso descritta come un cammino di trasformazione interiore che lo ha portato a sentirsi “fratello di tutti”. Il suo ideale di donazione radicale a Dio si esprimeva con l’aspirazione a sentire ogni uomo come un fratello e l’identificazione con i poveri fratelli abbandonati del deserto africano. Voleva essere il “fratello universale” e identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere il fratello di tutti. 

Quella che è stata l’autentica esperienza di san Charles, se collocata nel contesto sbagliato, potrebbe provocare l’impressione che il Santo eremita francese abbia sostenuto una sorta di fratellanza universale areligiosa. Anche se il discorso meriterebbe ben più ampiezza e spazio, proviamo a descrivere con l’aiuto dei suoi testi – da collocare nel giusto contesto – l’ideale di fratellanza di san Charles de Foucauld.

Indigenista o colonialista?

Si è sempre molto discusso sulle apparenti contraddizioni nella figura di san Charles de Foucauld, tra le quali la più evidente è certamente questa: da una parte il Santo eremita apprezzava la cultura dei paesi in cui si trovò a vivere, e amò profondamente i popoli che lo circondavano, perlopiù di religione islamica; dall’altra egli era stato un militare francese, combattendo peraltro nel Nordafrica, e non aveva mai disprezzato, né rigettato le precedenti esperienze, bensì riconosceva un valore provvidenziale all’avventura coloniale francese. Anzi più volte nel corso della sua vita eremitica si appoggiò all’esercito francese – in particolare al fraterno amico Laperrine – da cui ricevette aiuto, come nel caso della costruzione dell’eremo di Beni-Abbés. In altri casi il de Foucauld fu quasi una sorta di cappellano per l’esercito in quelle terre prive di sacerdoti. 

Dunque colonialista o indigenista? La domanda è veramente fuori luogo e fuori contesto – in quanto queste categorie risultano particolarmente moderne –, ma a riguardo si può dire questo. Vero che san Charles de Foucauld amò profondamente le culture dei paesi in cui si trovò a risiedere, in particolar modo quella dei tuareg: iniziò volendo tradurre il Vangelo nella loro lingua e finì per essere uno dei più profondi studiosi di quella, pubblicando persino una grammatica, un dizionario e una raccolta di poesie tradotte. E nel suo dizionario tuareg-francese in quattro volumi, non si limita semplicemente ad un elenco di vocaboli, ma cerca di penetrare nello spirito della lingua tuareg, nella mentalità “poetica” di quel popolo misterioso. D’altra parte non fu cieco davanti ai limiti culturali e antropologici di quelle società, in particolar modo il poco rispetto verso la persona umana e anche le condizioni igieniche e sanitarie molto precarie. Dunque è realmente arduo arruolare san Charles tra i profeti dell’indigenismo e dell’attuale “cultura della cancellazione”, in quanto la sua fierezza francese più volte risuona nei suoi scritti. In maniera limitata fu anche un precursore del “dialogo interreligioso”: evidentemente san Charles conobbe la cultura dei popoli islamici, ma non sembra che il dialogo fosse tra le sue priorità: il suo ideale fu sempre e comunque vivere la stessa vita di Cristo e, tramite questa, evangelizzare i popoli o, piuttosto, prepararli all’evangelizzazione. 

Il fascino per l’Islam e la figura di Gesù Cristo

Vero che nel giovane Charles de Foucauld, esploratore in Marocco sotto le false vesti di un rabbino dell’est Europa, il fascino per l’Islam irruppe in maniera inaspettata. Il bolso e rilassato ufficiale francese lasciò l’esercito per noia e nell’avventura geografico-esistenziale che intraprese in Marocco era piuttosto alla ricerca di svago e adrenalina che di Dio. 

La bontà umana dei popoli con cui venne a contatto e anche il forte senso di trascendenza della religione islamica lo colpì infatti nel profondo. Da una parte poté sperimentare l’ospitalità delle popolazioni islamiche del Marocco: in un momento in cui il territorio era chiuso ai cristiani, il “rabbino ebreo” trovò più volte ospitalità nelle zaouia (il cui significato è più o meno “fratellanza”), ovvero in famiglie devote o confraternite di uomini che ospitavano e si prendevano cura dei pellegrini e dei bisognosi, un po’ come gli “ospitali” del Medioevo cristiano sulle vie di pellegrinaggio. Da queste colse quel concetto tanto antico quanto dimenticato al giorno d’oggi dell’ospitalità sacra, che divenne poi uno dei cardini della sua azione apostolica. Nell’oasi di Tisint, nel Sahara marocchino, poi, rimase sorpreso dall’atteggiamento di preghiera e adorazione di quella gente semplice, tra cui Hadj Bou Rehim, che gli salvò la vita e rimase per lui sempre un “amico”. Per questo il racconto della sua avventura prese il nome di Reconnaisance au Maroc, in cui la prima parola può significare sia “ricognizione” che “riconoscenza”. 

Ancor di più però quel viaggio in Marocco risvegliò in Charles de Foucauld una dimensione umana da troppo tempo intorpidita nella sua anima: la dimensione religiosa. «L’Islam ha prodotto in me un profondo sconvolgimento… la vista di questa fede, di queste anime che vivono nella continua presenza di Dio, mi ha fatto intravedere qualcosa di più grande e di più vero delle occupazioni mondane: “Ad maiora nati sumus”», scrisse nel 1901 all’amico Henri de Castries, anche lui estimatore dell’Islam. La semplicità del monoteismo rigido islamico, il senso forte di trascendenza a cui l’uomo deve rispondere con la sottomissione (questo infatti significa islam) risvegliò nell’annoiato ufficiale il senso religioso, che poi lo porterà al ritorno alla religione patria: il Cristianesimo. E una volta confessatosi e presa la via della vita monastica, scrisse una frase nella quale risuona in un certo senso l’Allah akbar islamico (che significa “Dio è grande”): «C’è una tale differenza tra Dio e tutto quello che non è Lui!». 

Tra le persone con cui fratel Charles dal deserto del Sahara intraprese una lunga conversazione epistolare ci fu Louis de Massignon: l’eremita sperava che l’allora ventenne giovane di Nogent-sur-Marne sarebbe stato il primo membro della sua neonata fraternità e pertanto più volte scrisse o rispose alle sue lettere. Ma il Massignon alla fine rifiutò la vocazione religiosa e sacerdotale, e non condivise l’interesse del Santo verso la cultura berbera dei tuareg, per darsi invece allo studio dell’Islam: divenne così uno dei più grandi studiosi della religione musulmana, oltre che un precursore del dialogo tra la Chiesa e l’Islam, tanto da venir chiamato “il cristiano musulmano”. In effetti nei suoi scritti il rischio di sincretismo e di commistione è molto alto ed è da dire che, in forza della sua corrispondenza epistolare con il Santo eremita, tentò di presentare anche il nostro Santo nella luce della sua ricerca sincretista. La cosa in realtà è assolutamente falsa: san Charles de Foucauld grazie all’Islam vide risvegliarsi in sé il senso religioso assopito, ma quando dovette scegliere fra Cristo e Maometto seppe ben scegliere, e anzi individuò bene il discrimine tra le due religioni. Vide bene cioè che il Dio grande ha in realtà scelto di farsi piccolo: «Noi abbiamo per divino modello Nostro Signore GESù, povero, casto, che non resiste al male e soffre tutto in pace, perdonando e benedicendo. L’Islam prende per esempio Maometto, che si arricchisce, non disprezza i piaceri dei sensi, fa la guerra». 

Il modello è Gesù in quanto, senza castità e povertà, «l’amore e l’adorazione restano sempre molto imperfetti; perché quando si ama appassionatamente ci si separa da tutto quello che può distrarre fosse anche per un minuto dall’essere amato, e ci si getta e ci si perde totalmente in lui». Per l’Islam la crocifissione del profeta Gesù è un’eresia che offende Dio ma per il Cristianesimo la morte di Dio sulla croce è il dogma dell’amore infinito di Dio, per il quale anche il giovane esploratore, pur così scosso dal senso della trascendenza di Allah, perse il cuore.

Il pericolo islamico e il compito dell’Europa

Peraltro, riguardo alla considerazione che san Charles aveva dell’Islam, esiste una lettera molto importante che già il suo primo biografo, René Bazin, pubblicò per evitare che si diffondesse questa idea dell’idillio amoroso tra l’eremita del Sacro Cuore e il mondo musulmano. Il fascino esercitato dall’Islam sulla sua anima giovanile intorpidita dai vizi, mai tolse al religioso francese la lucidità nel giudicare con equilibrio tutti gli aspetti di quella fede e della società dei vari popoli islamici con cui si confrontò. E vide anche il pericolo per l’Europa cristiana costituito dall’Islam. Con lo scoppio della Prima Guerra mondiale infatti anche nei remoti territori deserti abitati dal nostro Eremita iniziarono una serie di moti e agitazioni anticolonialiste (e quindi antifrancesi) ma in alcuni casi anche apertamente anticristiane. E davanti a questo pericolo – nel quale poi lui stesso trovò la morte qualche mese più tardi – il 29 luglio 1916 scrisse una lettera allo stesso Bazin in cui la sua speranza non è solo che i musulmani diventino cristiani, ma addirittura francesi: «I musulmani potranno veramente essere francesi? Eccezionalmente sì. In maniera generale no. Molti dogmi musulmani fondamentali si oppongono, con alcuni si possono avere accomodamenti. Con uno, quello del mehdi (il salvatore da attendere alla fine dei tempi) non ve n’è alcuno: i musulmani credono che all’avvicinamento del giudizio ultimo il mehdi arriverà, dichiarerà la guerra santa e stabilirà l’Islam su tutta la terra, dopo aver sterminato tutti i non musulmani. In questa fede il musulmano guarda l’Islam come la sua vera patria e i popoli non musulmani come destinati a essere prima o poi soggiogati ai musulmani o ai suoi discendenti. Se si sottomettono ad una nazione non musulmana, si tratta di una prova passeggera […] potranno preferire una tale nazione all’altra […] così come potranno essere legati a quello o a quell’altro francese o ad un amico straniero. Potranno combattere con grande coraggio per la Francia, con sentimento d’onore, carattere guerriero e spirito di corpo […]. Ma, in generale, salvo eccezioni, fino a quando saranno musulmani non saranno francesi, e attenderanno più o meno pazientemente il giorno del mehdi, nel quale sottometteranno la Francia». E nella medesima lettera, considerando la crescita economica e di popolazione del Nordafrica: «Se non avremo saputo rendere questi popoli francesi, ci cacceranno. Il solo modo però con il quale diventeranno francesi è che diventino cristiani». 

La lettera in questione suscita in realtà vari interrogativi, molti dei quali non facilmente risolvibili in poche parole. Ad ogni modo il concetto generale è abbastanza chiaro: nei popoli musulmani politica e fede non sono facilmente distinguibili e applicare loro principi di “laicità”, come quelli diffusi oggi nel mondo europeo, non solo non è facile ma è addirittura impossibile! In qualche modo il Cristianesimo deve talmente penetrare questi popoli da cambiarli anche dall’interno… si devono fare “cristiani” e “francesi”, nel senso che debbono cambiare profondamente le loro strutture sociali e culturali che sono pesantemente influenzate dall’Islam. Secondo la mia opinione, in questa lettera, san Charles de Foucauld non vorrebbe imporre a questi popoli di essere “francesi”, bensì di essere cristiani fino alle midolla, di accettare il Cristianesimo in tutta la sua estensione. Dall’altra parte questa lettera è anche una sorta di silenzioso atto di accusa verso la Francia laicista dell’epoca: san Charles non condanna il colonialismo ma le nazioni europee devono essere come “padri” e “madri” delle nazioni colonizzate. E in quanto tali hanno «il dovere di evangelizzare, di diffondere la luce presso gli infedeli, quali essi siano, figli trascurati e abbandonati». 

In alcuni casi il nostro Santo dovette arrossire di fronte ai soprusi che alcuni soldati compirono contro le popolazioni indigene e in una lettera del 1912 espresse tutto il dispiacere di fronte a questa occasione che la Francia cristiana perdeva: «L’ora presente è pericolosa per le loro anime, così come per la Francia. Da ottanta anni che Algeri appartiene a noi, ci si è occupati tanto poco della salvezza delle anime dei musulmani che si può dire non ci si sia occupati affatto di ciò. Né ci si è occupati di amministrarli bene, né di civilizzarli. Li abbiamo mantenuti nella sottomissione e null’altro. Se i cristiani di Francia non capiscono che è loro dovere evangelizzare le proprie colonie, è una colpa di cui renderanno conto e sarà la causa della perdita d’una moltitudine di anime che avrebbero potuto essere salvate». 

Evangelizzazione, cultura e carità

Bene, ma come convertire questa gente? Alla domanda san Charles de Foucauld aveva risposto già nel 1905 in maniera piuttosto dubbiosa circa la possibilità di un’evangelizzazione diretta di questi popoli: «Tranne per alcune anime scelte, ben poco numerose, il Cristianesimo non penetrerà tra i musulmani sino a quando la nostra educazione, i nostri studi non saranno penetrati, e quando saranno capaci di distinguere la stupidità [inanité] della loro fede e la solidità della nostra». Questo ci aiuta a meglio comprendere alcuni passaggi della lettera precedente: l’evangelizzazione per il Santo missionario doveva procedere di pari passo con l’educazione e con l’introduzione di una civiltà cristiana, anzi queste ultime dovevano precederla. Non bastava cioè annunciare la Fede ma bisognava lavorare per l’instaurazione di una civiltà cristiana, dove per civiltà intendiamo tutti i mezzi sociali, culturali e civili che permettono all’uomo di raggiungere il proprio fine. L’uomo nel suo sforzo di raggiungere il suo fine naturale si sarebbe poi aperto anche a quello soprannaturale. Per questo continuava: «L’opera da fare è preparare da lontano questo avvenire, farsi stimare, amare gli indigeni, guadagnare la loro confidenza, divenire loro amici, far conoscere la nostra morale, farli familiarizzare con il Cristianesimo. Questa è una opera preparatoria che devo fare». 

Certo, la scelta di san Charles potrebbe far discutere qualcuno – soprattutto per il fatto che la sua vita missionaria non conta nemmeno una conversione al Cattolicesimo – tuttavia è chiara: fratel Charles non disprezzava l’evangelizzazione diretta, l’annuncio coraggioso e fedele della Parola di Dio, ma riteneva poco proficua questa via per quei popoli e per quelle terre. A più riprese lui si ritenne non colui che doveva gettare il seme ma colui che doveva preparare il terreno, per questo poco importavano i frutti. L’importante era cercare di penetrare nella cultura e nei cuori. Da qui l’impegno sempre più assorbente nello studio della lingua e della cultura dei tuareg, da cui provennero le benemerite opere linguistiche e la traduzione del Vangelo nella loro lingua. E ancor di più l’impegno caritativo, l’evangelizzazione indiretta: testimoniare il Vangelo dimostrando nella pratica cosa sia la carità del Sacro Cuore di Gesù. Per questo i suoi eremi non furono solo luoghi di preghiera ma luoghi di accoglienza. A imitazione delle zaouia che l’avevano accolto nel suo viaggio in Marocco, anche le sue case divennero “zaouia di preghiera e di accoglienza”, dove san Charles accoglieva tutti indistintamente «buono o cattivo, amico o nemico, musulmano o cristiano, in una carità fraterna e universale che condivide fin l’ultimo boccone di pane con qualsiasi povero, qualsiasi ospite, qualsiasi sconosciuto che si presenti, e riceve ogni essere umano come un fratello amatissimo». Per dare cibo o ospitalità, per fornire vestiti o medicinali, o anche solo per scambiare qualche parola… la vita san Charles nel corso degli anni divenne sempre meno ritirata ed eremitica e sempre più un esercizio eroico di carità, di quella carità con cui voleva convertire il cuore dei pagani.

Fratello universale

Dunque è vera la definizione di san Charles de Foucauld come “fratello universale”? Nel 1902 scriveva alla cugina Marie de Bondy: «Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei e idolatri a guardarmi come loro fratello – il fratello universale... Cominciano a chiamare la casa “la fraternità” (la khaoua in arabo), e questo mi è caro». Dunque è stato lo stesso Charles ad applicare a sé la definizione di fratello universale, ma come va inteso questo? Dobbiamo stare attenti a non prendere questa definizione nel senso di una fraternità universale laica e atea – o quanto meno agnostica – molto simile alla “fratellanza” della Rivoluzione francese e della Massoneria. Questo tipo di fratellanza universale massonica prenderebbe come base la stessa natura umana ed escluderebbe qualsiasi tipo di religione: la fraternità tra gli uomini non sarebbe infatti favorita dalle religioni ma ostacolata da esse, in quanto queste dividono gli uomini e talora li oppongono l’uno all’altro. Per questo la fratellanza universale intesa in questo senso è areligiosa e talora antireligiosa: dovendo unificare tutti gli uomini tra loro deve porsi al di sopra delle religioni e, spesso, anche contro di esse. Un tale senso di fraternità universale non è accettabile per un credente e tanto meno lo era per san Charles de Foucauld, alla luce di una sola e semplice osservazione: l’uomo è una creatura che deriva da Dio la sua dignità e dunque anche la base della fratellanza universale. Gli uomini non sono fratelli nonostante Dio, bensì grazie a Dio, in quanto Dio è padre di tutti gli uomini. Però la “paternità” di Dio nei confronti degli uomini e la “fratellanza” tra di loro rimarrebbe di per sé un’espressione metaforica ed esagerata se Dio non fosse intervenuto nella storia per riunire veramente a sé e tra di loro gli uomini non con vincoli di sangue ma con vincoli spirituali. Per questo solo nella religione cristiana Dio è veramente Padre, e non solo Creatore, in quanto nel Battesimo condivide con noi la sua stessa natura… quindi nello stesso senso e nello stesso modo – tramite il Battesimo e la grazia santificante – gli uomini sono resi veri fratelli tra di loro (e non solo in senso metaforico) nel momento in cui partecipano alla vita stessa di Cristo. La “fraternità universale” a cui faceva menzione il nostro Santo e quella a cui dovrebbero guardare anche i cattolici di oggi è dunque solo una preparazione, un’introduzione, alla vera e propria fraternità che si sperimenta tramite la grazia di Dio nella Chiesa Cattolica. Per questo la vera fratellanza si raggiunge con la conversione e con il Battesimo.

San Charles non escluse affatto l’evangelizzazione e la conversione degli islamici alla fede cristiana, bensì in uno sforzo impetuoso di amore divino e di abbassamento, si volle chinare su quei poveri infelici e con la sua fratellanza umana e universale volle dare loro briciole della vera fraternità in Cristo, l’unica in grado di stringere veramente gli uomini tra di loro con vincoli solidi. Scrisse il santo Eremita francese: «Non mi è possibile praticare il precetto della carità fraterna senza consacrare la mia vita a fare tutto il bene possibile a questi fratelli di Gesù ai quali manca tutto perché manca loro Gesù. Se fossi al posto di questi infelici musulmani, che non conoscono GESÙ, né il suo SACRO CUORE, né MARIA nostra madre, né l’Eucaristia, né il seno della Chiesa, né i Vangeli, né niente di quello che fa la nostra felicità quaggiù e tutta la nostra speranza lassù, e se conoscessi il mio triste stato, oh, come vorrei che si facesse il possibile per tirarmi fuori». Il desiderio di ricondurli tutti alla casa del Padre, la Chiesa, dove tutti gli uomini vivono come fratelli, non doveva passare però nel caso degli islamici e dei tuareg con un’opera di evangelizzazione diretta, bensì con lo sforzo personale nella carità e nella santità. Si poteva portare loro Gesù con la parola, oppure con la vita e con il cuore, e san Charles scelse proprio quest’ultima strada. Portare fisicamente Gesù eucaristico in mezzo a popolazioni che non lo adorano e cercare di condividerlo con loro tramite l’amore del Sacro Cuore di Gesù: «Non credo di poter far loro un bene maggiore – scriveva san Charles – che portar loro, come Maria nella casa di Giovanni, alla visitazione, GESÙ […]. Nello stesso tempo, pur tacendo, si farebbe conoscere ai nostri fratelli non con la parola, ma con l’esempio e soprattutto con l’universale carità, quella che è la nostra fede, quello che è lo spirito cristiano, quello che è il CUORE di GESÙ»

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