RELIGIONE
I travagli e le gioie della fondatrice di Bingen
dal Numero 20 del 22 maggio 2022
di Cristina Siccardi

Le novizie aumentavano e il monastero non era più sufficiente ad accoglierle. Mentre si pensava ad ampliarlo, la volontà di Dio si manifestò diversa: Ildegarda avrebbe dovuto fondare una nuova abbazia a Bingen. Si sa che dove arriva la santità tutto fiorisce, ma come per ogni opera di Dio, è necessario prima passare per il crogiuolo della sofferenza.

Quando nel 1141 iniziò a redigere Scivias, Ildegarda ebbe l’ordine, in una visione, di fondare una nuova abbazia a Rupertsberg, presso Bingen. Le novizie e, dunque, le monache di Disibodenberg, grazie all’abbadessa Ildegarda erano sempre più numerose, erano necessari altri spazi e l’abate benedettino era in dubbio se ampliare l’abbazia oppure erigere un nuovo monastero.

I monaci Goffredo e Teodorico scrissero nella prima biografia dedicata a colei che già definiscono «beata»: «[…] la beata Ildegarde, con umilissima fiducia, con parole che non aveva ricevuto né da un uomo né attraverso un uomo, rivelò e diffuse il profumo della sua santa reputazione, che spandeva la sua soave fragranza molto lontano. Venivano a lei non poche figlie di nobili, per essere condotte sui sentieri della vita monastica sotto l’abito religioso. E poiché un solo monastero poteva difficilmente accoglierle tutte e già si pensava di trasferire ed ampliare la loro dimora, fu lo Spirito ad indicare a Ildegarda il luogo, là dove il fiume Naw confluisce nel Reno, cioè l’altura che prese il nome, fin dai tempi lontani, da san Ruperto confessore» (1). 

In questo sito, nell’VIII secolo, aveva vissuto san Ruperto insieme alla madre, beata Berta, e a san Viberto confessore. Berta era figlia del duca Loreno, principe tedesco, e fu destinata in sposa al principe pagano Robolao al tempo di Carlo Magno (742-814), ricevendo una cospicua dote consistente in vasti territori lungo la regione del Reno.

Tentò di convertire il marito, ma senza successo. Rimasta vedova in giovane età, si ritirò nella sua proprietà di Bingen con il figlio Ruperto di tre anni, il quale crebbe con i principi cristiani della madre e il consiglio del prete Wigberto, suo tutore e direttore spirituale.

Quando Ruperto aveva 12 anni, Berta lo associò alla fondazione di un monastero nei paraggi di Bingen e di un ospizio per i poveri: madre e figlio collaboravano insieme e attivamente nel soccorso ai bisognosi, un sodalizio che purtroppo si interruppe a causa della prematura morte di lui, a soli 21 anni di età, lasciando dietro di sé una grande fama di santità. 

Berta visse in costante preghiera e penitenza, donando i suoi beni e le sue ricchezze per il sostentamento dei monaci del monastero dove era sepolto Ruperto. Sopravvisse al figlio circa 25 anni e venne tumulata accanto alla tomba del figlio, ormai meta di frequenti pellegrinaggi, tanto che l’intero territorio prese il nome di Rupesberg.

Durante le invasioni normanne del X secolo i due sepolcri furono profanati, ma il loro culto si conservò ugualmente. Anche Berta venne subito considerata «beata» e la sua festa si celebra, insieme a san Ruperto, il 15 maggio. La Vita dei due beati fu compilata per onorarne la memoria da santa Ildegarda, la quale apprese le diverse annotazioni biografiche dalle sue visioni mistiche. Tutti dati che in seguito saranno avvallati e avvalorati dalle ricerche storiografiche. 

L’abbadessa, non aveva dubbi, indicò perfettamente al suo abate e ai monaci il luogo dove si sarebbe dovuto trasferire il cenobio delle Benedettine. Tuttavia i Benedettini erano decisamente contrari alla partenza delle monache. Ecco che Ildegarda cadde ammalata: «Perché l’attuazione della volontà di Dio non venisse più ostacolata, Ildegarde, come in precedenza, fu costretta a letto da una lunga malattia, da cui poté rialzarsi solo quando l’abate e tutti gli altri monaci si sentirono pressati dalla volontà divina a dare il loro consenso: e, anziché ostacolare il progetto, [incominciarono a] cooperare, secondo le loro possibilità, alla sua realizzazione» (2). 

L’abate, i monaci e la popolazione della zona appresero la notizia del trasferimento e si opposero nettamente. «Per impedirne la realizzazione, si accordarono di opporre resistenza al nostro progetto. Mi dissero in faccia che mi ero lasciata ingannare da un’allucinazione» (3).

L’abbadessa chiedeva di andarsene da un luogo sereno e fertile per trasferire il monastero in una regione arida e desolata… era incomprensibile. Ma lei sapeva quello che faceva, perché glielo aveva rivelato Dio. Quel luogo, infatti, grazie al suo monastero, grazie quindi all’ora et labora, come era accaduto in molteplici altri luoghi dell’Europa cristiana, divenne terra abbondantemente coltivata, ma anche un grande centro abitato. 

Dalla sua parte aveva le sue suore, ma anche una laica, la madre della monaca Richardis (Riccarda), la quale si prestava, talvolta, al servizio di scrittura, collaborando con l’abbadessa Ildegarda e padre Wolmar. Costei interpellò sua madre, la margravia von Stade, la quale si recò dall’arcivescovo di Magonza, Enrico I (1080 ca.-1153), informandolo insieme ad altri illustri personalità. 

L’Arcivescovo di Magonza accolse benevolmente il nuovo progetto monastico e fu possibile ad Ildegarda acquistare il terreno sulla collina di San Ruperto di proprietà per una parte dei canonici di Magonza e per l’altra, quella della cappella del santo, del conte di Hildesheim. Tuttavia l’abate di Disibodenberg non era ancora convinto fosse la scelta giusta. Trascorsero ancora diversi anni di penosa attesa, causata dai monaci e in particolare dal religioso Arnold, che si accaniva ostinatamente. Si convinse soltanto quando venne colpito personalmente da un malanno, tanto da temere di morire. Allora fece voto: venne trasportato su sua richiesta alla chiesa di San Ruperto e lì promise di non osteggiare più il progetto dell’abbadessa Ildegarda, anzi, di sostenerlo e istantaneamente guarì.

Il monaco Arnold, il cui cuore si era addolcito, si prestò personalmente a sradicare con le sue mani i vitigni che si trovavano nell’area dove sarebbero sorte le mura del monastero delle Benedettine guidate da Ildegarda. Così, sul monte di St. Rupertsberg, nel 1150, ebbero inizio i lavori di bonifica e di edificazione, che terminarono soltanto due anni dopo. Un valido aiuto economico venne da una coppia di coniugi senza figli, i conti palatini Hermann e Gertrude di Stahleck. Il conte era un uomo passionale e impetuoso ed era stato sottoposto ad una pubblica punizione da parte dell’imperatore Barbarossa per un delitto che aveva compiuto a causa degli odi con i principi ecclesiastici confinanti. Ma Ildegarda, con la potenza della sua spiritualità e dei suoi scritti, lo convertì e divenne grande benefattore del suo monastero. Grazie a questo «padre», come lei lo chiamava e che morirà nel 1156, il sacro edificio s’innalzò imponente e fu possibile realizzare il trasferimento delle monache già nel 1150. Gertrude di Stahleck, rimasta vedova, trovò qui rifugio. Quando fu il momento di partire, l’abate andò dall’abbadessa Ildegarda, malata da gran tempo perché il Signore l’aveva allettata in quanto il monastero non prendeva vita secondo i Suoi voleri. Allora, nel nome del Signore, l’abate le ordinò di alzarsi «per andare alla dimora a lei predestinata dal cielo. A quelle parole, Ildegarde si alzò immediatamente, come se per tutto il tempo non fosse stata soggetta ad alcuna infermità, e tutti i presenti furono presi da stupore e ammirazione […]» (4).

Il nuovo monastero era sotto la protezione della Chiesa di Magonza, mentre per la cura spirituale, le Benedettine di Bingen ricorsero ai monaci di Disibodenberg, che si occuparono anche dell’amministrazione dei beni materiali. Le persone si legarono sempre più alle monache di Bingen, tanto che presero a seppellire i loro morti in quel monastero: beneficenza, collaboratori, figli spirituali… andarono moltiplicandosi. Affermò santa Ildegarda: «Come dice il salmista: Verranno da te coloro che ti denigravano (Sal 37). Allora il mio spirito si rianimò ed io, che prima avevo pianto per il dolore, ora piansi di gioia, perché Dio non mi aveva dimenticata […]. Ma tuttavia, il Signore voleva che io perseverassi con fermezza in piena tranquillità, così come aveva fatto fin dalla mia infanzia in tutte le mie vicende, poiché non mi aveva mandato alcuna sicurezza della gioia di questa vita, in modo che la mia mente potesse elevarsi» (5).

Oltre al conte palatino Hermann di Stahleck subentrò l’intervento anche del conte Meginardo di Sponheim, il quale donò ampie proprietà terriere e si adoperò per arredare il monastero; anche la margravia von Stade donò un ampio appezzamento, nei pressi di Bingen; inoltre, l’ingresso della novizia Clementia recò una notevole dote alla nuova fondazione. I fratelli di Ildegarda si aggiunsero all’elenco dei benefattori, donando le loro proprietà di Bermersheim e, di mano in mano, altre doti si aggiunsero.

L’edificio era costruito come una roccaforte, con una chiesa a due torri e tre navate, la quale venne benedetta, con il monastero, da Enrico I di Magonza il 1° maggio 1151 – giorno, come riportano le cronache, degli apostoli Filippo e Giacomo, in onore della Santa Madre di Dio, insieme a san Martino e a san Ruperto – e quello stesso giorno l’arcivescovo presiedette la professione religiosa di alcune suore, denominata «consecratio virginum». Per il sostentamento delle monache l’arcivescovo di Magonza donò un mulino, chiamato Mulenwert, collocato in un’insenatura del Reno. Là, dove arrivava santa Ildegarda, tutto prendeva vita e armonia.   

 

Note

1) Goffredo-Teodorico monaci, Vita di Santa Ildegarde, Libro I, cap. II, n. 6.

2) Ibidem.

3) E. Gronau, Hildegard. La biografia, Editrice Àncora, Milano 19912, p. 270, p. 276.

4) Goffredo-Teodorico monaci, Vita di Santa Ildegarde, Libro I, cap. II, n. 8. 

5) Ivi, Libro II, cap. II, n. 23

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