SPIRITUALITÀ
21 aprile | “Credo per comprendere”: sant’Anselmo d’Aosta
dal Numero 15 del 16 aprile 2023
di Paolo Risso

«Insegnami a cercarti e mostrati a me che ti cerco. Io non posso cercarti se tu non m’insegni, né trovarti se tu non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti, che ti desideri cercandoti, che ti trovi amandoti, e che ti ami trovandoti».

Il pensiero medievale è tutt’altro che stagnante o asfittico. Non c’è bisogno della cosiddetta “aria fresca”, del pensiero contemporaneo dell’Europa nordica che ha dissestato tutto. Il pensiero medievale dà l’impressione di una effervescenza di cui ben pochi (o nessuno) hanno dato spettacolo tanto bello. In questo clima così eccitante, lavorano sant’Anselmo d’Aosta, san Bernardo, e più tardi sant’Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura, e anche il beato Giovanni Duns Scoto, prodigiose schiere di geni e di talenti che la Cristianità esprime in 150-200 anni.
Il primato di Dio
Alla base, al centro e al vertice di questo immenso lavoro intellettuale sta la fede. Nessun problema ha senso allora, se non in funzione della conoscenza della realtà di Dio. La teologia è dunque, senza smentita alcuna, la più alta delle scienze, la scienza per eccellenza, quella da cui tutto parte e a cui tutto arriva.
Nel medesimo tempo, la fede non è ostacolo alla ragione, allo spirito; al contrario, garantendo all’uomo le certezze fondamentali, gli permette feconde audacie. Questi pensatori, detti “scolastici”, non hanno “paraocchi” e possono avventurarsi: sanno con certezza che non mancheranno loro basi incrollabili. Sono stati detti e paragonati a “prodigiosi equilibristi che, con la Rivelazione in mano per salvarsi, si abbandonano alle acrobazie più ardite sulla corda della speculazione”.
Il problema centrale è quello dei rapporti tra ragione e fede. La ragione deve aiutare la fede, o la fede la ragione? “Credo per comprendere” o “comprendo per credere”? (Credo ut intelligam o Intelligo ut credam), questa è l’alternativa che affrontano i pensatori del Medioevo.
A noi che beneficiamo delle loro ricerche, pare che questa alternativa non abbia motivo di esistere; le due proposizioni sono entrambe vere: la fede aiuta la ragione, a comprendere un “mondo più alto”, il “mondo di Dio”; la ragione collabora con la fede, per fondare i motivi per credere e assisterla nelle sue lotte. Sant’Agostino e san Tommaso si completano e non si escludono.
Ma nell’ardore delle giovani scoperte, gli “scolastici” si schierarono per l’una o l’altra posizione. Credere per comprendere, comprendere per credere; in linea generale, dall’XI al XIII secolo l’accento si spostò dall’una all’altra parte dell’indissolubile formula. Attorno al 1050, i maestri insistono sulla prima; verso il 1250, la seconda è accettata da tutti gli spiriti. Maestro san Tommaso d’Aquino ne farà la sintesi più alta.
Nel secolo XI, san Pier Damiani (1007-1072) diceva in modo perentorio: «Dio non ha bisogno di retorica per attirare a sé le anime. Dio non ha mandato dei filosofi a evangelizzare gli uomini». Poteva essere mantenuto questo atteggiamento? Già alcuni spiriti eletti, per quanto assai “tifosi” del primato di Dio, della fede in Lui, avevano presentito che la filosofia poteva aiutare il Credo cattolico: così l’illustre Giovanni Scoto Eriùgena, un po’ eterodosso, e tuttavia aveva compreso che la vera filosofia sostiene la fede e che la fede è la più alta filosofia.
Sant’Agostino aveva spiegato tutto ponendo Dio come primo principio. Questo fu anche l’at­­teggiamento della prima Scolastica. Dio sì, Dio tutto, ma si vide presto che rifiutare l’appoggio della filosofia sembrava loro un errore: se la ragione è il dono più alto di Dio nell’ambito della natura, la ragione può cantare la gloria di Dio. Se la ragione può aiutare a meglio penetrare i misteri della fede, perché scartarla? Sì, allora, all’intelligenza che cerca la fede (intellectus quærens fidem) ma anche alla fede che cerca l’intelligenza (fides quærens intellectum). Fondato sul dogma, lo spirito può lavorare ad allargare il suo campo: così pensava già con prudenza il beato Lanfranco di Canterbury (1005-1089), prefetto degli studi di Le Bec, poi arcivescovo di Canterbury. Per combattere Berengario di Tour e i suoi errori sulla Santissima Eucaristia, Lanfranco (con il santo papa Gregorio VII) ricorse ad argomenti filosofici e all’argomentazione da parte della ragione, non di meno che alla santa Tradizione della Chiesa. 
“Il padre della Scolastica”
Un uomo era necessario affinché nascesse la speculazione retta e fedele al Credo cattolico: sant’Anselmo (1033-1109) d’Aosta, che viene chiamato “il padre della Scolastica”.
Figlio della nobiltà valdostana, era parente di Matilde di Toscana e della nobile famiglia dei Savoia. È una figura commovente di intellettuale per il quale l’amore era uno dei più alti valori della conoscenza, di vescovo in cui il duro impegno nelle lotte politiche di fronte ai re d’Inghilterra, Guglielmo II detto il Rosso ed Enrico Beauclerc, non attenuerà mai le amorevoli doti del suo cuore paterno.
Già da fanciullo amava meditare sulle montagne del suo paese natale; studente strappato dal beato Lanfranco ai già inquietanti errori del suo tempo; monaco a Le Bec, poi abate della medesima badia, infine arcivescovo di Canterbury. Anselmo, per tutta la sua esistenza, ebbe – come dirà – «una sola consolazione e un solo nutrimento: l’amore di Dio».
Così la sua ricerca intellettuale, la sua “Scolastica”, il suo argomentare sono una cosa sola con la sua mistica, la sua crescente intimità con Dio. «Amare ciò che si conosce», «meglio conoscere per meglio amare»: questo fu il suo principio. «Io non cerco di comprendere per credere, ma credo per comprendere».
Quando si avventurava a dimostrare l’esistenza di Dio, della Trinità, si avviava per una via per cui i posteri non lo avrebbero seguito. Il suo celebre argomento “a priori” dell’esistenza di Dio, che si chiama ancora “l’argomento ontologico di sant’Anselmo”, quantunque ripreso più tardi da Cartesio e un po’ modificato anche da von Leibnitz, non può imporsi senza obiezione: poiché ogni uomo porta in sé il concetto di una suprema grandezza, di una totale perfezione, questo essere immenso e perfetto esiste. San Tommaso d’Aquino dimostrerà la sua insufficienza, perché esso presume di poter passare dall’ordine logico all’ordine ontologico.
Ma nell’opera Cur Deus, homo? (Perché Dio si è fatto uomo?) sant’Anselmo risponde alla domanda affermando che l’uomo peccatore, la cui colpa, offendendo Dio infinito, ha una gravità infinita, può essere solo salvato da un Dio che sia anche uomo, il cui valore sia infinito. E questo lo ha fatto per noi la seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo fatto uomo, Gesù.
La teologia cattolica ha fatto propria la spiegazione di sant’Anselmo, fedele al pensiero di san Paolo apostolo e di san Giovanni evangelista, fedele a Gesù, venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti (cf Mc 10,45). Si potrà approfondire, spiegare meglio, arricchire, ma cambiare mai! Nessuna “barba” di filosofo o di teologo modernista, potrà dire in modo diverso così da contraddirlo.
Così è il Cristo, l’uomo-Dio crocifisso, a ergersi come il centro della ricerca filosofico-teologica di Anselmo di Aosta. Il Cristo da lui perdutamente amato e proposto all’amore delle anime, con lo stile del maestro, dell’apostolo e del buon pastore. 
Ma sant’Anselmo ebbe il merito di affrontare da uomo di pensiero il problema teologico, di aprire la via alla ricerca filosofica, di intuire e di far vedere un’unione feconda tra ragione e fede.
La sua opera fu la più celebre della sua epoca, opera che pur non ordinandosi in Summa – ci vorrà maestro Tommaso d’Aquino per farlo – trattava della logica della dialettica, dei criteri della verità, del libero arbitrio, e insieme dei misteri di Dio – nel Monologion e nel Proslogion – della Trinità, del male e del peccato, soprattutto del Cristo Redentore e della sua opera di Redenzione, senza contare le sue omelie, le sue preghiere e le innumerevoli lettere. 
Primo dei grandi pensatori cristiani del Medioevo, visse troppo presto per realizzare le grandi e nuove sintesi necessarie; ma gli dobbiamo essere grati per averle preparate.
Resta avvincente in tutta la sua opera la ricerca di Dio come luce di verità per chiedergli di essere tutto penetrato da questa luce, che lo porti a vivere in pienezza il suo amore: una pienezza quaggiù, nella speranza che si trasformi lassù nella pienezza del possesso.
Il desiderio di conoscere Dio e di immergersi nel suo oceano di luce infinita, è cosi vivo che diventa brama quasi angosciosa: sembra di essere tanto vicini a Lui, ma Lui invece è sempre più in alto. Intanto nella meditazione, nel dialogo, nell’intimo colloquio della preghiera, nell’unione stretta con l’uomo-Dio, Gesù Cristo («Chi vede me, vede il Padre», Gv 14,9) si abbreviano sempre più le distanze, finché la fede diventerà visione: allora l’anelito di luce e di verità sarà totalmente soddisfatto in Dio, Uno e Trino. 

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