SPIRITUALITÀ
Il Tuo avvento, o Signore, nel silenzio!
dal Numero 44 del 28 novembre 2021
del Beato Maria Eugenio di Gesù Bambino

Il Signore che noi desideriamo e attendiamo in questo Avvento, non è altrove: nei colloqui, negli incontri, nell’attività. È in noi, e aspetta silenzioso la nostra attenzione. Alla scuola di celebri “dottori”, maestri del divino, un carmelitano dotto e santo ci spiega la “legge spirituale del silenzio”. Se sapremo sottometterci ad essa, la nostra attesa non sarà delusa.

Ogni azione che richieda un serio impegno delle nostre facoltà suppone sia il raccoglimento che il silenzio, che lo rende possibile. Lo studioso ha bisogno di silenzio per elaborare i suoi esperimenti, per rilevarne con cura le condizioni e i risultati. Il filosofo si raccoglie nella solitudine per ordinare e decifrare i suoi pensieri. 

Questo silenzio, avidamente cercato da colui che pensa per dare alla riflessione tutte le sue energie intellettuali, è ancor più necessario all’uomo spirituale per applicarsi nella ricerca del suo oggetto divino. 

Nel discorso della montagna, Gesù ci ha parlato della necessità della solitudine per pregare: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). 

La preghiera contemplativa esige in maniera particolare silenzio e solitudine. La sapienza divina, nella contemplazione, non illumina solo l’intelligenza, ma agisce su tutta la persona, pertanto esige un orientamento dell’essere, un raccoglimento e una pacificazione di quanto c’è di più profondo, perché essa possa ricevere l’azione dei suoi raggi trasformanti. 

San Giovanni della Croce, in una formula acuta che non può fare a meno di risvegliare echi profondi in ogni anima contemplativa, ha così espresso tale esigenza: «Il Padre pronunciò una parola: suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio, e nel silenzio dev’essere ascoltata dall’anima». 

«Dio vede nel segreto» aveva detto Nostro Signore. San Giovanni della Croce aggiunge che Dio realizza le sue operazioni divine nel silenzio. Il silenzio è la legge propria delle più alte operazioni divine: la generazione eterna del Verbo e la creazione, nel tempo, della grazia che è partecipazione del Verbo. Tale legge divina ci sorprende perché contraria alla nostra esperienza delle leggi naturali del mondo! Quaggiù, ogni trasformazione profonda, ogni cambiamento esteriore produce una certa confusione e si realizza nel rumore. Il fiume può raggiungere l’oceano, che è la sua meta, solo grazie al movimento dell’acqua che corre con grande rumore. Nella Trinità Santa la generazione del Verbo, splendore del Padre che si espande perfettamente in questa limpida e luminosa effusione che è il Figlio, la processione dello Spirito Santo, questa spirazione comune del Padre e del Figlio in torrenti infiniti di amore che costituiscono la terza Persona, si realizzano nel silenzio e nella pace dell’immutabilità divina, in un eterno presente che non conosce sviluppo nel tempo. Nessun movimento, nessun cambiamento, nessun soffio leggero indica al mondo, e ai sensi più raffinati delle creature, questo ritmo della vita trinitaria, la cui potenza e i cui effetti sono infiniti. Dinanzi a tale immobilità e a tale silenzio eterni, che nascondono il segreto della vita intima di Dio, il salmista esclama: «Tu autem idem Ipse es» (Ma tu, o mio Dio, resti lo stessoSal 101 [102], 28), mentre il mondo cambia aspetto continuamente. 

Dovremo attendere la visione faccia a faccia per entrare perfettamente nella pace dell’immutabilità divina. Tuttavia, già da quaggiù, la partecipazione alla vita divina per mezzo della grazia ci sottomette alla legge del silenzio divino. È nel silenzio, aggiunge san Giovanni della Croce, che il Verbo divino, che è la grazia in noi, si fa sentire ed è accolto. 

Il Battesimo opera una meravigliosa creazione nell’anima del bambino. A questi viene data una nuova vita che gli permetterà di compiere atti divini da figlio di Dio. Abbiamo udito la parola del sacerdote: «Io ti battezzo...», abbiamo visto l’acqua bagnare la fronte del bambino, ma della creazione della grazia, che esige l’azione personale onnipotente di Dio, non abbiamo percepito nulla. Dio nel silenzio ha pronunziato la sua parola nell’anima. 

Gli sviluppi successivi della grazia si compiono di solito nella stessa oscurità silenziosa. Quando, in certe visite divine, l’oscurità si trasforma in penombra, l’anima trova sempre, tra le ricchezze che scopre e assapora, un’esperienza di questo silenzio divino. I passaggi di Dio sono sempre preceduti dal raccoglimento passivo che rende vigili le facoltà. Si compiono nel silenzio e l’ultima impressione è un gusto di pace e di silenzio. 

Ma lasciamo alla poesia di san Giovanni della Croce l’impegno di descrivere tale esperienza: 

«L’Amato, le montagne, 

le boschive valli solitarie, 

le isole inesplorate, 

i fiumi gorgoglianti, 

il sibilo dei venti innamorati, 

la quiete della notte 

vicina allo spuntar dell’aurora, 

musica silenziosa, 

solitudine sonora, 

cena che ristora e innamora» 

(Cantico, strofe XIII e XIV). 

 

In questa ricchezza e varietà di simboli, cosa cercare se non la traduzione musicale dell’unzione spirituale e del silenzio soave nel quale il tocco di Dio ha immerso l’anima? Per lo spirituale che ha gustato Dio, silenzio e Dio sembrano identificarsi. Dio, infatti, parla nel silenzio e solo il silenzio sembra poterlo esprimere. Così, per trovarlo, dove potrebbe cercare Dio l’uomo spirituale se non nelle profondità più silenziose di se stesso, in quelle regioni così nascoste che nulla può più turbarle? 

Quando vi è giunto, custodisce con cura gelosa il silenzio nel quale lo trova. Lo difende contro ogni agitazione, anche delle proprie potenze. Con san Giovanni della Croce esclama: 

«O ninfe di Giudea! 

Intanto che tra i fiori e nei roseti 

l’ambra i suoi aromi emana, 

nei sobborghi restate, 

toccar le nostre soglie non vogliate»

(strofa XXXI) 

 

Poiché le potenze sensitive rumorose sono mantenute all’esterno, nel loro ambito, l’anima supplica Dio di non far discendere su di esse le grazie e le luci che Egli diffonde, affinché queste comunicazioni non siano deformate da un tale contatto e non facciano uscire le potenze interiori dal loro silenzio: 

«Nasconditi, Diletto, 

il tuo viso volgi alle montagne, 

non cercar di parlare» 

 

È proprio questo movimento dell’anima verso le profondità silenziose, per custodirvi gelosamente la purezza del suo contatto con Dio, che il Dottore mistico descrive in tali strofe. Questo desiderio di silenzio si ritrova in tutti i mistici. Si può forse credere che qualcuno tocchi Dio se non l’ha trovato in lui? Tutti i maestri ne hanno affermato l’esigenza, ciascuno nel suo linguaggio simbolico particolare. 

Santa Teresa distingue sette Mansioni successive e nella settima, la più intima, si realizza per lei l’unione profonda. Taulero ci fa notare questo desiderio fondamentale, più profondo delle facoltà attive. Ruusbroec e sant’Angela da Foligno parlano di altezza e di profondità, di duplice abisso, che si generano a vicenda. San Giovanni della Croce, dopo aver fatto osservare che l’anima non ha né alto né basso, ci dice che «il più profondo centro» dell’anima, là dove sboccia la gioia dello Spirito Santo, il limite al quale l’anima può giungere, è Dio al centro di se stessa. 

Non so se l’agiografia ci riveli un’esperienza più pura ed esigenze più profonde di silenzio di quelle che ci mostra la visione dell’Oreb del profeta Elia. Cercando di sfuggire alla collera di Gezabele e sostenuto dal pane dell’angelo, il Profeta aveva camminato per quaranta giorni nel deserto ed era giunto all’Oreb, il monte di Dio per eccellenza, sul quale Jhwh si era manifestato diverse volte a Mosè. E gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna (cf. 1Re 19,11-15). 

Sono le teofanie sinaitiche, di cui Mosè era stato testimone, che si ripetono dinanzi a Elia sullo stesso monte: il vento forte che spezza le rocce, il terremoto che scuote la terra, il fuoco che accende il cielo e l’anima del profeta. Elia non si meraviglia. Dio gli ha annunziato che stava per passare. Quelle visite rumorose ed esteriori non bastano alla sua anima purificata, avida di un divino più puro e più profondo di quello che scuote i sensi rivestendosi di forme esterne e sensibili. Il Signore che egli desidera e attende non è nel vento, nemmeno nel terremoto e neanche nel fuoco, che simboleggia così bene il Dio degli eserciti e la grazia del profeta che si levò come una fiamma e la cui parola bruciava come una torcia. 

Ma ecco la brezza leggera. Il profeta Elia, dalla rudezza esteriore spesso violenta, ma dall’animo così elevato e così delicato, dallo sguardo di fede penetrante e purificato, nasconde il volto sotto il mantello per raccogliersi. La sua attesa non è affatto delusa. Dio è passato e si è manifestato con la grandezza e la purezza che egli desiderava. Occorre ascoltare san Giovanni della Croce, esperto del divino, commentare questa percezione di Dio, per conoscerne la natura: «Ecco perché le conoscenze che Dio comunica all’anima attraverso l’udito interiore sono molto elevate e sicure. Per questo san Paolo, volendo farci comprendere la sublimità della sua rivelazione, non disse: Vidit arcana verba, e nemmeno: Gustavit arcana verba, ma: Audivit arcana verba, quae non licet homini loqur cioè: «Udii parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare» (2Cor 12,4). Da questo si può arguire che anche lui, come il nostro padre Elia, abbia visto Dio nel soffio del vento. Perché come la fede, insegna ancora san Paolo (cf. Rm 10,17) ci giunge attraverso l’udito fisico, così pure quanto ci dice la fede, cioè la sostanza stessa della verità, ci giunge attraverso l’udito spirituale (Cantico, strofe XIII-XIV, 15). 

Immensamente al di sopra di ogni esperienza profetica bisogna porre quella del Cristo Gesù, in cui la natura umana era ipostaticamente unita alla natura divina e ne godeva per mezzo della visione beatifica. Come non avrebbe potuto provare il costante bisogno di rifugiarsi nel silenzio, che gli permetteva di abbandonarsi unicamente alla presa di possesso del Verbo e ai fiotti della sua unzione che scorrevano in Lui silenziosamente? Il ritiro di quasi trent’anni a Nazareth, il soggiorno nel deserto per quaranta giorni prima della vita pubblica come per accumulare riserve di silenzio, i ritorni frequenti alla solitudine, nella calma della notte, come per rinnovarle, si spiegano molto di più per questo bisogno fondamentale, per questo peso di Dio che lo trascina in quelle regioni in cui Egli vive e si dona, che per un bisogno di luce o di forza per compiere la sua missione. 

Assetata di Dio perché anch’ella l’aveva già trovato, santa Teresa era, allo stesso modo, avida di silenzio. La fondazione del monastero di San Giuseppe d’Avila, il primo della sua Riforma, nasce da questo bisogno. Nel monastero dell’Incarnazione la carenza di clausura, il gran numero di religiose, la Regola mitigata avevano ucciso il silenzio, di cui Teresa e il Cristo Gesù avevano bisogno per coltivare la loro intimità e unirsi perfettamente. Teresa lascerà, dunque, il monastero nel quale è vissuta per quasi trent’anni solo per ritrovare l’ideale primitivo del Carmelo e l’osservanza perfetta della sua Regola. Il Carmelo ha origine nel deserto e ne conserva non tanto la nostalgia, quanto un bisogno reale per vivere e realizzarsi. Santa Teresa si proclama appartenente alla stirpe di quegli eremiti che abitavano il santo monte e di cui sant’Alberto, patriarca di Gerusalemme, aveva codificato la vita monastica in una Regola fondata sul silenzio. 

Per rivivere questo ideale primitivo, santa Teresa creerà il deserto pur collocandolo al centro delle città. Ecco l’idea guida che presiede all’organizzazione del monastero di San Giuseppe d’Avila, il trionfo del genio pratico della Santa. Il monastero sarà povero, così si eviteranno visite perché non si vive volentieri con i poveri e la clausura vi sarà rigorosa. Non si lavorerà insieme, ma ogni religiosa avrà la sua cella. Il recinto sarà grande e vi si costruiranno romitaggi dove, in certe occasioni, sarà possibile trovare maggiore solitudine. Questi conventi saranno il paradiso dell’intimità divina, dove il Cristo Gesù verrà a riposarsi nel silenzio, accanto ai suoi. Nei suoi viaggi la Santa conserva la stessa attenzione al silenzio, perché l’atmosfera resti divina attorno a lei e alle sue figlie. 

Nel nostro secolo il contemplativo sogna, con un po’ di malinconia, l’epoca in cui santa Teresa, viaggiando attraverso le campagne deserte, sentiva il bisogno di avere le sue ore di raccoglimento e chiedeva ai conducenti di rispettarle. Noi viviamo nella febbre del movimento e dell’attività. Il male non è solo nell’organizzazione della vita moderna, nella fretta che essa impone ai nostri gesti, nella rapidità e facilità che assicura ai nostri spostamenti. Un male più profondo si trova nella febbre e nella irrequietezza dei temperamenti. Non si sa più attendere né essere silenziosi. E tuttavia, sembra che si cerchino il silenzio e la solitudine; si lascia l’ambiente familiare in cerca di nuovi orizzonti, di un’altra atmosfera. Più spesso è per distrarsi con nuove sensazioni.

In qualunque modo cambino i tempi, Dio rimane lo stesso, Tu autem idem Ipse es, nel silenzio pronuncia il suo Verbo e nel silenzio l’anima deve riceverlo. La legge del silenzio s’impone a noi come a santa Teresa. La febbre e l’irrequietezza del mondo moderno la rendono ancora più necessaria e ci obbligano ad uno sforzo maggiore per rispettarla e sottometterci ad essa.   

 

tratto da: Voglio vedere Dio

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