PASQUA
Il protagonista della Pasqua: il cero pasquale
dal Numero 16 del 21 aprile 2019
di Carlo Codega

Solennemente acceso durante la Veglia, il cero pasquale è il simbolo per eccellenza di questo tempo liturgico. In esso i cristiani scorgono la presenza di Cristo risorto, vera luce del mondo, che squarcia le tenebre della morte e del peccato.

Dalla Veglia lungo l’intero periodo pasquale, in tutte le chiese cattoliche un poderoso cero svetta sull’altare nei pressi del luogo ove si proclama il Vangelo. Il cero pasquale è un muto protagonista di tutta la liturgia pasquale ma, nel suo silenzio, ha molto da insegnare a tutti i fedeli cristiani, offrendo materia di istruzione e contemplazione. Cerchiamo di percorrere brevemente il significato e l’uso di questo particolare oggetto liturgico, affinché, vedendolo sui nostri altari, possiamo sempre scorgere dietro le sue fattezze la presenza di Cristo Risorto.


PERCHÉ UN CERO?

Il cero pasquale ha una grandissima importanza nella liturgia, basti pensare che la sua presenza in tutto il periodo di Pasqua nei pressi del luogo ove si declama il Vangelo fa sì che in tutto questo periodo i chierichetti non portino le candele nella processione al Vangelo, che di solito segnalano la presenza di Cristo nella Sacra Scrittura. Ancor più esso è il vero protagonista di tutta la prima parte dell’emozionante Veglia Pasquale, con la benedizione del fuoco e la processione del Lumen Christi, in cui i fedeli sono chiamati ad adorare la luce nuova che rompe le tenebre della morte. Anzi va detto che l’intero preconio pasquale, il poetico Exsultet cantato dal diacono la notte di Pasqua, non è altro che una lunga e vibrante lode a questo benedetto cero che viene a illuminare la chiesa buia, in quanto ancora in lutto per la morte del suo Redentore.
Tuttavia non va dimenticato – come la storia della Liturgia ci insegna – che la presenza di un cero e della benedizione dei lumi non era nei primi secoli una prerogativa della Veglia Pasquale, in quanto tutte le celebrazioni vigiliari che si svolgevano tra il sabato e la domenica di ogni settimana prevedevano questo rito – derivato a sua volta dal lucernario del culto della sinagoga – benché senza un cero di tali dimensioni. Nei primi secoli infatti la Messa domenicale era preparata con tale attenzione da tutti i cristiani che si riunivano sin dalla sera del sabato per passare la notte in preghiera, tra canti, letture e spiegazioni della Parola di Dio. Le veglie sono poi scomparse dalla Liturgia cattolica, ma è rimasta la madre e il centro di tutte le veglie, la Veglia Pasquale. Ogni celebrazione vigiliare comportava comunque la benedizione e l’accensione di un cero, il quale aveva al contempo una funzione pratica – permettere ai lettori di leggere e assicurare ai fedeli una minima illuminazione della Chiesa – che simbolica: la luce dei ceri indica la fede dei cristiani che brilla nella notte del mondo e che, intrepida, rimane accesa nonostante il buio la avvolga, in attesa del giorno del Signore (dies dominicus) e della sua presenza sugli altari nell’Ostia consacrata. La luce proviene poi dalla tremolante fiammella di un cero, rappresentando così anche la preghiera che sale verso l’alto – verso Dio – come la fiammella, e che consuma al contempo la cera, simbolo dell’uomo che si consuma nel servizio di Dio. Se però nelle altre veglie il cero aveva questo significato e funzione, presto nella Veglia Pasquale assunse un ruolo ben diverso, segnalato anche dalla crescita della sua dimensione. Almeno dal IV secolo infatti il cero assume una funzione centrale nella liturgia del Battesimo dei catecumeni che avveniva nella notte santa della Pasqua e, da qui, anche un’importanza ben maggiore per l’intera Veglia.


LA COLONNA CHE GUIDA GLI EBREI

Dobbiamo a questo punto stare un po’ attenti, perché le due riforme che la liturgia della Settimana Santa ha subito durante il XX secolo (nel 1955 e nel 1969), modificando anche le secolari cerimonie del cero pasquale, rischiano un po’ di confonderci. Tuttavia nonostante i vari aspetti modificati, il significato generale del cero pasquale rimane invariato.
Prima di tutto partiamo però dalle dimensioni e dalla sua posizione. Il cero pasquale non è una semplice candela ma deve essere un cero di grande dimensioni, posto sull’altare in una posizione sopraelevata. Perché? Il primo significato del cero lo possiamo scorgere dal significato della pasqua ebraica. Sappiamo infatti che per gli ebrei la solennità di Pesach – letteralmente “passaggio” – ricordava la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù egiziana: il “passaggio” era dunque quello dell’angelo sterminatore tra le case egiziane, lasciando indenni quelle ebraiche segnate con il sangue dell’agnello, e quello miracoloso del Mar Rosso da parte del popolo ebreo guidato da Mosè, mentre fuggiva dall’esercito del faraone. In questa fuga e nel successivo lungo ed estenuante viaggio nel deserto il popolo di Israele veniva guidato da una nube di giorno e da una colonna di fuoco di notte, che indicava la strada e al contempo l’illuminava. Eccoci così giunti al primo significato del nostro cero: il cero pasquale, spesso e alto, e posto in luogo elevato sopra l’altare quando viene acceso è proprio come la colonna di fuoco che indica ai fedeli la via da seguire per giungere alla salvezza. Non a caso l’Exsultet canta: «Questa è la notte in cui hai liberato i figli di Israele, nostri padri, dalla schiavitù dell’Egitto, e li hai fatti passare illesi attraverso il Mar Rosso. Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato con lo splendore della colonna di fuoco».
La riforma liturgica del 1955 ha probabilmente voluto enfatizzare questo significato dato che – a differenza di prima, quando si usava un bastone con tre candele accese (detto arundine) – ha voluto che lo stesso cero pasquale fosse portato in processione acceso dal fondo della Chiesa nel cosiddetto rito del Lumen Christi, ovvero nella processione con la luce nuova che apre la Veglia Pasquale. In tal modo i fedeli sono invitati a seguire dal fondo della Chiesa all’altare la processione della luce nuova che viene proprio, come dalla biblica colonna di fuoco, dal cero pasquale.


LA CERA

Ricordavamo che è importante tenere presente che il cero pasquale non è una semplice lampada o qualsiasi altra sorgente luminosa, ma deve essere un cero e, possibilmente, di cera d’api. Tra tutti gli animali con cui il Creatore ha adornato il mondo, uno solo infatti è stato ritenuto degno di entrare nella liturgia pasquale: l’ape. La menzione sobria che se ne fa nel preconio pasquale («frutto del lavoro delle api») non ci deve far dimenticare che in alcune versioni precedenti dell’Exsultet – in uso nella liturgia gallicana – ci si profondeva, in un tessuto di citazioni scritturali e letterarie (persino da Virgilio) nella lode dell’ape. In forza dell’interpretazione simbolica del creato tanto cara ai medievali, l’ape infatti è degna per due motivi di entrare nella liturgia pasquale: innanzitutto essa è vista come simbolo della Risurrezione, in secondo luogo essa era ritenuta dai medievali un animale vergine, che procreava senza copula. Sul primo punto conta molto l’influenza delle Georgiche di Virgilio, dove si racconta, nell’episodio di Aristea, che delle api nacquero dal cadavere di un toro sacrificato. Questa citazione erudita viene però mediata attraverso la stessa Sacra Scrittura: nel libro dei Giudici è infatti noto l’episodio di Sansone (Gdc 14) che, dopo aver ucciso un leone, trovò nel suo cadavere delle api che avevano prodotto del miele. Il miele e la cera sono prodotti delle api, ma nella Sacra Scrittura il miele designa i tempi messianici, i tempi della venuta del Messia nel quale scorreranno latte (o burro) e miele (cf. Es 33,3; Is 7,22). L’ape è dunque simbolo di Risurrezione e di una vita nuova che sconfigge la morte, dando inizio all’epoca messianica e ai suoi immensi doni di grazia, simboleggiati dalla dolcezza del miele e dal grasso del latte (cioè dal burro o dalla panna).
Sul cero pasquale influisce però ancor di più il secondo aspetto, che ci permette di addentrarci meglio nel significato simbolico del cero. L’ape è considerata animale vergine: i medievali rimanevano infatti sbalorditi di fronte alla gerarchia invertita dell’organizzazione delle api, nella quale è una regina a sovrastare tutte le altre per grandezza, e dalla strana modalità di riproduzione, che sembrava quasi del tutto asessuata. Per questo all’ape regina venne spontaneamente accostata la stessa Beata Vergine Maria, che, in quanto Regina del genere umano, sovrasta ogni uomo e concepisce verginalmente Gesù. Se l’ape regina è la Madonna però, il suo prodotto, la cera, è Gesù stesso: la morbida materia del cero pasquale ci ricorda dunque il Verbo Incarnato nella sua natura umana, anzi nella sua carne stessa, che è pronto a sacrificare a Dio stesso per la salvezza degli uomini. Nella cera che lentamente si scioglie nel periodo pasquale possiamo dunque scorgere il sacrificio di Gesù stesso, un sacrificio che permette alla luce della fede e della vita di brillare tra gli uomini, così come la vibrante fiammella viene alimentata dal “sacrificio” della cera.


LE SACRE PIAGHE

Se il cero nel suo aspetto materiale designa appunto la natura umana o, meglio ancora, il corpo stesso del nostro amabilissimo Redentore, è anche meglio comprensibile un gesto liturgico che ha spesso attirato l’attenzione e le critiche degli studiosi di Liturgia. Parliamo dell’incisione del cero in cinque punti, in modo che si appongano ad esso cinque grani di incenso, a forma di croce. Per quanto tale rito non sia stato abolito, si è ritenuto che nascesse da un equivoco: i medievali, leggendo i testi liturgici antichi, avrebbero preso la parola “incenso” nel significato che gli diamo oggi, quando invece si riferiva a un’altra candela “accesa” (detta con un participio “incenso”) con cui benedire a forma di croce il cero pasquale. Comunque sia sembrerebbe strano che i medievali non avessero compreso tale sottigliezza e forse, piuttosto, bisogna pensare che abbiano adattato dei testi antichi ad un rito che si era imposto – come era tipico della mentalità medievale – e che aveva già autonomamente un significato simbolico. Proviamo a trovare questo significato.
Innanzitutto va detto che se consideriamo che il cero è il corpo di Cristo generato dalla nostra “Ape Vergine”, Maria Santissima, allora l’idea di praticare cinque fenditure in questo ha sicuramente a che vedere con la sua Passione. Ciò è poi confermato dal fatto che siano disposte a forma di croce, imprimendo così sulla cera il ricordo dello strumento della Passione su cui fu inchiodato il Salvatore del mondo. Sappiamo infatti che le ferite alle mani e ai piedi, unite a quelle del costato, costituirono cinque dolorosissime piaghe per il Crocifisso. Come le cinque croci che vengono apposte sulla mensa dell’altare, così queste cinque fenditure che penetrano la massa morbida e levigata del cero rimandano dunque alle cinque piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo. Non a caso spesso si può vedere – anche se oggi è raro – come i cinque grani di incenso non siano apposti nel cero allo stato grezzo, ma siano lavorati in modo da formare per quello centrale una sorta di punta di lancia, e per quelli laterali dei chiodi. Oggi piuttosto i grani dell’incenso – sostituiti perlopiù da oggetti di plastica – hanno una forma di “pigna” che in qualche modo vuole ricordare i grani di incenso allo stato grezzo. Dobbiamo infatti domandarci perché proprio dell’incenso viene usato per questo rito. Un primo motivo – più evidente – ricondurrebbe agli unguenti che le pie donne sparsero sul corpo di Gesù nel sepolcro. Si deve però ricordare anche che l’incenso simboleggia la preghiera e ricorda che il Sacrificio redentore di Cristo, con le cinque piaghe che hanno vulnerato il suo corpo verginale, è stato l’atto di culto più grande di tutta la storia, in quanto è stata l’offerta fatta da Dio (Gesù Cristo) di se stesso (in quanto uomo, cioè nel suo corpo) a Dio Padre stesso. «Si diriga la mia preghiera – dice il salmo 141 – come incenso al tuo cospetto». Le cinque piaghe di Cristo non sono pertanto ferite putrescenti ma ferite da cui emana l’odore e il balsamo soave della preghiera. Come quando si incide una pianta resinosa immediatamente ne fuoriesce una secrezione di odore intenso e soave, così dalle ferite di Cristo non uscì l’olezzo ripugnante del pus ma quello soave della preghiera e dell’adorazione, cosicché ogni forma di preghiera da lì in poi avrebbe partecipato di quel «bonus odor Christi» (2Cor 2,15).


LUCE DI CRISTO RISORTO

Finora abbiamo un po’ girato intorno al cero valutandone il simbolismo relativamente alla forma, alla materia di cui è composto e ai segni che gli vengono apposti, ma ora dobbiamo veramente considerarlo in quanto cero, atto a illuminare le tenebre. Dicevamo che in questa funzione il cero non sembra andare oltre alle candele, dato che nel lucernario di tutte le funzioni vespertine e di quelle vigiliari era consueta la benedizione del fuoco, l’accensione del lume e l’ingresso nella chiesa completamente al buio. Tuttavia la Vigilia Pasquale gradualmente andò differenziandosi e aggiungendo particolari per sottolinearne l’importanza: le candele che negli altri lucernari venivano portate in processione, in questa servono soprattutto per accendere il cero pasquale; la processione d’ingresso della luce nuova assunse una certa solennità; l’accensione del cero è accompagnata dal canto dell’Exsultet, in cui lo stile poetico serve a spiegare ai fedeli il senso del rito; il cero acceso poi entra a far parte della liturgia battesimale, che nell’antichità era peculiare proprio della Veglia Pasquale.
Soprattutto però il lucernario della Veglia Pasquale assume un riferimento a Cristo molto più marcato che nelle altre veglie: è vero che sempre la luce è simbolo di Cristo ma qui l’intera cerimonia serve a significare il passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, da Cristo paziente e morto a Cristo risorto. È chiaramente Cristo questa luce che viene a rischiarare le nostre chiese, che per tre giorni sono state avvolte dalle tenebre del lutto, per la mancanza dello Sposo divino. Al di là dei vari cambiamenti che ci sono stati nel rito, l’accensione del cero pasquale rappresenta così la Risurrezione di Cristo: il cero, corpo martoriato e defunto di Gesù con le sue cinque piaghe, viene acceso con la luce nuova, significando la vita nuova del Cristo risorto e glorioso che, a sua volta comunica a tutti gli altri la sua luce, cioè la vita nuova della grazia. Non a caso la pellegrina Egeria racconta come nel IV secolo a Gerusalemme la luce nuova venisse presa da una lampada sempre ardente all’interno dell’Anastasis del Santo Sepolcro. Dom Guéranger anzi racconta come a partire dalla prima conquista musulmana di Gerusalemme e lungo tutto il periodo crociato, nella basilica del Santo Sepolcro si verificasse un miracolo ampiamente testimoniato: ogni anno davanti ai fedeli e al clero improvvisamente, nella notte del Sabato Santo, una lampada dell’Anastasis si accendeva da sola e da qui si prendeva la luce nuova per la funzione vigiliare.


LUCE CHE RISCHIARA LE TENEBRE

Vediamo però un po’ più in dettaglio questi aspetti del rito. La luce nuova viene dal fuoco nuovo che, secondo gli antichi usi, deve essere acceso a partire dalla pietra e non da altre fonti, chiaro riferimento a Cristo “pietra angolare”, attraverso il quale Dio «ha portato ai fedeli il fuoco del suo splendore». È soprattutto poi nel rito del Lumen Christi che emerge prepotentemente questo contrasto tra tenebre del peccato e della morte e luce di Cristo: mentre la Chiesa è tutta al buio, il diacono entra vestito di bianco con la luce nuova in mano, invocando per tre volte – all’inizio, a metà della Chiesa, e nei pressi del presbiterio – la “luce di Cristo”, al quale i fedeli rispondono con «Deo gratias». Prima della riforma liturgica, mentre tutti gli altri ministri vestivano ancora del colore violaceo del lutto, solo il diacono era a questo punto vestito di bianco. Al diacono infatti spettava portare la luce nuova e dare il primo annuncio della Risurrezione, quasi come una Maddalena di fronte agli Apostoli.
Questo annuncio del Cristo Risorto nel preconio pasquale è soprattutto una celebrazione di Cristo, luce nuova venuta a rischiarare le tenebre del peccato: davanti all’evento della Risurrezione, che non si è ancora realizzato, la stessa notte diviene un evento di grazia, così come la colpa può essere detta “felice” perché ha permesso la Redenzione. Canta il diacono infatti: «O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi. Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno, e sarà fonte di luce per la mia delizia. Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. [...]. Ti preghiamo, dunque, Signore, che questo cero, offerto in onore del tuo nome per illuminare l’oscurità di questa notte, risplenda di luce che mai si spegne. Lo trovi acceso la stella del mattino, questa stella che non conosce tramonto: Cristo, tuo Figlio, che risuscitato dai morti fa risplendere sugli uomini la sua luce serena».
Così dal cero pasquale e dalla sua luce nuova viene attinta la luce per accendere anche le candele dell’altare e tutte le altre lampade della Chiesa, in quanto tale luce «pur divisa in tante fiammelle non estingue il suo vivo splendore» (Exsultet). In questo modo si mostra chiaramente come sia Cristo che comunica – attraverso la sua Risurrezione – la luce della fede e il fuoco della vita nuova della grazia, che è proprio partecipazione alla vita divina, cioè alla luce, di Cristo. Tale aspetto era una volta tanto enfatizzato che non solo le luci delle chiese ma tutte le luci della città dovevano essere spente durante la Veglia, e sarebbero state riaccese in seguito solo a partire dalla luce nuova del cero pasquale, la luce di Cristo «che illumina ogni uomo venuto al mondo» (Gv 1,9).


PRESENZA DI CRISTO

Il cero quindi significa la presenza di Cristo e la sua accensione significa la sua Risurrezione, nella quale anche le piaghe del corpo permangono, non più come segno di morte ma come offerta di sublime odore. Proprio comprendendo come il cero rappresenti il Cristo risorto e glorioso – e quindi splendente e radioso – si capiscono molti altri aspetti liturgici dei riti pasquali. Prima della riforma liturgica infatti, durante la benedizione dell’acqua lustrale per il Battesimo, il cero veniva immerso nell’acqua, perché proprio come nel Giordano Cristo aveva santificato l’acqua con il suo Battesimo, così ora torni a santificare quest’acqua che servirà per i battesimi nel corso del nuovo anno. Anche i segni che odiernamente si trovano sul cero, cioè l’alpha e l’omega, hanno una chiara funzione di identificare il cero con il Cristo: la lettera iniziale e finale dell’alfabeto greco indicano infatti come il Cristo sia il Re e il Signore del tempo e della storia, dall’inizio alla fine, e come la sua venuta nel tempo abbia cambiato il corso della storia umana. Inoltre tali segni che oggi vengono incisi o disegnati, una volta erano invece compiuti tramite l’unzione con un olio benedetto, chiara allusione al Cristo, cioè all’“Unto”.
La presenza del cero sull’altare indica dunque chiaramente il Cristo risorto e glorioso che in tutto il periodo di Pasqua rimane tra gli uomini, così come era rimasto tra i suoi discepoli dalla Risurrezione all’Ascensione. Proprio per questo nel tempo pasquale alla processione al Vangelo non si portano lumi, perché è già presente il lume del cero, non tanto per illuminare il testo evangelico ma per indicare la presenza di Cristo stesso. Per questo prima della riforma liturgica il cero pasquale veniva spento dopo il Vangelo dell’Ascensione, per segnalare che ormai Cristo aveva terminato il suo tempo qui sulla terra e ritornava alla sua dimora celeste. Oggi la liturgia invece prevede che il cero venga spento alla Pentecoste, per indicare piuttosto la presenza spirituale che quella corporea. Ad ogni modo nel cero pasquale presente dalla Notte Santa su tutti gli altari delle chiese cattoliche, dobbiamo con gli occhi della fede vedere Cristo stesso, il Messia unto, che tramite la sua nascita verginale (la cera), la sua Passione (i grani di incenso) e la sua Risurrezione gloriosa (la luce) si dimostra il Signore dell’universo e della storia (Alpha e Omega), venendo a salvare e a riscattare i fedeli dalla schiavitù del peccato (come la colonna di fuoco per gli ebrei) e condurli alla vita nuova della grazia.

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