SPIRITUALITÀ
Lo Spirito Santo: l’Amore non conosciuto
dal Numero 21 del 28 maggio 2023
di Padre Marciano M. Ciccarelli

Lo Spirito Santo è il dolce Ospite dell’anima. La sua azione è spesso silenziosa e nascosta ma potente ed efficace. È mediante l’amore che ci è possibile gustare la sua presenza vivificatrice e santificatrice.

Malgrado la ricchezza della liturgia, dobbiamo riconoscere che lo Spirito Santo è il grande sconosciuto. Forse non pochi cristiani, a chi li interrogasse sullo Spirito Santo, dovrebbero rispondere come quei discepoli di Efeso a san Paolo: «Non abbiamo neppure sentito dire che ci sia lo Spirito Santo» (At 19,2). Eppure è il nostro Ospite, fin dal Battesimo. A questa ignoranza della sua presenza e della sua azione in noi, unita alla resistenza alla sua grazia, si deve se la santità non fiorisce in molte anime battezzate.  
«Non vogliate estinguere lo Spirito» (1Ts 5,19), «Non vogliate contristare lo Spirito Santo di Dio, nel quale siete stati segnati» (Ef 4,30), ammonisce l’Apostolo. È la condizione e il segreto della nostra vita in Dio: non opporsi a Lui che, abitando in noi, c’insegna a vivere da figli di Dio e da fratelli di Gesù; essere docili a quanto Egli ci suggerisce; consapevoli della sua presenza, adorarlo, amarlo, entrare in intimità con Lui. Se «lo Spirito Santo non ha né un volto né un nome che possa evocare una figura umana» [1] ha però il suo modo proprio di rivelarsi. Per conoscerlo però bisogna rientrare in se stessi, perché la sua azione è tutta interiore.  
Anche lo Spirito Santo ha avuto le sue rivelazioni: sant’Angela da Foligno ne conobbe tutta la forza e la dolcezza, da degna figlia di san Francesco. Mentre ella andava alla Basilica di san Francesco d’Assisi, lungo la via, lo Spirito divino le parlò interiormente, chiamandola «figlia mia», «tempio mio», «figlia e sposa mia». «Amami — le disse — che sei molto amata da me, assai più che tu non m’ami». Ed ella dubita fortemente e resiste e si umilia gridando interiormente che non è degna, e ricordando i suoi peccati. Il colloquio, e quasi la lotta, tra lei e lo Spirito divino, durano a lungo, finché le viene detto: «Adesso è l’ora... che io ti lasci, ma non ti abbandonerò mai, se mi amerai». Angela allora, come fuori di sé, grida ad alta voce: «Amore non conosciuto! Perché, perché?» [2].  
Veramente «Amore non conosciuto» è lo Spirito Santo, dolce Ospite dell’anima! E allora, sopra tutte le cose di questa terra, al di sopra di qualunque altra attività, l’anima serafica, come esorta san Francesco, deve preoccuparsi di preparare «un’abitazione ed una dimora» nel proprio cuore a Lui, «che è desiderabilissimo per la fecondità della sua grazia, deliziosissimo per la comunicabilità della sua gloria, soavissimo per la desiderabilità della sua presenza, nobilissimo per la sublimità della sua natura, efficacissimo per la virtù della sua potenza [...]. Egli [...] illumini la nostra intelligenza, infiammi il nostro affetto, diriga le nostre intenzioni, dischiuda il nostro orecchio» [3].  
Da Lui, inabitante fin nelle radici dell’essere nostro, ha origine l’interiorità e la fecondità di ogni anima che vive della sua divina presenza. 


L’esperienza
Lo Spirito Santo è realmente presente, come amico, ospite, sposo, come sommo bene, nell’anima accesa dalla fiamma della divina carità. Però non lo si vede. Dio, purissimo spirito, non può essere percepito dai nostri sensi: la «parete della carne» ci separa dall’Amico dolcissimo. E «finché permaniamo in questo corpo, ci troviamo come in esilio lontani dal Signore [Dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino]» (2Cor 5,6). Solo la fede ci fa intravedere quaggiù questa realtà energicamente affermata dalla Scrittura, ma ce la lascia scorgere come in una luce crepuscolare, avvolta nella penombra del mistero.  
Eppure sostanzialmente già possediamo tutto quello che formerà in Cielo la nostra beatitudine eterna, poiché «grazia e gloria solo accidentalmente ma non sostanzialmente differiscono tra loro» [4]; anzi la grazia non è che un incominciare in noi della gloria [5], una semenza preziosa e incorruttibile destinata a schiudersi in albero al sole dell’eternità (cf 1Pt 1,23).  
Ma per godere intimamente della divina inabitazione, oltre alla presenza dell’oggetto occorrono le disposizioni convenienti del soggetto. E per disporsi convenientemente quaggiù, nello stato di via, la spiritualità serafica indica quale punto di partenza la fede.  
Bisogna ravvivare la fede, vivere di fede, e a poco a poco, attivando questa virtù teologale infusa, raggiungere una certezza soprannaturale che ci porti ad agire in conformità con ciò che crediamo: ad adorare e onorare l’Ospite divino presente in noi, a vivere alla sua presenza mediante quell’attenzione costante alle ispirazioni della grazia e quel raccoglimento abituale, per cui le nostre energie e le nostre potenze, anche se impegnate in occupazioni varie, conservano sempre un fondamentale orientamento verso Dio, che ci permette di ritornare consapevolmente alla sua presenza appena sia possibile. Ma l’anima che è fedele e costante può arrivare più in là, a una percezione sperimentale e saporosa, benché non sensibile, frutto del dono della Sapienza; e all’unione, mediante l’amore serafico. 
A sperimentare Dio dentro di noi, poco vale la nostra intelligenza. Quale intelligenza creata può cerchiare l’infinito?  
Quando i filosofi, imbevuti di aristotelismo, hanno ripetuto che Egli è il primo motore immobile, quando gli scolastici hanno detto che Egli è l’Ente, hanno detto ancora poco: hanno espresso dei concetti, non hanno né visto né percepito Iddio, che è vivente e personale. San Francesco non si è domandato se Dio esistesse, eppure, quanto intimamente l’ha conosciuto!  
Alessandro di Hales insegna che Dio non si vede — il suo aspetto abbaglia come il sole —, ma si sente: nella conoscenza di Lui la visione è assente e il gusto è presente [6]. E san Bonaventura, che eredita dal primo lo spirito e dal secondo la scienza, conclude: «La cognizione progredisce per molti gradi, si conosce Iddio, infatti, nelle vestigia, nella immagine, mediante gli effetti della grazia, e si conosce anche per l’intima unione dell’anima con Lui, come dice l’Apostolo: “Chi aderisce a Dio, forma un solo spirito con Lui” (cf 1Cor 6,17). E questa è conoscenza eccellentissima, propria dell’amore estatico, e superiore a quella della stessa fede secondo lo stato comune» [7].  
Le nostre facoltà conoscitive nulla percepiscono della divina inabitazione. Solo ci introduce, e a mano a mano ci porta al misterioso contatto col Paraclito, l’esperienza spirituale, quella percezione sperimentale e saporosa che l’anima andrà acquistando nello sviluppo della “Sapienza”. La Sapienza, dono dello Spirito Santo, è appunto una conoscenza saporosa di Dio, un gustare Iddio, dopo averlo saputo riconoscere là dove Egli si cela, e particolarmente nell’anima nostra. Si tratta dunque di esperienza intima, personale, che è frutto di una fedele corrispondenza alla grazia e di molta preghiera, e nello stesso tempo è dono sublime della grazia; essa conduce alla «degustazione della soavità» divina, ad un’intima profonda dolcezza «che intender non la può chi non la prova» [8].  
«L’anima è come la palma – dice il Dottore Serafico –, più grossa verso i rami che verso la radice. Quanto più essa si trasporta in alto con l’esperienza, tanto più essa si rafforza nella virtù» [9].  
Se poi vuoi sapere come si acquisti l’esperienza e come ci si addentri a degustare il divino, «interroga la grazia e non la scienza, il desiderio e non l’intelletto, il gemito della preghiera e non lo studio, lo sposo non il maestro, Dio non l’uomo, l’oscurità non la chiarezza; non la luce che brilla ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con una unzione che rapisce e un affetto che divora» [10] .  
Si degusta la presenza effettiva del Paraclito soprattutto mediante l’amore, che incendia ed eleva, amore “serafico”, che il divino Artefice va suscitando nel nostro cuore e che possiede il privilegio di unirci immediatamente a Dio.  
Non addita altra via la spiritualità serafica a chi anela all’unione con Dio. Quando essa ha detto che nella conoscenza di Dio dove vien meno l’intelletto progredisce l’affetto, nel dono della Sapienza, ha detto la più alta parola dell’unione mistica con Dio, e ne ha indicata la via più sicura. Poiché realmente l’amore di Dio, per chi lo sperimenta, è «sequestrativus, completivus, sursumactivus», cioè, come spiega san Bonaventura stesso, «strappa l’anima da qualunque altro affetto e la immerge in quello dello Sposo; colma e appaga tutte le facoltà; è sopraelevante perché conduce a Dio [...] e salda in Lui con fermezza che non vien meno» [11]. «Chi permane nella carità sta in Dio e Dio in lui» (1Gv 4,16).  
Difatti «la conoscenza perfetta non è essenziale per il godimento. L’amore può abbracciare il suo oggetto e godere del suo possesso anche quando non lo vede, purché sappia che è presente. E così possiamo anche quaggiù abbracciare col nostro amore il pegno dell’amore divino depositato nei nostri cuori, e rallegrarcene» [12].  
Del resto, ad avvertirci di questa ineffabile presenza è «lo Spirito Santo stesso il quale all’anima nostra rende testimonianza che noi siamo figli di Dio» (Rm 8,16).  
San Bonaventura è sulla via regia della Scrittura, la via che gli aveva indicata san Francesco, l’appassionato innamorato di Dio, e perciò egli può indicare un segno per sperimentare la presenza dello Spirito Santo in noi: «Il dilatarsi del cuore ad operare il bene» [13].  
È questa la via che aveva tracciata san Bernardo: «Tu mi domandi — dice — come io posso conoscere la presenza di Colui le cui vie sono impenetrabili... Appena è presente, Egli ridesta l’anima mia addormentata, Egli muove, intenerisce, ferisce il mio cuore, duro come una pietra e malato; s’adopera a strappare e a distruggere, a edificare e a piantare, ad irrigare ciò che è arido, a illuminare quello che è nelle tenebre, ad aprire quello che è serrato, a riscaldare quello che è freddo, a raddrizzare quello che è tortuoso, ad appianare quello che è scabro. E così, quando lo Sposo entra nell’anima mia [...], io riconosco la sua presenza dal movimento del mio cuore» [14].  
Ciò che ci fa percepire la presenza di Colui che non è «né immaginabile, né sensibile, né intelligibile» [15], ma tutto desiderabile, non è un sentimento vago, ma è una buona volontà, un movimento interiore verso il bene: è sentirsi il cuore profondamente infiammato dal fuoco dell’amore operoso.  

tratto da: I misteri di Cristo nella spiritualità francescana


Note
1) J. Guillet, Esprit Saint, in Dict. De Spir.

2) Sant’Angela da Foligno, Autobiografia, a cura di M. Faloci Pulignani, Città di Castello 1932, pp. 45ss.

3) San Bonaventura da Bagnoregio, In Pent., serm. VII (IX, 336b-337a).

4) Idem, II Sent., d. 27 (II, 648b); cf III Sent. (III, 682).

5) Idem, II Sent., d. 27, a. 2, q. 1 (II, 660b).

6) Alessandro di Hales, Summa Theologica, Prolegomeni, t. I, p. XXXIX.

7) San Bonaventura da Bagnoregio, III Sent., d. 24, dub. (III, 531b).

8) Dante Alighieri, Vita nova, XXVI, sonetto Tanto gentile.

9) San Bonaventura da Bagnoregio, De S. Agnete, Serm. II (IX, 510a).

10) Idem, Itinerarium, VII, 6 (V, 313b).

11) Idem, In Hexaemeron, II, 31 (V, 431b).

12) Schebeen, op. cit?, p. 168.

13) San Bonaventura da Bagnoregio, III Sent., d. 31, a. 3, q. 2 (III, 690b).

14) San Bernardo di Clairvaux, Serm. 74 in Cant., in PL 133, 1141.

15) San Bonaventura da Bagnoregio, De triplici via, I, § 3.
 

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