SPIRITUALITÀ
Il divino silenzio della notte
dal Numero 45 del 4 dicembre 2022
Aurora De Victoria

Riformatore del Carmelo, esimio Dottore della Chiesa, san Giovanni della Croce delinea e incarna la sua spiritualità del “puro amore” nella sua stessa esperienza. Di croce in croce ci si eleva e purifica, fino alle vette della santità: questo il suo insegnamento e la sua testimonianza vissuta

Giovanni fu anche il suo nome di Battesimo. Nacque a Fontiveros nella vecchia Castiglia il 24 giugno 1542. La sua infanzia conobbe privazioni e sofferenze che lo misero presto alla scuola della croce, della quale in seguito sarebbe divenuto non solo esperto allievo, ma eccellente maestro. Inoltre, episodi della sua fanciullezza rivelarono presto una speciale predilezione per quell’anima da parte della Vergine Santissima. 

Giovanni era un giovane brillante, ma era nato per il Cielo e la sua attrazione alle cose celesti lo condusse a consacrare la sua vita a Dio e alla Vergine Santa nell’Ordine mariano del Carmelo, in cui fece ingresso il 24 febbraio 1563, prendendo il nome di fra Giovanni di San Mattia.

Novizio e studente, emerse in lui con evidenza un amore particolare al silenzio; quel silenzio che non è morte ma vita, che non è vuoto ma pienezza. «Il Padre – avrebbe scritto più tardi – pronunciò una parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima». 

Plasmò così la sua anima in quel silenzio divino, fino a conformarla a Gesù Cristo Sacerdote, del quale ricevette il carattere sacerdotale pochi anni dopo, nel 1567. Salì la prima volta all’altare. Accadde in quei momenti un fatto straordinario. Sin da bambino nel suo cuore non ardeva che un desiderio: schivare la minima colpa, la più piccola offesa a Dio... la colpa, sì, ma non la pena: disposto a soffrir tutto per Suo amore, a far penitenza di tutti i peccati, purché da essi Egli lo preservasse. Quel giorno udì la risposta alle brame del suo cuore: «Ti concedo quanto mi chiedi». Dio lo confermava nella sua grazia.

Uno spiacevole stridore

Per uno spirito fervoroso come il suo non poteva passare inosservato un grande paradosso: una Regola professata e un’evidente trascuranza di essa nella pratica. Appena fatta la professione dei suoi voti religiosi, si recò dal superiore e gli rivelò quella costatazione spiacevole che strideva con gli ardenti palpiti del suo cuore innamorato di Dio: «Padre mio, fra la Regola che seguiamo e quella primitiva v’è un abisso, e io vorrei seguirla integralmente». Cominciò a seguire in tutto quello che poteva il fervore della Regola antica, pur evitando singolarità evidenti, come il superiore gli aveva raccomandato. Ma quanto ancora avrebbe potuto continuare così, da solo, senza il rischio di spegnere quella fiamma? 

Era vicino il momento in cui avrebbe dovuto realizzarsi la profezia di una voce lontana che gli aveva detto, quando ancora si chiedeva in quale Ordine avrebbe dovuto consumare il suo olocausto a Dio: «Mi servirai in una Religione, di cui aiuterai il ritorno alla perfezione primiera».

Ma forse il giovane sacerdote non pensava più a quell’avviso. Il suo amore ardente a Dio, il suo fascino per la preghiera, per il silenzio, per la solitudine, il suo desiderio di una vita più austera e fedele lo spingevano ad orientarsi verso un altro Ordine: la Certosa. Lì avrebbe potuto vivere da solo con Dio, a contatto esclusivo e ininterrotto con Lui. 

È mentre ponderava una tale scelta e si orientava verso la decisione, che santa Teresa d’Avila irruppe nella sua vita.

Il sogno di santa Teresa

Il superiore di san Giovanni lo convinse a recarsi da questa santa monaca, che molto aveva sentito parlare di lui ed era ben ispirata a riporre in lui le sue speranze. Quali speranze?

Santa Teresa aveva 52 anni. Attendeva con trepidazione quella visita. Finalmente, sentì battere alla porta. La Santa quasi volò per raggiungere il parlatorio, dove le si presentò quell’umile carmelitano, di statura bassa, giovane d’aspetto – aveva 26 anni –, gracile ma di una modestia affascinante. Il profondo raccoglimento, la sua unione intima con Dio trasparivano da quel volto luminoso e da tutta la sua persona. «Appena lo vidi – disse – ne rimasi incantata!». 

Santa Teresa d’Avila aveva iniziato la sua Riforma del Carmelo femminile. Anch’ella si era resa conto che la Regola primitiva non era vissuta fedelmente e che solo una rispolverata seria e decisa della littera di quanto promesso avrebbe sollevato un’ondata di santità nell’Ordine e, quindi, nella Chiesa e nel mondo. La sua Riforma aveva trovato risposta positiva – tra numerose sofferenze e croci incontrate per attuarla e proseguirla –, 
ora però era necessaria una riforma anche del ramo maschile. Le sue Carmelitane Scalze – come si chiamarono con la Riforma – 
avevano infatti bisogno di guide spirituali che sapessero ben orientarle nel fervore dell’osservanza, per evitare una nuova ricaduta nella tiepidezza. Ma per cominciare, c’era bisogno di uomini che avessero spirito e stoffa da vendere. 

«Padre e figlio mio – disse con audacia santa Teresa a quell’angelo che aveva innanzi –, rinunciate alla Certosa, ve ne prego, ora che ci occupiamo di preparare una riforma del nostro Ordine». Con queste ed altre espressioni convincenti, santa Teresa ottenne quello che Dio stesso voleva. San Giovanni era ormai conquistato a quella divina missione.

Padre Giovanni riformatore

La Riforma ebbe inizio in una piccola casetta di un umilissimo villaggio, a Duruelo. Gli iniziatori furono tre e cambiarono il cognome religioso per indicare una nuova vita: il padre Antonio di Gesù, superiore; il padre Giovanni della Croce, che sarebbe stato sottopriore e maestro dei novizi; e il fratello Giuseppe di Cristo, portinaio e sacrestano. In quel luogo austero menarono una vita angelica. La loro sete di penitenza era inestinguibile: a mezzanotte si alzavano per il Mattutino, e poi non tornavano più a letto, restando in preghiera assorta. Dal tetto spesso s’infiltrava la pioggia e la neve, ma quei tre angeli non se ne accorgevano, talmente l’estasi dell’unione con Dio li immergeva. Molti nel paese si accorsero presto della santità di quegli uomini, che destavano la loro ammirazione sincera e presso i loro confessionali ebbero luogo numerose conversioni. 

San Giovanni della Croce era considerato il fondatore della Riforma e per questo era stato posto come maestro dei novizi, perché potesse formare le nuove reclute secondo lo spirito più autentico della Riforma, come ispirato da santa Teresa. Per tale ragione fu chiamato a formare anime nelle varie case che si aprirono in seguito, tanto erano numerose le vocazioni. 

Il Santo formava quelle anime di forte tempra, di volontà energica, di cuore ardente a divenire santi innamorati del Crocifisso. Li istruiva soprattutto nella mortificazione, nell’umiltà, nella morte di sé: dovevano morire a se stessi per trasfigurarsi in Cristo. Aveva una tale capacità di parlare delle cose del Cielo, che gli stessi suoi religiosi ne rimanevano conquistati.

La rinomata santità di quei religiosi destava la curiosità di molti. Tra questi, il Padre maestro Ferdinando del Castillo, allora predicatore di Filippo II, volle andare di persona a costatare quanto di loro si diceva. Tornato poi a Madrid, riferì al principe la sua ammirazione: «Eccellenza, considerati con occhio umano, essi sono dei pazzi; ma guardati con quelli dello spirito, sono angeli, e ministri di fuoco in corpi fantastici, per lasciare intravedere alla nostra mollezza qualche cosa dello spirito che arde in loro». 

Su richiesta della madre Teresa, il Santo procedette anche alla riforma del monastero femminile dell’Incarnazione, dal quale era partita l’ispirazione della Santa e del quale la ripresa dell’osservanza sembrava del tutto impossibile, data l’ostinazione di quelle monache. Insieme al padre Germano di San Mattia, il Santo dimorò per 5 anni in un piccolo eremo nei pressi del monastero, in qualità, entrambi, di confessori. Austero e contemplativo, egli era versatissimo nella conoscenza delle cose spirituali e il suo ufficio di confessore e direttore spirituale portò frutti copiosi: il monastero, che aveva fino ad allora conosciuto i rumori mondani, divenne un focolare di anime contemplative; tornò a regnare il silenzio, l’orazione, l’osservanza. 

I demoni stessi avevano paura di un santo di quella portata, che strappava anime al loro dominio. Più volte tentarono di avversarlo, prendendo persino le sue sembianze per cercare di sviare monache tiepide dalla via del ritorno a Dio. Ma le opere di Dio trionfano sempre, prima o poi, e così fu anche allora.

Il silenzio, la croce, la fede nuda: il cammino di divinizzazione verso Dio

«Non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito» (Rm 8,4). Il concetto di questa frase di san Paolo doveva essere molto caro a san Giovanni della Croce. La santità si realizza nella perfezione della carità. Ma all’amore di Dio si oppone in noi l’amore per le cose create, che essendo sensibili ci attraggono prepotentemente a sé. Non bisogna dunque amare le creature? Sì, certo, ma di un amore soprannaturale, ossia subordinato e orientato all’amore di Dio. Da ciò il lungo e irto cammino di spoliazione da tutto l’amore umano, egoistico, sensuale. La spiritualità del Nostro è tutta atta a questo processo di purificazione interiore, intima, profonda, tesa a radicare i sensi e le facoltà dell’anima in un profondo silenzio: silenzio di ogni esigenza, di ogni desiderio, per riporre ogni brama unicamente in Dio. Giungere alla fede nuda, dove è riposto l’amore più sicuro: quello privo di ogni personale vantaggio, consolazione, tornaconto. Dio solo, per Dio solo. È un cammino, allora, segnato dalla croce, dalla sofferenza cristiana, che deve spogliare, levigare, per trasfigurare e divinizzare l’anima. È lo stesso cammino di Gesù: la via della croce per giungere dalla Croce alla Luce. L’anima del tutto spoglia di se stessa non può non essere rivestita interamente di Dio. In questo dolore che purifica e avvicina a Dio, il santo (ogni santo) trova per questo una gioia arcana: quella di avvicinarsi sempre più all’Amore infinito. 

Comprendiamo allora qualcosa in più di quel particolare amore di san Giovanni nei confronti del silenzio; silenzio esteriore nel quale egli operava il silenzio interiore dei sensi, perché la sua anima s’inabissasse, nel raccoglimento più profondo, in Dio. 

Il silenzio di una notte profonda

Questa spiritualità tesa a condurre alla più alta mistica le anime non poteva restare mera teoria, ma doveva trovare nel suo ispiratore una concretezza pratica che ne dimostrasse il talento altamente santificante.

È facile comprendere come tale Riforma indispettì i Carmelitani cosiddetti Mitigati. Essi, probabilmente, credevano di stare nel giusto e vedevano nei Riformati un’esagerazione e uno squilibrio che li disturbava. Sorsero così lotte tra le due fazioni e la vittima dei Mitigati non poté non essere colui che fu l’iniziatore di quella antipatica Riforma: san Giovanni della Croce. 

La notte tra il 3 e il 4 dicembre 1577 il padre Maldonado, dei Mitigati, giunse al monastero dell’Incarnazione, si avventò sul Santo e lo prese con la forza: era un ribelle e come tale doveva essere trattato. Lo condusse con sé a Toledo, lo sottoposero al Capitolo generale per ingiungergli di abbandonare la Riforma. No, mai! San Giovanni non poteva abbandonare l’opera divina, compreso com’era che fosse Dio il reale autore di quella ispirazione. Fu dunque punito, condannato alla prigionia come ribelle e incorreggibile. 

Lo rinchiusero in un’angusta prigione, che nei monasteri di allora era prevista per simili casi. Si trattava di una cella di sei piedi di larghezza e dieci di lunghezza, priva di finestre, quindi di luce. Doveva accontentarsi del lievissimo lume che derivava da una fessura larga tre dita, posta in alto, su una parete che dava su un corridoio. Due assi gli facevano da letto e due mantelli vecchi da coperte. Lo nutrivano di un poco di pane e una sardina, o talvolta solo di mezza sardina e qualche avanzo di altro pesce. Spesso soffriva inevitabilmente la sete. Nei giorni stabiliti lo sottoponevano a flagellazioni in pubblico refettorio, sotto gli occhi dei frati. Ma dal Santo alcun lamento si udiva: sempre sereno, calmo, paziente nelle più crude sofferenze. Anzi, padre Giovanni ringraziava Dio di renderlo partecipe dei suoi supplizi e di evitargli un rigore maggiore, che egli riteneva di meritare per le sue “infedeltà”. Giovanni taceva. Imparava dal silenzio di Gesù nei tribunali ad amare tacendo. Tale condizione durò nove lunghi mesi, durante i quali gli fu negato persino di celebrare la Santa Messa e di ricevere la Comunione. Quale dolore per quel cuore di serafino, amante dell’Eucaristia, del divino Sacrificio... Anche Gesù gli si celava, negandogli ogni spirituale consolazione, abbandonandolo così nel silenzio di una notte profonda di dolore. Sperimentò la cattiveria umana, ma i suoi occhi trasfigurati dalla fede vedevano Dio nelle mani che lo percuotevano. Era lo stesso Gesù a porgergli la sua croce: poteva rifiutare?

Era il martirio del Riformatore, dal quale la Riforma doveva ricevere una sorta di “battesimo di sangue”, quale attestazione della sua autenticità. 

La salvezza

Dopo nove mesi il carceriere fu sostituito. Ne giunse un altro, molto buono che, impietosito dalle condizioni del prigioniero, cominciò di nascosto a concedergli qualche sollievo. Gli fornì una lanterna per recitare il divino Ufficio e un ago e del filo per accomodarsi le vesti ridotte a brandelli; gli permetteva di fare una passeggiata lungo il corridoio durante il riposo dei frati. Anche la notte interiore cominciava a rischiararsi, percependo nel suo intimo una particolare presenza di Maria Santissima che lo consolava e rinvigoriva, per quanto possibile. 

Durante la notte tra il 14 e il 15 agosto, solennità dell’Assunzione, ebbe una visione: la Madonna gli comparve circondata di angeli e gli disse: «Figlio mio! Abbi pazienza, le tue prove finiranno presto... Uscirai di prigione, dirai Messa, sarai consolato». Il giorno seguente una visione di Gesù che gli confermava quanto detto dalla Madre celeste. Poi di nuovo un’altra visione della Madonna lo istruiva per filo e per segno su come avrebbe dovuto attuare la sua fuga. Finalmente comprese esser giunto il momento. Il suo cuore fremeva, perché proprio quella notte c’erano dei frati ospiti che dormivano appena fuori dalla sua cella. Nel frattempo aveva creato una fune tagliando in piccole strisce i mantelli e cucendoli. Tolse dalla lanterna un grosso uncino, lo legò alla fune. Prima di rientrare in cella in seguito ad una delle sue passeggiate, aveva allentato i bulloni dell’entrata; poté dunque uscire quando i frati ospiti diedero segno di essersi addormentati e si condusse in punta di piedi verso una finestrella che la Madonna gli aveva indicato. Che una fune sì fatta potesse sostenerlo non fu che un miracolo. Ma miracolo più grande fu quello che seguì: uscito da quella finestrella si vide sospeso fra cielo e terra, cosa fare? Il Santo fece un eroico atto di fede, si gettò... doveva solo sfracellarsi... invece gli parve di cadere sopra un materasso di piume! Si guardò attorno, nel buio. Era all’interno del muro di cinta del monastero. Ancora prodigiosamente riuscì a scavalcarlo, ma non sapeva dove andare. Ravvivò la sua fede, si affidò alla Provvidenza. Dio non lo aveva abbandonato: comparve innanzi a lui una luce dalla quale udì queste parole: «Seguimi». Obbedì e si trovò fuori dalle mura; la luce scomparve. Dove andare? Camminò fino a raggiungere in città un palazzo del quale trovò il portone aperto e si rifugiò lì per quella notte. Il giorno seguente, vista una donna, le chiese dove fosse il monastero delle Carmelitane Scalze. Lo raggiunse, batté al portone. La buona monaca che lo accolse ne fu felicissima e avvisò la priora. Mentre si trovavano in parlatorio soggiunse un’altra suora che avvisava la madre priora delle condizioni ormai gravissime in cui versava una suora inferma: era moribonda e necessitava di un sacerdote. Un sacerdote? Subito fece entrare san Giovanni. Fatto davvero provvidenziale, poiché questo era l’unico caso in cui si poteva fare ingresso in clausura... Nel frattempo, infatti, i Mitigati avevano accusato la scomparsa del prigioniero. Dove poteva trovarsi se non al monastero delle Scalze? Subito vi si recarono. Fecero uno scompiglio inimmaginabile, cercarono in parlatorio, in sacrestia... nulla. Non supposero minimamente che potesse trovarsi in clausura, conoscendo l’austera fedeltà delle monache. Il Signore aveva provveduto come solo Lui sa fare! 

Il Mattutino con la Vergine

Trascorse del tempo, durante il quale si giunse alla sospirata divisione ufficialmente approvata dalla Santa Sede tra Mitigati e Riformati, sebbene ulteriori prove e croci amarissime proseguirono ad attestare la santità di padre Giovanni. Egli aveva raggiunto tali livelli di santità da amare follemente la croce, per amore di Colui che su di essa è morto per noi.

Alla fine della sua vita, molti dei suoi desideri erano stati esauditi; tra questi quello di essere un semplice suddito tra i frati, ossia di non ricoprire più ruoli di autorità. Nel 1591 fu posto dinanzi ad una scelta: in quale convento avrebbe voluto esser trasferito, a Baeza o ad Ubeda? A Baeza nulla gli sarebbe mancato; ad Ubeda, invece, era superiore uno di quelli che non avevano mai perdonato al Santo i suoi rimproveri. «L’anima cerchi sempre di inclinarsi: non al più facile, ma al più difficile; [...] non a quello che piace di più, ma a quello che piace di meno; non al riposo, ma alla fatica; non al conforto, ma a quello che non è conforto»... queste erano le sue massime e la scelta fu presto fatta: Ubeda sarebbe stata la sua comunità. 

Tutti, tranne il priore, lo accolsero tenerissimamente. Soffrì molto. Ammalato, consunto dalla febbre per un ascesso alla gamba, il superiore lo trattava malissimo, lo visitava con la grinta di un giudice, impediva che gli giungessero sollievi da fuori. San Giovanni non si lamentò mai, anzi, la sua carità lo spingeva a tutto scusare. 

Giunse l’ultima malattia. Il 7 dicembre dello stesso anno, vigilia dell’Immacolata Concezione, la Madonna gli apparve, annunciandogli prossima la morte. Il 14 dicembre, infermo a letto, continuamente chiedeva l’ora: sapeva che sarebbe andando a recitare Mattutino in Cielo. Sul letto di morte fece chiamare il suo superiore, volle chiedergli perdono per tutte le pene e i dolori procuratigli con la sua malattia, come se non fosse stato lui a subire tante sofferenze; poi soggiunse: «Prego Vostra Reverenza per amor di Dio, di volermi far l’elemosina di un abito col quale poter esser sepolto». Il priore non poté contenere la commozione. Anche quel cuore indurito fu conquistato a Dio dalla santità del figlio. 

Alle 22.00 sentì suonare le campane di Mattutino: «Io pure per divina bontà andrò a dirlo in Cielo, con la Vergine Santissima». Mezzanotte, le campane suonano ancora. «Che suona?», chiese. «Mattutino», gli risposero. «Vado a dirlo in Cielo», mormorò. Impresse un bacio sui piedi del Crocifisso che aveva fra le mani, gli occhi e la bocca si chiusero serenamente, senza agonia. Rese dolcemente l’anima a Dio. Era il 14 dicembre 1591, aveva 49 anni. 

Oggi continua ad intercede per quanti si affidano a lui. I santi sono i nostri più preziosi benefattori.

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