RELIGIONE
Penitenza come metafora della vita
dal Numero 11 del 19 marzo 2017
di Antonio Farina

Al giorno d’oggi il termine “penitenza” si presta a diversi significati, è bene dunque comprenderlo nel suo senso propriamente cattolico, in quanto virtù e in quanto Sacramento, con le sue parti costitutive e i suoi benefici effetti.

Se si consulta un buon vocabolario della lingua italiana, al termine “penitenza” viene fornita la seguente definizione: «Penitenza [dal latino: paenitentia (o poenitentia), derivato di paenitere “pentirsi”]. Pentimento, senso di rincrescimento per un errore fatto (o per una serie di errori), per una decisione presa, per un comportamento assunto o una condotta seguita, o, anche, rimorso per un male commesso, per un’offesa o un danno arrecati» (1). Consultando invece un pessimo vocabolario della lingua italiana si legge tra l’altro: «Castigo, punizione, spec. riservata ai bambini: oggi, per p., resterai senza gelato; lo mandò a fare p. in un angolo della classe. || In alcuni giochi infantili o di società, punizione stravagante o ridicola che viene imposta al giocatore che ha sbagliato» (2).
Questo significa che della penitenza non abbiamo capito proprio nulla. Dell’ambiguità del termine, così come poi viene inteso nel linguaggio corrente, se n’erano accorti già i Padri conciliari del Concilio di Trento, al punto tale che sentirono la necessità di sgombrare il campo dagli equivoci semantici (3):
«240. Vari significati del termine “Penitenza”. Per entrare subito in materia, spieghiamo anzitutto il valore e il significato del termine “penitenza”, per evitare che alcuno sia indotto in errore dall’ambiguità del vocabolo. Taluni intendono penitenza come soddisfazione; altri, ben lontani dalla dottrina cattolica, la definiscono una nuova vita, ritenendo che non abbia alcuna relazione con il passato. Bisogna dunque chiarire i significati di questo vocabolo [...].
241. La penitenza in quanto virtù. Trattiamo prima di tutto della penitenza in quanto è una virtù, non solo perché il popolo deve essere dai suoi pastori istruito intorno a ogni genere di virtù, ma anche perché gli atti di questa virtù offrono la materia riguardante il sacramento della Penitenza [...]. La penitenza interna è quella per la quale noi con tutto l’animo ci convertiamo a Dio e detestiamo profondamente i peccati commessi, proponendo insieme fermamente di emendare le nostre cattive abitudini e i costumi corrotti, fiduciosi di conseguire il perdono dalla misericordia di Dio. Si associa a questa penitenza, come compagna della detestazione del peccato, una dolorosa tristezza che è una vera affezione emotiva dell’animo e da molti viene chiamata “passione”. Perciò parecchi santi Padri definiscono la penitenza partendo da un così fatto tormento dell’anima [...]. Il che è evidentemente un atto di giustizia [...].
243. La Penitenza come sacramento. Circa la penitenza esteriore si deve insegnare che essa costituisce propriamente un sacramento e consiste in talune azioni esterne e sensibili, che esprimono quello che avviene nell’interno dell’anima [...]. Che la Penitenza sia un vero sacramento i parroci lo dimostreranno facilmente così: come è un sacramento il Battesimo, perché cancella tutti i peccati e specialmente quello originale, così lo è pure in senso pieno la Penitenza, che toglie tutti i peccati commessi con il desiderio o con l’opera, dopo il Battesimo. Di più (e questo è l’argomento principale), siccome gli atti esterni del penitente e del sacerdote indicano quel che avviene nell’interno dell’anima, chi vorrà negare che la Penitenza abbia vera e propria natura di sacramento? [...]. “Darò a te le chiavi del regno dei cieli; qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli” (Mt 16,19) [...]. Della Penitenza sono “quasi materia” gli atti del penitente, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione, com’è stato dichiarato dal Concilio di Trento (sess. 14, cap. 3 De Paenit., can. 4). La forma è: “Io ti assolvo”.
246. Effetti della Penitenza. Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a Lui in grande amicizia. Ne segue, massime negli uomini pii che la ricevono con santa devozione, una ineffabile pace e tranquillità di coscienza, accompagnate da viva gioia spirituale. Infatti non c’è colpa per quanto grave ed empia, che non si cancelli grazie alla Penitenza; e non una sola volta, ma molte e molte volte. A questo proposito così parla il Signore per bocca di Ezechiele: “Se l’empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, osserverà i miei precetti e praticherà il giudizio e la giustizia, vivrà e non morrà, né io mi ricorderò delle iniquità da lui commesse” (Ez 18,21). E san Giovanni: “Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedele e giusto e ce li perdonerà” (1Gv 1,9). E poco più oltre: “Se taluno avrà peccato [si noti che non eccettua nessun genere di peccato] abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto, il quale è propiziazione per i nostri peccati; né solamente per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,1.2).
247. Le parti costitutive della Penitenza. Ora, questo sacramento, oltre alla materia e alla forma, che ha in comune con gli altri sacramenti, contiene, come abbiamo già detto, tre elementi necessari a renderlo integro e perfetto: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo: “La penitenza induce il peccatore a sopportare tutto volentieri: nel suo cuore è la contrizione, sulla bocca la confessione, nelle opere grande umiltà, ossia la salutare soddisfazione”. Ora queste parti sono indispensabili alla costituzione di un tutto [...]. Ecco come definiscono la contrizione i Padri del Concilio di Trento: “La contrizione è un dolore dell’animo e una detestazione del peccato commesso, con il proposito di non più peccare per l’avvenire” (sess. 14, cap. 4) [...]. Questa definizione fa ben comprendere ai fedeli che l’essenza della contrizione non consiste solo nel trattenersi dal peccare, nel risolvere di mutar vita, o nell’iniziare di fatto una vita nuova, ma anche e soprattutto nel detestare ed espiare le colpe della vita passata [...]. Il dolore d’aver offeso Dio con i peccati deve essere veramente sommo e massimo, tale che non se ne possa pensare uno maggiore [...]. Passiamo alla confessione o accusa, che costituisce la seconda parte della Penitenza. Nessuno si meraviglierà se il nemico del genere umano, che vorrebbe distruggere dalle fondamenta la Fede cattolica, si stia sforzando a tutta possa, per mezzo dei suoi satelliti e ministri della sua empietà, di abbattere questa rocca della virtù cristiana. La confessione si definisce così: è un’accusa dei peccati, nel sacramento della Penitenza, fatta per riceverne il perdono, in virtù delle chiavi. Anzitutto e a ragione è detta accusa; perché noi non dobbiamo confessare i peccati quasi con ostentazione, come fanno coloro che si compiacciono di operare il male (cf. Prv 2,14), ovvero come una narrazione, quasi volessimo trattenerci con una persona oziosa che non avesse altro da fare, ma enumerarli con l’intenzione di confessarci colpevoli e con il desiderio di punirli in noi stessi. Noi confessiamo i peccati per ottenerne il perdono; perché il tribunale della Penitenza è diverso dai tribunali umani. Nessuno osi pensare che la confessione sia stata istituita dal Signore in modo che la pratica non ne sia necessaria [...]. Anzitutto i parroci dovranno insegnare che la confessione deve essere integra e assoluta, dovendosi manifestare al sacerdote tutti i peccati mortali. I peccati veniali invece, che non tolgono la grazia di Dio e in cui cadiamo più di frequente, sebbene si possano opportunamente e utilmente confessare, come dimostra la consuetudine dei buoni cristiani, possono però tralasciarsi senza colpa ed espiarsi in molte altre maniere. Ma, ripetiamo, i peccati mortali devono essere tutti e singoli enunciati, anche i più segreti, come quelli che violano solamente i due ultimi comandamenti del Decalogo [...]. La confessione deve essere schietta, semplice, aperta, non artificiosamente concepita come sogliono fare tanti che sembrano fare più la storia della loro vita, che confessare i peccati [...].
259. Definizione e proprietà della soddisfazione [...]. La soddisfazione è l’integrale pagamento di ciò che è dovuto, poiché è soddisfacente ciò a cui nulla manca [...]. Tale soddisfazione, che ci rese Dio placato e propizio, fu offerta unicamente da Gesù Cristo, che sulla croce scontò l’intero debito dei nostri peccati. Nessuna creatura avrebbe potuto sgravarci di così pesante onere; per questo Egli, secondo la parola di san Giovanni, si diede pegno di propiziazione per le colpe nostre e per quelle di tutto il mondo (cf. 1Gv 2,2). Questa è dunque la piena e globale soddisfazione, perfettamente adeguata al debito contratto con il cumulo di cattive azioni commesse in tutta la storia del mondo. Il suo valore riabilita gli atti umani al cospetto di Dio; senza di esso, questi apparirebbero destituiti di qualsiasi pregio [...]. Un secondo genere di soddisfazione è detto canonico e si compie in un determinato periodo di tempo. È antichissima consuetudine ecclesiastica che, al momento dell’assoluzione, sia assegnata ai penitenti una penitenza determinata, il cui soddisfacimento è appunto chiamato soddisfazione. Con il medesimo nome è pure indicato ogni genere di penalità, che spontaneamente e deliberatamente affrontiamo a sconto dei nostri peccati, anche senza l’imposizione del sacerdote. Quest’ultima soddisfazione non spetta alla natura del sacramento, di cui invece fa parte quella imposta per i peccati dal sacerdote di Dio, con unito il fermo proposito di evitare in avvenire ogni peccato. Perciò alcuni proposero questa definizione: “Soddisfare significa tributare a Dio l’onore dovuto”. Ma è evidente che nessuno può tributare a Dio l’onore dovutogli, se non si proponga di evitare assolutamente ogni colpa. Quindi soddisfare è anche un recidere le cause dei peccati, non lasciare varco alla loro suggestione.
260. Necessità della soddisfazione. Si deve [...] insegnare che dal peccato scaturiscono due conseguenze: la “macchia” e la “pena”. Poiché perdonata la colpa, risparmiato il supplizio della morte eterna nell’inferno, non sempre accade, secondo la definizione del Tridentino, che il Signore condoni i residui dei peccati e la pena temporanea loro dovuta. [...].
262. Azioni soddisfattorie. I parroci insegneranno che le opere capaci di valore soddisfattorio possono ridursi a tre categorie: orazioni, digiuni, elemosine, in corrispondenza al triplice ordine di beni, spirituali, corporali ed esteriori, che abbiamo ricevuto da Dio. Si trovano qui i mezzi più atti ed efficaci a recidere le radici del peccato. Poiché infatti il mondo è impastato di cupidigia carnale, di cupidigia degli occhi, di superbia della vita, è chiaro che a queste tre cause di male vanno contrapposte tre medicine: il digiuno, l’elemosina, la preghiera. Tale classificazione appare ragionevole anche se si considerano le persone offese dai nostri peccati, che sono Dio, il prossimo, noi stessi. Ora noi plachiamo Dio con la preghiera; diamo soddisfazione al prossimo con l’elemosina; dominiamo noi stessi con il digiuno...».
Questa è l’ammirevole sintesi tratta dal Catechismo del Concilio di Trento (detto anche Catechismo tridentino o Catechismo romano) che è un catechismo rivolto ai Sacerdoti (ad parochos) (4). Nel tempo della Quaresima tali considerazioni acquistano una dimensione ancor più profonda e suggestiva. A ben guardare la dimensione penitenziale non è solo prerogativa e caratteristica del periodo quaresimale ma è qualcosa di insito, di connaturato, di innato, possiamo dire, nella stessa natura umana all’indomani del peccato originale. Dopo la grande defezione che ci costò la cacciata dal Giardino di Eden quali furono le parole solenni di Dio? «Alla donna disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”» (Gen 3,16ss).
Dunque all’alba dell’Umanità la penitenza, il sacrificio, la contrizione e la sofferenza espiatoria furono impressi come un sigillo spirituale imperituro che ci accompagna tuttora. Nella culla del genere umano fu posta, nutrice dal latte amaro, una Quaresima che non avrà mai fine. Al pari della fronte di Caino la nostra anima è segnata dal marchio del dolore e della morte. Solo con l’avvento di Nostro Signore Gesù Cristo che per quaranta giorni seguiamo nel deserto, impariamo il valore salvifico della penitenza. Il digiuno, la preghiera, l’adorazione, l’offerta, l’immolazione, la riparazione – dice il Concilio tridentino – che sono evidentemente un atto di giustizia. E ne abbiamo ben onde perché siamo tutti peccatori e al peccato di Adamo abbiamo aggiunto e sovrapposto i nostri peccati, le nostre mancanze, le nostre defezioni. La Penitenza alla sequela di Cristo ci prepara alla battaglia col tentatore: nel deserto si incontrano – ma sarebbe meglio dire si scontrano – l’Autore della Vita e il fautore della Morte. Nel deserto non cresce niente, non ci sono piante, non ci sono fiori, né acqua e neanche frutti gustosi, ci sono solo animali mortiferi, serpenti, scorpioni, ragni: è l’opposto di Eden. È la metafora della vita.
L’inoltrarci immaginario tra le rocce riarse dal sole e frantumate dal gelo notturno ci pone di fronte alla presenza nauseante, repellente, indesiderata, scandalosa perfino del male fatto persona. È come la discesa in un sepolcro: qualcosa di vivente si scontra con qualcosa di non vivente. Ci rammenta la Barbarie di Massenzio, tiranno di Roma, che faceva legare un morto e un vivo unendoli saldamente insieme corpo a corpo, bocca a bocca, occhi a occhi e li lasciava così stretti finché il morto col fetore e il fradiciume della decomposizione non avesse fatto morire il vivo... questa è la terribile, raccapricciante, ripugnante, agghiacciante condizione dell’anima umana a contatto col peccato. Solo la Grazia ci scioglie da quest’amplesso mortale. E la Grazia si ottiene solo con la penitenza.  

Note
1) Vocabolario on-line: www.treccani.it.
2) Dizionario di Republica.it.
3) Catechismo del Concilio di Trento, Parte II, La Penitenza.

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