
Quando il giovane Francesco Forgione entrò nel convento di Morcone nel 1903, aveva nel cuore il bruciante desiderio di intraprendere la vita religiosa. Sapeva che non sarebbe stato facile ma era determinato. Quando poi il 22 gennaio 1904 emise i voti di castità, povertà e obbedienza, diventando Fra Pio da Pietrelcina, aveva la certezza che li avrebbe onorati per sempre. Castità per essere solamente di Dio, povertà per allontanarsi dal mondo e obbedienza per servire la Chiesa e tenerla sempre davanti a sé come un faro.
Francesco però non era un ragazzo come gli altri. Fin da bambino aveva esperienze mistiche straordinarie e perciò vedeva la realtà in modo molto più chiaro e profondo. Conosceva, perché lo aveva prodigiosamente sperimentato durante i suoi colloqui con Gesù, la Madonna e i Santi, la differenza tra la Chiesa celeste e quella terrena, tra quella composta dai Santi e dai Beati del Paradiso in unione perfetta con Dio, e quella invece formata dai fedeli, costituita dagli uomini. Alla prima, si inchinò per tutta la sua vita. Alla seconda, soprattutto all’istituzione ecclesiastica con le gerarchie, le regole e le leggi, obbedì sempre per ciò che essa rappresentava: un’emanazione di Dio.
La missione della sua vita fu la salvezza delle anime. Disse una volta ai figli spirituali: «Il Padre celeste mi ha affidato le anime vostre. Siate grati a quella infinità bontà. Ho la santa ambizione di presentarvi belli al suo cuore paterno...». Questa missione, lui la interpretava come un servizio alla Chiesa universale. Le sue confessioni interminabili, la Messa vissuta con intensa partecipazione, le ore di preghiera e i sacrifici personali avevano il solo scopo di portare le anime a Cristo, attraverso il cuore della Chiesa.
Spesso si sente dire che la Chiesa non trattò bene padre Pio. Questo è vero, anche se bisogna precisare che soltanto “alcuni” uomini di Chiesa gli riservarono tale trattamento. Ma fu una vera persecuzione. A padre Pio vennero inflitte tremende umiliazioni, venne accusato di essere un imbroglione, un falso, un immorale. Gli venne poi proibito di celebrare la Messa in pubblico, di scrivere al suo confessore o agli amici, di piangere durante la preghiera. Di fronte a simili ingiustizie, i suoi figli spirituali si indignavano e bruciavano di rabbia, ma il Padre li ammoniva, a volte severamente, dicendo loro di accettare, inchinarsi di fronte alle decisioni della Chiesa e quindi di pregare per chi lo accusava falsamente. Mai ebbe una sola parola di “stizza” e mai mise in discussione le disposizioni ecclesiastiche nei suoi confronti, per dolorose che fossero.
Un esempio su tutti, ciò che accadde nel maggio del 1923. Il Sant’Uffizio, massimo tribunale della Chiesa, basandosi su calunnie e falsità, emanò il primo decreto contro padre Pio. Una sentenza che diceva: «La suprema congregazione del Sant’Uffizio, preposta alla fede e alla difesa dei costumi, dopo una inchiesta sui fatti attribuiti a padre Pio da Pietrelcina dei frati minori Cappuccini del convento di San Giovanni Rotondo nella diocesi di Foggia, dichiara non constare, da tale inchiesta, della soprannaturalità dei fatti, ed esorta i fedeli a uniformarsi nel loro modo di agire a questa dichiarazione». Un documento spietato con il quale la Chiesa giudicava le stimmate affermando che non avevano niente a che vedere con le piaghe di Gesù, e che quindi padre Pio era un pazzo oppure un imbroglione. Il decreto venne pubblicato su L’Osservatore Romano in data 5 luglio 1923 e ripreso dai giornali di tutto il mondo. Il Padre superiore del convento di San Giovanni Rotondo non aveva però il coraggio di informare padre Pio di questo decreto e nascose il giornale che lo aveva pubblicato. Ma qualche giorno dopo arrivò il fascicolo Analecta Capuccinorum, che riportava il testo del decreto in latino. Il fascicolo fu posto sul tavolo della sala dove i religiosi si radunavano per la ricreazione e lì lo trovò anche padre Pio. Lo aprì e lo lesse. Niente tradì la sua emozione. Più tardi, accompagnato nella sua cella, scoppiò in lacrime. Eppure non disse niente contro la condanna formulata. Avrebbe potuto, se non arrabbiarsi, almeno gridare la sua innocenza. Se ne stette invece zitto, chinò la testa. Poco tempo dopo arrivò dal Vaticano l’ordine di trasferire padre Pio ad Ancona, cosa che poi non venne messa in pratica. Quando il Superiore lo informò, il Padre rispose: «Partiamo subito. Quando sono con il superiore, sono con Dio!». E in un’altra occasione, aggiunse: «Se i miei superiori mi ordinano di buttarmi dalla finestra, io non discuto, eseguo».
Stoicismo? Estremo autocontrollo? Niente di tutto questo. Padre Pio era un uomo saldo, tutto d’un pezzo, ma la sua non era la cieca perseveranza del soldato. Lo spiegò bene in quei giorni scrivendo: «Credo che non ci sia da dire quanto io, grazie a Dio, sia disposto a obbedire a qualunque ordine mi venga notificato dai miei superiori. La voce loro per me è quella di Dio, cui voglio serbar fede fino alla morte». Ecco, è tutto in queste righe.
Padre Pio non prestò mai alla Chiesa una servile obbedienza perché voleva dimostrare di saper mantenere la parola data. Sarebbe stato dimostrare orgoglio. Lui obbedì sempre perché innamorato. La sua intera vita fu una continua dichiarazione d’amore perché per lui la Chiesa era “madre”. La Chiesa proteggeva, custodiva, accudiva, nutriva i suoi figli proprio perché emanazione della tenerezza genitoriale di Dio. Un messaggio che padre Pio voleva che tutti i fedeli apprendessero. Amò la Chiesa come si ama una madre, pur conoscendo le sue fragilità umane. Diceva ai figli spirituali: «Ama la Chiesa, prega per la Chiesa, soffri per la Chiesa», sottolineando il suo amore profondo e incondizionato. Non un amore astratto o retorico, ma concreto, vissuto con totale dedizione, sofferenza e, abbiamo visto, obbedienza.
Nelle sue lettere si trovano spesso esempi di questo affetto: «La nostra tenerissima madre la santa Chiesa cattolica», «la nostra diletta madre la Chiesa», «per l’esaltazione e pel trionfo della nostra santa madre, la Chiesa». Fino a sfociare in una poesia meravigliosa quando, il 27 gennaio 1918, così scrisse alla figlia spirituale Filomena Ventrella: «Ti raccomando, o figliuola, quello della Chiesa sua sposa, di questa cara e dolce colomba, la quale solo può fare le uova, e far nascere i colombini e le colombine allo Sposo».
di Roberto Allegri