I FIORETTI
“Vi voglio raccontare la mia storia”. Giovanni Bardazzi / 1
dal Numero 37 del 27 settembre 2020

Nel nome di Gesù e della Vergine Santissima, con l’assistenza dello Spirito Santo, vi voglio raccontare la storia della mia vita. Una vita durata 89 anni, diciotto dei quali trascorsi all’ombra del più grande santo del nostro secolo: padre Pio da Pietrelcina. Andiamo con ordine.  

Prima di tutto son dovuto nascere. Successe il 25 ottobre 1908 al Pino, una frazione a nord di Prato. Non ero solo, però, quando venni al mondo: mi accompagnavano il cuore e il mio carattere. Due accessori che mi hanno fatto passare dei momenti indimenticabili e giocato anche dei brutti scherzi.  

La mia era una famiglia di contadini composta dal babbo Carlo, dalla mamma Giovanna, due sorelle e uno zio, fratello del babbo. Non andavo d’accordo con due cose: la terra e la scuola. La scuola era per me un supplizio. Mi veniva l’orticaria al solo pensarci. Con fatica, riuscii ad arrivare alla terza elementare; tanto che la mamma, preoccupata che non riuscissi a portare in fondo l’anno scolastico, trovò un maestro che accettò di aiutarmi e, all’ora stabilita, veniva a casa a darmi qualche lezione. Ci mancava anche questa. Lo levai di mezzo presto, però. Sopra il viottolo che il maestro percorreva, stendeva i rami una grossa quercia. Riempii un fiasco di bottino e mi misi a cavalcioni sul ramo più basso. Appena il malcapitato fu sotto, lasciai andare il fiasco e feci centro. Si presentò alla mamma: «Guardate il vostro figliolo come mi ha ridotto!», protestò. Io non mi potei mettere a sedere per diversi giorni, ma il maestro non lo rividi più.  

A 14 anni buttai via la vanga e la zappa e mi misi in cerca di un lavoro. Lo trovai presso una società che aveva in appalto i lavori del comune. Fui destinato alla manutenzione delle strade. A 18 anni presi la patente di guida: benzina e diesel. Mi dettero in dotazione un’autobotte, con la quale annaffiavo le strade che a quel tempo erano per la maggior parte sterrate. Persi il posto perché un giorno annaffiai un alto dirigente del partito fascista. Andò così. Avevo aderito, con entusiasmo, al credo comunista e i fascisti – si era intorno agli anni Trenta – li vedevo come il fumo negli occhi, anche perché mi avevano costretto a sorbire una generosa porzione di olio di ricino. A quei tempi era un genere di prima necessità: ero in piazza, a Prato, mentre il Duce – alias «Giulietta», dato che era sempre al balcone – pronunziava uno dei suoi discorsi che veniva trasmesso per radio. Dopo che ebbe pronunciato, con enfasi, una delle sue frasi a effetto, mi scappò un: «Bravo bischero!». Dietro a me c’erano due camicie nere e il resto venne da sé. Ma torniamo al gerarca. Una sera stavo annaffiando le strade nel centro di Prato, una strada stretta, dove con l’autobotte ci si passava precisi, quando vidi sbucare da una stradina laterale una persona. Lo riconobbi. In cabina, accanto a me, avevo un ragazzo che, dietro mio ordine, doveva aprire i rubinetti dell’acqua. Quando mi fu a tiro ordinai: «Apri!». Gli arrivò addosso il diluvio. Il poveruomo rimase a bocca aperta, senza fiatare, mentre l’acqua gli colava fuori dalle tasche della giacca e dei pantaloni. Grande fu la soddisfazione, inevitabile il licenziamento.  

Trovai così lavoro come autista presso una ditta di trasporti. Lì conobbi una signorina con la quale simpatizzai e ci fidanzammo. Fui licenziato per il mio carattere turbolento. Mi misi a lavorare gli stracci, ma con scarsi risultati. Provai con le auto usate. Andavo a comprarle a Torino e le rivendevo sulla piazza di Prato. Nel frattempo, avevo trovato anche il tempo di sposarmi. Non con la fidanzata di cui ho detto sopra. No. Quella, l’avevo lasciata perché mi ero innamorato di un’altra. L’unione fu allietata dalla nascita di un figlio, ma solo dopo tre anni rimasi vedovo e con un bambino da allevare. L’avevo chiamato Morando: sono sempre stato un appassionato di musica lirica e a quel tempo c’era un tenore che spopolava e si chiamava così. Il bambino l’avevo affidato alla famiglia della moglie, dove veniva allevato con premura, ma ero in gravi difficoltà. Non ero soddisfatto.  

Allora presi il coraggio a quattro mani e scrissi una lettera alla prima fidanzata, Antonia Ottavia, detta comunemente Ottavina. In parole povere le dicevo: «Io sono quello di prima, ma ho un figliolo in più. Saresti disposta a sposarmi?». Accettò e ci sposammo. Non finirò mai di benedire quel foglio di carta. Era il 1939. Viaggio di nozze a Roma. Dove ci si perse, anche. Sì, perché lei non fece a tempo a salire sul tram dove ero salito io. Tornati a casa, cercai di riannodare le fila. Mi proposero di entrare socio in una compagnia di varietà, con tanto di capo-comico e «22 Ballerine 22». Tournée in Piemonte. Stetti via un paio di mesi. A casa non sapevano nemmeno dov’ero. L’amministratore falsificava i bilanci e rubava sugli incassi. Finì in un fallimento e rimasi pulito. Scappai di notte.  

Sempre in società, acquistai un autotreno per trasportare merci per terzi. Subii il furto di un intero carico e dovetti vendere tutto, con le cambiali da pagare. Fu allora che decisi di chiedere la licenza di tassista. Feci la domanda in Comune e mi fu concessa. Ebbi il posto in piazza San Francesco, a Prato. Il babbo e altri componenti della famiglia mi dettero una mano per mettere insieme la cifra per l’acquisto dell’auto.  

La mia era un’esistenza disordinata. Non avevo orari. In casa non c’ero quasi mai. Anche perché avevo una seconda casa che era la Casa del Popolo, sede del Pci. Una volta l’anno, per contentare la moglie, andavo in chiesa, ma le mie idee erano tutte all’opposto. Volevo trasformare le chiese in magazzini per gli stracci e di un prete avrei voluto farne quattro. Mia moglie, donna di fede granitica e d’infinita pazienza (ce ne voleva!), con incessante e intensa preghiera chiedeva al Cielo la mia conversione. Aveva conosciuto e frequentava una signora di Campi Bisenzio: tale Demarista Parretti che, dicevano, era in contatto con un frate che faceva i miracoli e aveva impresse nel corpo le stimmate di nostro Signore. Roba da esaltati del medioevo. Erano trascorsi una decina d’anni da quando m’ero risposato e la moglie, con altre persone, non aveva mai cessato di pregare per la mia conversione. Nel 1947 (l’ho saputo dopo), era andata da questo frate con la Demarista per lo stesso scopo.   

Un frate in camera 

Nel corso del 1949, di notte, mentre dormivo, feci un «sogno» strano. Vidi in fondo al letto un frate con la barba, con le mani appoggiate alla lettiera e coperte da mezzi guanti, che con fare perentorio mi sparò addosso queste parole: «Mo’ basta! T’aspetto a San Giovanni Rotondo!». E sparì. Io feci un salto dal letto per cacciarlo via, perché certe persone, in casa mia, non ci dovevano stare. Cercai, guardai dappertutto. Le finestre erano tutte chiuse, la porta di casa pure. Rovistai in ogni angolo, ma il frate non lo trovai.  

Tuttavia, rimasi molto impressionato e la mattina lo dissi anche a mia moglie: «È venuto un frate stanotte e ha detto che mi aspetta a San Giovanni Rotondo!». «È padre Pio! È padre Pio!», esclamò fra le lacrime.  

Nel frattempo, per incrementare le entrate del lavoro di tassista, iniziai, insieme a un socio, la vendita al dettaglio di stoffe. Ogni settimana, con l’auto carica di pezze, prendevo la strada della Romagna e, attraverso il passo del Muraglione, raggiungevo Cesena, dove avevamo stabilito la base per raggiungere i vari mercati del comprensorio. Da buoni soci, naturalmente, ci rubavamo i profitti a vicenda. L’iniziativa si dimostrò buona e i ricavi anche. Avrebbero potuto essere anche migliori se la sera si fosse evitato di frequentare le sale da gioco di San Marino.  

Passavo il tempo menando sempre la stessa vita. Mi accorgevo però di non essere più il solito. Avevo perso il gusto al divertimento. Il cinema, l’opera lirica, il varietà, non mi attiravano più come una volta. Non riuscivo nemmeno a riposare bene, anche perché mia moglie (me l’ha detto dopo), mi aveva messo una foto di quel frate dentro il cuscino. E l’eco di quel «Mo’ basta!» non mi abbandonava mai.  

Si va a trovare quell’uomo! 

Una sera, dopo cena, assieme alla moglie, vado a Campi per conoscere questa Demarista. Si suona il campanello e non c’è. “Meno male – dissi fra me –. Si torna a casa”. «Ormai che siamo venuti, se la vuoi conoscere, io so dove trovarla», suggerì mia moglie. Ci accolgono in una casa non molto lontano, dove un gruppo di persone stava recitando il Santo Rosario. La Demarista conduceva la preghiera. Mi appoggio al muro di fronte a lei. A un certo punto si alza dalla sedia. Appena la vidi fare l’atto di alzarsi, pensai subito: “Viene da me!”. Infatti, in ginocchio, si diresse verso di me. Io volevo scappare. Se il muro fosse stato di pasta, l’avrei sfondato per andare via. Mi si ferma davanti e mi dice, da parte del Padre, quello che lei sentiva nel suo animo. Apro una parentesi.  

Fra i numerosi doni di cui il Padre era stato gratificato, c’era quello di comunicare con i suoi figli sparsi per tutto il mondo. A volte erano «sogni», a volte si presentava in bilocazione, altre per locuzioni interne, talvolta usava varie tonalità di profumi. Insomma, si faceva sentire e vedere.  

Io non so come si è comportato con altri, ma vi posso assicurare che per sei anni, senza interruzione, è venuto ogni notte a farmi visita: consigliandomi, ammonendomi, rimproverandomi, esortandomi e, bontà sua, anche per ringraziarmi per qualche cosa che avevo fatto per lui. Anche in auto, per la strada, più di una volta mi sono dovuto fermare per continuare una conversazione. Specialmente dopo la sua morte, avvenuta il 23 settembre 1968, nel ricordare certi episodi particolarmente significativi, la discussione diventava vivace, dovevo accostare e fermarmi. Me lo aveva detto: «Un giorno vivrai di questi bei ricordi». Verissimo. Qualche anno prima, mi rubarono l’auto, un’Alfa-Romeo Giulia. Una notte me la fece vedere in una strada di Milano, dove i ladri l’avevano portata. Andai a colpo sicuro ed era lì. Tante volte mi ha portato in giro nei luoghi più svariati. In un’altra occasione, visitammo quasi per intero il comune di Caprese Michelangelo, in provincia di Arezzo, ma non me ne disse la ragione. Una particolarità del fenomeno consiste nel fatto che ti ricordi benissimo dei posti che hai visto. La differenza fra sogni e locuzioni consiste nel fatto che in sogno sei con lui e conversi con lui come quando era vivo: come si fa con ogni persona. Per locuzione interna, senti, inconfondibile, solo la voce. 

Attraverso la Demarista, padre Pio mi aveva quindi mandato un secondo messaggio. Ciononostante, tergiversai ancora per qualche tempo, poi mi decisi: «Trova qualche persona che ci aiuti a dividere la spesa – dissi a mia moglie – e si va a trovare quell’uomo».  

La preghiera incessante, che era stata elevata alla divina Misericordia, aveva ottenuto il suo scopo e, attraverso la Dispensatrice di tutte le grazie, Maria Santissima, la grazia per la mia conversione era stata concessa. E qui comincia il bello.   

Continua  

da: Giovanni Bardazzi,   Un discepolo di Padre Pio, pp. 9-23

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