RELIGIONE
I Vangeli ci dicono la verità
dal Numero 29 del 31 luglio 2022
di Padre Angelomaria Lozzer, FI

C’è chi dice che non tutto quello che è scritto nei Vangeli sia realmente accaduto o sia stato realmente detto da Gesù. Molto sarebbe stato creato ad arte da una primitiva comunità cristiana. è davvero così? I cattolici dicono di no, non solo poggiati ben saldi sul fondamento della fede della Chiesa, ma anche su quelle prove evidenti interne ed esterne ai testi evangelici che abbiamo cercato di sintetizzare e fissare per i Lettori in 10 punti.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 126 afferma: «La Chiesa ritiene con fermezza che i quattro Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro salvezza eterna, fino al giorno in cui ascese al cielo». 

La Chiesa non ha dubbi che i Vangeli siano libri storici, contenenti i fatti realmente accaduti alla persona specifica di Gesù di Nazareth. D’altra parte la fede che essa professa ha il suo fondamento proprio in quei fatti, che in quanto fatti appartengono alla storia. Che poi gli Evangelisti si siano prefissati nello scrivere i Vangeli uno scopo catechetico, scegliendo tra gli eventi avvenuti quelli più indicati a suscitare nei lettori la fede in Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, non toglie nulla al fatto che essi siano libri storici. E questo è un dato che troviamo universalmente creduto e accettato fino al giungere del cosiddetto “secolo dei Lumi”, quando in nome della ragione, ma sarebbe meglio dire in base a un pregiudizio (quello secondo cui il soprannaturale e i miracoli non esistono, né possono esistere), si è preteso di ridurre tutto ciò che ivi è narrato o ad avvenimenti di semplice ordine naturale, aventi cause naturali, o a racconti fantasiosi inventati da una non identificata primitiva comunità cristiana.

Il primo a formulare l’attacco alla storicità dei Vangeli è stato un certo professore di lingue orientali dell’Università di Amburgo, Hermann Samuel Reimarus (1694-1768). Di religione deista, egli era convinto che Dio, dopo aver creato il mondo, non potesse più intervenire a modificare le leggi di natura con dei miracoli. Per questo i Vangeli erano da ritenersi un inganno e Gesù un semplice agitatore politico che, nel tentativo di liberare la Palestina dal dominio romano, sarebbe finito nelle mani della giustizia e crocifisso. I suoi seguaci avrebbero poi, nel tentativo di accreditarlo, circondato la sua figura dell’aureola di messia spirituale e religioso, suffragando la loro tesi col sottrarne il corpo dalla tomba spacciandolo per risorto. 

Il Reimarus non pubblicò la sua tesi, ma i suoi 4.000 fogli lasciati sulla scrivania alla morte furono letti e in parte pubblicati dall’amico Lessing sotto il titolo di Frammenti di un anonimo, aprendo così la pista a un’altra serie di autori; tra questi Hermann Paulus, un professore di Heidelberg. Egli non condivideva la tesi proposta dal Remarus, sostenendo che i Vangeli dovevano essere accettati così come erano scritti. Ciò che piuttosto andava fatto era interpretare i miracoli in essi contenuti come dei “fatti puramente naturali”: la pesca miracolosa era da ritenersi un colpo di fortuna, la guarigione dei ciechi e sordi opera di colliri e polveri medicinali di cui Gesù conosceva l’efficacia, la stessa morte in Croce di Gesù una sorta di letargo dal quale Egli si sarebbe ripreso manifestandosi nuovamente vivo tra i suoi, e così via. 

Il professore tedesco Friedrich Schleiermacher però si domandava come fosse possibile ammettere i miracoli narrati dai Vangeli e pretendere poi di demolirli con una spiegazione “naturale”. Era più logico ritenere che i miracoli non fossero mai avvenuti e la loro presenza attribuita al “sentimento religioso” dei suoi discepoli. Tuttavia anche il ricorso a questo “sentimento religioso” non convinceva. David Friedrich Strauss, vero padre della “teoria del mito”, sostenne allora che i Vangeli erano semplicemente una raccolta di favole religiose, o “miti”, nei quali era necessario separare il tenue contenuto storico dai fatti inventati (tra questi certamente i miracoli e tutti gli eventi al di là delle leggi di natura). 

Portando alle estreme conseguenze il suo pensiero, Rudolf Bultmann diede il via alla teoria della demitizzazione. Egli sosteneva che i Vangeli non erano da attribuirsi ai quattro evangelisti Matteo, Marco, Luca e Giovanni, ma a una tarda e ignota comunità cristiana che non aveva mai conosciuto Gesù. Questo spiega il perché essa non poté scrivervi i fatti storici realmente accaduti, ma soltanto esprimervi la propria fede nella mitica figura di Cristo, così come era annunciata nel “Kérigma”, ossia nella catechesi della primitiva comunità. La stessa Risurrezione di Cristo dunque doveva essere ritenuta un mito e così il peccato originale, la Redenzione, la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, ecc. Scriveva: «Non si può usare la luce elettrica e la radio, servirsi di moderni strumenti medici e chimici nei casi di malattia, e credere poi al mondo degli spiriti e dei miracoli del Nuovo Testamento».

Inutile dire come tutte queste teorie abbiano lasciato i loro pestiferi strascichi anche in ambito cattolico dove ancora oggi troviamo biblisti intenti a spiegare certi eventi miracolosi con cause naturali, negando ad esempio l’esistenza di angeli e demoni, come pure gli esorcismi, relegando le possessioni diaboliche a malattie di natura psichica o psicologica e così via; così come troviamo interpretazioni scritturistiche volte a compiere una pericolosa distinzione tra il Gesù della storia e il Gesù della fede, dove il contenuto storico è messo spesso in dubbio. Tanto – si dice – ciò che importa è l’insegnamento che dobbiamo trarvi.

Il punto su cui tutti costoro fanno leva sta nell’asserzione che la stesura dei Vangeli è molto tarda, risalendo ad un tempo nel quale coloro che erano stati testimoni oculari degli eventi erano già morti. 

In questo modo il gioco è fatto: chi ci assicura che tutto quello che è stato scritto nei Vangeli è realmente accaduto o è stato realmente detto da Gesù o non piuttosto creato ad arte da una primitiva comunità cristiana? 

Ma è stato davvero così? Noi diciamo di no, non solo poggiati ben saldi sul fondamento della fede della Chiesa, ma anche su quelle prove evidenti interne ed esterne ai testi in questione che cercheremo qui di sintetizzare, senza con ciò pretendere di essere esaustivi[1].

 

1. La freschezza, l’immediatezza e la vivacità della narrazione dei Vangeli richiamano un rapporto diretto e ravvicinato tra gli scritti e gli avvenimenti narrati.

 

2. L’ambientazione, la conoscenza topografica della regione, la descrizione dei riti religiosi, la consuetudine dei pellegrinaggi, le dispute rabbiniche, la fisionomia dei vari partiti religiosi, i temi dell’attesa escatologica e messianica, rivelano tutti concordemente che il periodo storico descritto è quello palestinese in cui visse Gesù. Sappiamo infatti come l’invasione romana dell’anno 70 d.C., con la relativa conquista di Gerusalemme, abbia segnato un cambiamento radicale della vita di quei luoghi e come molti di quegli usi, di quelle consuetudini, ma anche di quegli stessi luoghi menzionati nel Vangelo siano andati cancellati. Pensiamo ad esempio alla piscina probatica di cui parla il Vangelo di san Giovanni e creduta per molto tempo un’invenzione della comunità primitiva per il fatto che della sua esistenza non se ne aveva alcun riscontro al di fuori del Vangelo di Giovanni. Ebbene gli scavi archeologici ne hanno messo in luce l’esistenza. Interessante è notare come san Giovanni nel testo afferma che «c’è [estin] in Gerusalemme, vicino alla porta delle Pecore, una piscina chiamata in ebraico Betzaetà che ha cinque portici» (Gv 5,2). L’uso del presente con cui san Giovanni dà notizia della sua esistenza [estin], mentre tutto il racconto evangelico è riportato al passato, mostra che, quando san Giovanni stese questo racconto, quella piscina esisteva ancora. Quindi il testo deve risalire a prima dell’anno 70 d.C. Una comunità appartenente alla generazione successiva e proveniente dall’Asia minore non sarebbe mai stata in grado di ricostruire questo mondo scomparso. Esso rivela una conoscenza che solo chi era vissuto in quei luoghi e a quell’epoca era in grado di fornire. Stesso discorso valga per l’uso dei nomi propri dei personaggi del Vangelo che rispecchiano esattamente quel periodo storico e quei luoghi. Chi inventa difficilmente può tenere insieme tutte queste cose senza cadere in qualche errore storico o topografico o degli usi e dei costumi...

 

3. Il discorso escatologico riportato dai tre sinottici mostra come le parole di Gesù riguardanti la fine dei tempi e la rovina di Gerusalemme si confondessero ancora nella mente degli Evangelisti (cf. Mt 24, Mc 13, Lc 21). La distinzione dei due eventi, infatti, si sarebbe palesata solo dopo la conquista di Gerusalemme avvenuta da parte dei Romani nel 70 d.C.; segno questo che i Vangeli erano stati scritti prima che ciò accadesse. Inoltre non troviamo alcun riferimento al fatto che la profezia di Gesù si fosse realizzata, cosa che gli Evangelisti avrebbero avuto tutto l’interesse di sottolineare nel dimostrare la divinità di Gesù.

 

4. Nei Vangeli si parla di Pietro come capo della Chiesa, degli Apostoli e dei settantadue discepoli inviati da Gesù ma non risulta ancora quella distinzione tra vescovi, presbiteri e diaconi che troviamo descritta nelle lettere degli Apostoli. Nemmeno si trova alcun riferimento ai primi terribili avversari del Cristianesimo quali furono gli gnostici, i doceti, i montanisti, ecc., come neanche riferimenti alle persecuzioni scatenate periodicamente dalle autorità dell’Impero romano. Gli unici avversari conosciuti dal Vangelo sono gli scribi, i farisei, i sadducei... Ora un tale silenzio su eventi che avrebbero avuto tanta ripercussione nella vita della Chiesa e delle primitive comunità cristiane non si spiega se non con il fatto che i Vangeli erano stati scritti prima che queste cose accadessero.

 

5. Tutta la Tradizione è unanime nel riconoscere la paternità dei Vangeli a Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Ad esempio, sant’Ireneo di Lione (130-202), discepolo di san Policarpo che fu a sua volta discepolo di san Giovanni evangelista, nella sua opera Contro le eresie scrive: «Matteo, fra gli ebrei, nella lingua loro propria, produsse un Vangelo [...]. Grazie a Marco, discepolo e segretario di Pietro, le cose predicate da Pietro ci sono state tramandate. A sua volta Luca, compagno di Paolo, raccolse in un libro il Vangelo predicato da quello. Infine Giovanni [...] pubblicò un Vangelo, mentre dimorava in Efeso» concludendo che «esistono dunque solo quattro Vangeli, né più né meno». Ora questi autori sono tutti vissuti nel I secolo d.C., due dei quali direttamente testimoni degli eventi che narrano (Matteo e Giovanni) e due discepoli degli stessi Apostoli (Marco e Luca) dai quali attinsero il materiale per il loro Vangelo.

Teniamo presente che il Cristianesimo, subito dopo la morte di Gesù, si è diffuso con grande rapidità ovunque[2]. Lo stesso Plinio il Giovane, scrivendo all’imperatore Traiano nel 112, asseriva: «Il Cristianesimo è professato da un gran numero d’ambo i sessi, di ogni età e classe sociale», aggiungendo che la sua diffusione non riguardava solo le città ma anche i villaggi e le campagne. Ora una presenza così numerosa di focolai di Cristianesimo, spesso anche in lotta tra di loro per questioni di carattere dottrinale, è unanime nell’affermare che il Vangelo di Matteo, di Marco, di Luca e di Giovanni sono i soli Vangeli autentici, e che essi furono realmente scritti da questi quattro personaggi suddetti. Una tale unanimità non si spiegherebbe senza che ciò avesse fondamento nei fatti. Se i Vangeli fossero stati scritti da una primitiva comunità cristiana, come avrebbe potuto farli accettare da tutte le altre comunità senza che fosse sorta qualche obiezione da parte delle altre? Nulla si trova di tutto questo.

 

6. Le scoperte papirologiche e archeologiche dell’ultimo secolo confermano l’antichità dei Vangeli. Nella grotta di Qumran numero 7 – il cui pavimento era disgraziatamente sprofondato – gli archeologi recuperarono, nel 1955, diciannove frammenti di papiro, eccezionalmente scritti in greco. Qumran è una località situata sulla riva occidentale del Mar Morto dove ai tempi di Gesù viveva una fiorente comunità di monaci Esseni, che nell’anno 68 d.C. con l’arrivo dei romani abbandonarono precipitosamente, nascondendo in alcune grotte delle vicinanze i loro preziosissimi rotoli appartenenti alla loro biblioteca. Tra questi scritti antichi è stato rinvenuto un minuscolo frammento di papiro, contenente venti lettere disposte su cinque righe, che è chiamato 7Q5, dove 7 sta per il numero della grotta, Q per Qumran e 5 per il numero catalogato che lo distingue dagli altri frammenti trovati nella stessa grotta. La traduzione italiana delle parole greche riportate in 7Q5 suona così: «...avevano capito riguardo al pane, ma il loro cuore era indurito. E quando ebbero compiuto la traversata, vennero a Genesaret e approdarono. E quando...».

Grazie all’intuizione del gesuita José O’Callaghan, papirologo di fama internazionale e docente del Pontificio Istituto Biblico di Roma, il frammento venne ritrovato corrispondente ai versetti 52-53 del capitolo VI del Vangelo di Marco. Anni più tardi, il potente programma informatico “Ibykus” ha confermato la straordinaria scoperta. Mettendo, infatti, a confronto il frammento suddetto con tutta la letteratura greca dell’epoca, non ha dato altro responso che quello di “Marco 6,52-53”. Il padre Ignazio De La Potterie, decano dell’Istituto Biblico di Roma, poteva dichiarare: «Sulla base di inoppugnabili ricerche al computer è impossibile che il 7Q5 non sia un frammento del Vangelo di Marco». Ora tale frammento è sicuramente anteriore all’anno 68, anno in cui i monaci abbandonarono Qumran. Ulteriori ricerche hanno messo poi in luce come il testo debba essere fatto risalire a prima dell’anno 50, quando lo stile “ornato erodiano”, con cui il frammento è stato scritto, cessò di essere usato. Se poi teniamo conto che esso non era l’originale di Marco, ma solo una copia giunta più tardi a Qumran, il Vangelo deve essere stato scritto tra il 42 e il 45, il che va a coincidere con la Tradizione, la quale asserisce che Marco scrisse il suo Vangelo a Roma sotto dettatura di Pietro, il quale giunse e predicò alla capitale dell’impero appunto nell’anno 42. Siamo quindi a distanza ravvicinata dagli eventi in essi riportati, quando i testimoni oculari dei fatti erano ancora vivi. Il fatto che nessuno confutò quanto in essi è narrato e che nessuna voce si levò dei numerosi nemici che la Chiesa aveva a screditare la veridicità di tali fatti prova la bontà di quanto in essi è riferito. 

Al frammento 7Q5 possiamo aggiungere anche la scoperta di altri tre frammenti papiracei del Magdalen College di Oxford, ritrovati in Egitto negli anni ’40 e datati dal papirologo tedesco Carsten Peter Thiede intorno al 65-66 d.C., contenenti alcuni versetti del capitolo 26 del Vangelo di Matteo. Anche qui evidentemente non si tratta dell’originale di Matteo che come sappiamo dalla Tradizione fu scritto in aramaico, ma di una copia più tardiva tradotta in greco, il che implica che l’originale sia da datare a un periodo anteriore.

 

7. Lo scrittore pagano Petronio nel Satyricon cita, in chiave di sprezzante parodia, alcuni episodi del Vangelo di Marco, mostrando come questo testo fosse già in circolazione nel 64/65 d.C. Ad esempio parlando dell’unzione di Gesù a Betania, Petronio utilizza l’espressione “un’ampolla di nardo”, la stessa utilizzata da Marco nel suo Vangelo (a differenza di Matteo e Luca che parlano di un vaso d’olio profumato senza specificarne la natura dell’essenza e di Giovanni che parla di una libbra di nardo senza nominarne il contenitore). Si tratta di un particolare molto marginale dei Vangeli che difficilmente Petronio avrebbe potuto conoscere solo per sentito dire, segno che i Vangeli dovevano essere già diffusi nell’impero.

 

8. Troviamo una perfetta sintonia tra il Gesù narrato nei Vangeli e quello narrato dalle lettere di san Paolo, la cui datazione è sicuramente anteriore alla data della sua morte, avvenuta nel 64 o al limite qualche anno dopo, e la cui paternità è ritenuta, per molte di esse, indiscussa. San Paolo nella prima lettera ai Corinzi scriveva: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me» (1Cor 15,3-8). San Paolo qui fa riferimento a cinquecento testimoni della Risurrezione di Cristo, molti dei quali ancora viventi. Come dunque ammettere che nel 53 d.C., anno in cui san Paolo scrive questa lettera, si sia creato il mito intorno alla figura storica di Gesù di cui parlano gli autori sopra citati?

 

9. Le fonti extrabibliche e le scoperte archeologiche confermano molti dati fornitici dai Vangeli. Per esempio, l’ebreo Giuseppe Flavio (37-100 d.C ca.) nelle Antichità Giudaiche ci parla della morte di San Giovanni Battista, descrive Gesù come un “uomo saggio”, che aveva numerosi discepoli tra i Giudei e le altre nazioni, che Pilato condannò ad essere crocifisso e a morire, ma del quale i suoi discepoli non smisero di seguire gli insegnamenti, raccontando che era apparso loro vivo tre giorni dopo la sua crocifissione e che forse era il Messia di cui parlavano i profeti. Tutti dati che, pur provenendo da un ambiente esterno alla Chiesa e tante volte ostile nei confronti della Chiesa, confermano indirettamente ciò che i Vangeli asseriscono.

 

10. Se i fatti riportati dai Vangeli fossero stati inventati da una comunità primitiva di discepoli intenta a incrementare la Chiesa di nuovi adepti, non si capirebbe come mai questa avrebbe dovuto creare un Messia così lontano dalle aspettative politiche e religiose ebraiche del suo tempo, così in contrasto con la loro sensibilità (si pensi ad esempio all’invito di Gesù a bere il suo Sangue, al fatto che le prime testimoni della Risurrezione di Gesù erano donne), così in contrasto anche con il loro credo (divinizzare la figura di un uomo era qualcosa di inaudito per un ebreo), dipingendo poi gli Apostoli come uomini pieni di difetti... Lo stesso si dica del mondo pagano, culturalmente ancor più distante dalle massime evangeliche e dal credere a un figlio di Dio, fatto uomo, crocifisso e poi risorto. Si ricordi in proposito la reazione suscitata da san Paolo nell’areopago di Atene: «Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”» (At 17,32). 

Se, dunque, masse di ebrei e di pagani si convertirono alla fede, è perché davvero si trovavano davanti a fatti straordinari e a prove inconfutabili. L’avvento e l’affermarsi del Cristianesimo senza gli eventi narrati nei Vangeli e senza miracoli, sarebbe un miracolo ancora più grande di quelli che gli autori suddetti tentano di negare. Come spiegare il fiorire ovunque di comunità cristiane in mezzo a tanta ostilità e persecuzioni, in un clima culturale affatto avverso, se non si fossero trovate davanti a dei segni evidenti?

 

San Pietro il giorno di Pentecoste prendendo la parola disse: «Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazareth – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete –, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni [...]. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire [...]. Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,22-36).

Ecco ciò che noi crediamo sulla base dei fatti storici riportatici fedelmente dai Vangeli, i quali dimostrano come davvero Gesù di Nazareth è il Figlio di Dio annunciato dai profeti, che per noi si è incarnato, è morto ed è risorto.


 

[1] Ci sono molte altre prove che si possono aggiungere a questi argomenti e che per brevità non tratteremo in questo articolo.

 

[2] San Paolo fonda a Cipro, a Tessalonica, ad Atene, a Efeso, a Corinto (Grecia), in certe zone dell’Asia minore (Panfilia, Pisidia, Galazia, Iconio e Colossi) comunità cristiane che presto diventano fiorenti, dotandosi, sin dal I secolo, di una certa struttura gerarchica. San Pietro fonda comunità a Gerusalemme, a Cesarea, ad Antiochia, a Joppe (Giaffa), in Samaria e a Roma. Altri Apostoli fondano comunità in Egitto, nella Cappadocia, in Armenia e in zone dell’Asia minore (Porto, Frigia, Bitinia).

 

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