RELIGIONE
Una porpora rosso sangue. Il card. Ernest Simoni
dal Numero 38 del 16 ottobre 2022
di Suor M. Elisabetta Daniello, FI

«Hanno fatto di tutto per eliminarmi ma il Signore non mi ha mai abbandonato. Ero stato condannato a morte per impiccagione ma Dio mi ha salvato». Il card. Simoni ricorda con disarmante naturalezza gli 11.107 giorni di prigionia e lavori forzati. Unico sacerdote ancora vivente testimone della persecuzione del regime comunista di Enver Hoxha, che proclamò l’Albania il “primo Stato ateo al mondo”.

Ci sono ancora santi che camminano per le strade del mondo, ci sono vicini e testimoniano con la vita la loro fedeltà e il loro amore a Cristo. Uno di questi “santi viventi” è il card. Ernest Simoni, creato cardinale di Santa Romana Chiesa il 19 novembre 2016. È una persona che ricorda nella sua costituzione fisica Benedetto XVI, e nella potenza della sua parola e testimonianza (in un italiano/albanese incerto nella pronuncia, ma precisissimo nei contenuti e vigoroso nell’esposizione) san Giovanni Paolo II.
Il cardinale Ernest Simoni è nato a Scutari in Albania il 18 ottobre 1928, festa di san Luca e della Madonna del Buon Consiglio, Patrona d’Albania.
Proveniente da una famiglia cattolica, all’età di 10 anni, dopo aver frequentato le scuole regolari, entrò nel Collegio francescano “Illiricum”, abbracciò la vita religiosa nell’Ordine dei Frati Minori e ricevette il nome di fra Enrico; vi rimase fino al 1948, quando il regime comunista di Enver Hoxha chiuse il convento ed espulse i 18 novizi presenti. Davanti al giovane novizio fra Enrico, furono fucilati barbaramente i suoi superiori e formatori, alti docenti che avevano studiato in Italia e Germania, i quali erano stati accusati ingiustamente dal regime di voler organizzare una sommossa contro il partito. I funzionari comunisti una notte nascosero delle armi nella cripta del convento francescano, sotto l’altare del Sacro Cuore, accusando poi i religiosi, la mattina successiva, di voler organizzare con quelle armi una rivolta. Dal 1953 al 1955 fra Enrico fu costretto ad espletare il servizio militare, benché per legge chiunque studiasse fosse esonerato da quell’obbligo: fu questo il periodo più doloroso di tutta la sua vita. Lui e i suoi compagni erano costretti a marciare sulla neve e sul ghiaccio, portando sulle proprie spalle oltre 36 kg di munizioni; dovevano stare in piedi fino a 17 ore al giorno con addosso anche il peso delle mitragliatrici, tra neve e ghiaccio, indossando indumenti non adeguati, spesso senza mangiare e bere. Al termine del servizio militare, i suoi aguzzini provarono a piegarlo anche con le lusinghe, offrendogli la possibilità di insegnare all’università di Tirana e di sposare una bella ragazza, ma egli rispose: «Io sono già sposato con la sposa più bella del mondo, la Santa Chiesa Cattolica, ed è lei che voglio servire con tutto me stesso, per tutta la vita!». Fin d’allora vedeva il sacerdozio proprio come un matrimonio, così lo ha sempre vissuto fino ad oggi, dopo oltre 65 anni di sacerdozio. La sua vocazione sacerdotale risale ai primi anni della sua vita. Aveva poco più di 4 anni, quando sua madre lo trovò inginocchiato davanti a una cassapanca, intento in quello che sembrava uno strano “gioco”. «Che cosa fai?», gli chiese. «Non lo vedi? Sto celebrando la Messa», rispose il piccolo Ernest.
Dopo il servizio militare, fra Enrico riprese e portò a termine clandestinamente gli studi teologici, ricevette la sacra ordinazione sacerdotale il 7 aprile 1956, domenica in Albis, nella cattedrale di Santo Stefano, dalle venerabili mani di S.E. Mons. Ernest Çoba, arcivescovo di Scutari, in seguito ucciso il 15 aprile 1979 mentre si trovava in prigione, durante gli anni della persecuzione comunista in Albania. «Sono felice e grato al Signore per il dono del sacerdozio – dice il card. Simoni –. I due anni precedenti all’ordinazione li avevo passati a fare il servizio militare obbligatorio ed erano stati tra i più difficili di tutta la mia esistenza. Il regime sapeva che volevo diventare sacerdote e gli ufficiali mi rendevano la vita impossibile. Temetti più di una volta che volessero uccidermi. La gioia che provai il giorno in cui sono stato ordinato era mista alla gratitudine a Dio per avermi salvato. Non saprei esprimerla a parole»; e continua: «Mi ripetevo e mi ripeto tuttora: chi sono io, povero uomo e peccatore, per prendere nelle mie mani il Corpo di Gesù? Oggi ribadisco il mio amore a Cristo e alla Chiesa, come ho cercato di fare ogni giorno in questi 65 anni».
Per oltre sette anni guidò le parrocchie di Kabash, Pukë, Kukël, Gocaj, Barbullush, Mal i Jushit, Torovicë e Sumë, e le esperienze fatte formarono il carattere e il dinamismo pastorale di don Ernest.
La sua azione pastorale fu molto contrastata dal regime totalitario albanese con minacce e persecuzioni, che però non arrestarono il suo impegno di evangelizzazione e di servizio ai fratelli, offrendo una coraggiosa testimonianza di fedeltà a Cristo.
Il 13 giugno 1963, mentre don Ernest celebrava la Santa Messa di notte (perché costretto dal regime), nella chiesa gremita di fedeli soprattutto giovani, durante la Consacrazione, il popolo vide la statua di sant’Antonio di Padova lacrimare e trasudare. «Ho visto tutto anch’io – ricorda lo stesso don Ernest – ma con prudenza cercavo di tranquillizzare i fedeli che gridavano al miracolo. Mi recai dall’arcivescovo di Scutari, mons. Çoba, per informarlo; ed egli mi disse che tale prodigio era accaduto anche nel santuario dedicato a sant’Antonio a L?c, e perciò era preoccupato che questo avvenimento non fosse un presagio di sventura e di atroci sofferenze per me o per la Chiesa d’Albania, presagio che purtroppo dopo poco divenne realtà, con la persecuzione di tutta la Chiesa d’Albania ed il mio arresto».  
Don Ernest fu arrestato dalle autorità comuniste il 24 dicembre 1963 mentre celebrava la Messa della vigilia di Natale nella chiesa di Barbullush (Scutari); entrarono in chiesa quattro poliziotti della Sigurimi (polizia albanese) presentandosi con il decreto di arresto e di impiccagione immediata firmato dal presidente Hoxha. Terminata la Celebrazione eucaristica, ammanettarono e arrestarono don Ernest, dopo averlo insultato e preso a calci, solo per aver predicato che «Gesù è la salvezza del mondo, la nostra risurrezione, dobbiamo essere fedeli a Lui fino alla morte e, se vi sarà bisogno, versare anche il sangue per il suo amore infinito, per la salvezza nostra e di tutti i peccatori». 
L’accusa ufficiale del suo arresto fu quella di avere celebrato tre Messe in suffragio del presidente americano John Fitzgerald Kennedy assassinato poco tempo prima. Don Ernest, celebrando quelle Messe, non fece altro che obbedire alle richieste del papa Paolo VI. Fra le tante accuse, ci fu anche quella di essere abbonato alla rivista L’Union Soviétique e di aver praticato riti di esorcismo.
Fu imprigionato in quello che in passato era stato un convento francescano, trasformato poi in quartier generale della Sigurimi, ossia in luogo di tortura; fu confinato in una cella d’isolamento chiamata cella “buco”, di 1,5 x 1,5 metri, senza finestra, freddissima, infestata da vari insetti. Il nostro prigioniero vestiva solo una canottiera in cui, a sua insaputa, era stata inserita una microspia collegata direttamente agli uffici del presidente Enver Hoxha, che poteva ascoltare da Tirana. Era stato condannato a ben 18 anni di reclusione.
Nella cella con don Ernest si trovava anche un giovane da lui conosciuto, il quale fu imprigionato con il compito di spiare il sacerdote, provocandolo e istigandolo a bestemmiare contro il regime, ma dalla bocca del sacerdote uscivano sempre e solo parole di perdono e di preghiera. Il presidente Hoxha, usava ogni mezzo per pressarlo psicologicamente, per piegarlo, ma don Ernest con salda virtù sopportava tutto in silenzio e nella preghiera. A volte ripeteva ad alta voce le parole del Vangelo: «Amare i nemici, perdonare i nemici, pregare per i nemici, dare la vita per i nemici»; oppure così pregava per i suoi carnefici: «Prego per il presidente albanese, affinché faccia del bene per il popolo affamato». Il presidente Hoxha, avendo ascoltato dalla microspia le tante parole di don Ernest torturato e condannato a morte, commosso commutò la pena di morte in lavori forzati a vita, con la motivazione che non era nemico del popolo, ma una persona indottrinata dalla Chiesa.
Durante la prigionia, il compito di don Ernest era quello umile e umiliante di spalare le feci di migliaia di detenuti. Egli era per i compagni di cella un vero padre spirituale: nella sofferenza e nella barbarie non perse mai la fede e non smise di esercitare il ministero sacerdotale.
Per oltre 25 anni di regime comunista non ha mai interrotto il suo ministero sacerdotale celebrando di nascosto la Santa Messa in latino, con le ostie cotte su piccoli fornelli che servivano per il lavoro, e con grande difficoltà riusciva ad avere dalla moglie di un detenuto musulmano di Tirana dei chicchi d’uva. Quell’uva spremuta diventava nelle mani del sacerdote il Sangue di Cristo. «Durante il periodo di prigionia, ho celebrato la Messa in latino a memoria, così come ho confessato e distribuito la Comunione di nascosto, e non ho mai lasciato la recita del Rosario ogni giorno», così il card. Simoni ricorda quel periodo. «Mettevo da parte le briciole di pane e spremevo gli acini d’uva e facevo la Consacrazione. Le guardie non capivano e pensavano che ero pazzo. La Madonna mi ha protetto».
Le promesse evangeliche che accompagnarono tutto il periodo di prigionia e la sua vita di testimonianza furono: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla» (Sal 23,1); «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20).
Nel 1973 ci fu una nuova condanna a morte emessa nei suoi confronti (dopo 10 anni di prigionia) con l’accusa di aver istigato una sommossa nel campo di prigionia. Ma le testimonianze in suo favore dei carcerieri e del ministro degli affari interni di allora, presente nel campo – il quale esclamò: «Per bruciare vivo don Ernest non abbiamo paura di nessuno, ma non può essere ucciso per le vostre bugie» –, fecero sì che, ancora una volta, la condanna non fosse eseguita. 
Don Ernest non ha mai odiato o provato rancore verso i suoi persecutori e carcerieri: «Ho perdonato tutto per Gesù che sempre ha perdonato tutto: “Perdonali Signore perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34)» e continua: «Prego ancora, per i miei aguzzini e quelli di tutto il popolo albanese, ogni giorno durante la Santa Messa. Invoco su di loro la misericordia di Dio, sono quelli che ne hanno certamente più bisogno. Quanto a me, ho perdonato di cuore, come spero che un giorno il Signore perdoni anche a me i miei peccati».
Nel 1981, dopo 12 anni di lavori forzati nelle miniere di Spac a 500 metri sotto terra, dove estraeva rame e pirite, continuò a scontare la sua pena nelle fogne di Scutari, dove nel ghiaccio e nella neve ogni giorno doveva scavare canali lunghi 15 metri, profondi e larghi 1,5 metri. Nel 1985 riuscì coraggiosamente e clandestinamente a celebrare la Santa Messa di nascosto con più di 200 fedeli cattolici e ad amministrare i sacramenti col rischio di perdere la vita se lo avessero scoperto, e anche dopo continuò ad esercitare clandestinamente il ministero sacerdotale fino alla caduta del regime comunista avvenuta nel 1990. Fu scarcerato definitivamente il 5 settembre 1990. Appena fuori dal carcere, ribadì di aver perdonato i suoi aguzzini, invocando per loro la misericordia del Padre; esercitò il suo ministero in diversi villaggi e in cinque parrocchie affidate alle sue cure, portando, con tanti sacrifici, la sua testimonianza di sacerdote cattolico perseguitato e sopravvissuto al regime. Nell’agosto 1991 bussò alla casa di don Ernest in Scutari, madre Teresa di Calcutta, la quale era stata mandata direttamente dal Santo Padre Giovanni Paolo II che cercava il vescovo mons. Nicola Troshani, ultimo vescovo albanese sopravvissuto alle barbarie del regime (cugino di don Ernest), anch’esso imprigionato per lunghi anni durante la dittatura. Madre Teresa portava con sé un biglietto firmato dal Pontefice polacco (conoscitore delle crudeltà del comunismo sperimentate nella sua patria da giovane), sul quale era scritto: «Mi interesso della tua salute e della tua condizione». Dopo pochi giorni, don Ernest, il cugino arcivescovo e il nipote Antonio con un visto speciale arrivarono in Italia e incontrarono il Papa a Castel Gandolfo. 

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