Le parole della Santissima Vergine – «tuo padre ed io angosciati ti cercavamo» – esprimono il gemito del suo cuore nello smarrimento di Gesù al Tempio, ma svelano anche tutta la verità d’una paternità, quella di san Giuseppe, radicata nella casta sponsalità con Lei. Con l’arte di centellinare le parole del Vangelo, il servo di Dio Pier Carlo Landucci ci conduce nell’intimo e straordinario mistero della Sacra Famiglia.
Aveva san Giuseppe un vero cuore di padre per Gesù, in modo cioè da potersi dire, in un certo senso, quanto alle interiori morali disposizioni, vero padre suo? Poiché un conto è avere un cuore come di Padre, un conto è averlo veramente di padre. Questo, vedremo, ebbe san Giuseppe.
Sublime paternità
Il fatto che Giuseppe non abbia avuto alcuna parte naturale nella nascita di Gesù, concepito per opera di Spirito Santo, lo rende come è ovvio, non padre vero nel senso fisico, ma putativo, per cui di Gesù è detto: «Figlio, come si riteneva [ut putabatur], di Giuseppe» (Lc 3,23). Con ciò la vera natura di questa paternità e le disposizioni interiori morali non sono sufficientemente precisate, limitandosi tale parola a indicare, in modo negativo, che la fisica paternità attribuitagli dal popolo era una semplice apparenza.
Ma, più positivamente, se fisica non era, cosa era? Saremmo desiderosi innanzitutto di sapere se Gesù lo chiamava, nella intimità familiare – quando cioè non vi era obbligato per salvare le apparenze di fronte al popolo – con l’appellativo di «padre». La consacrazione di tal nome sulla bocca del divin Salvatore ne eleverebbe indubbiamente il valore, suggerendo il pensiero d’una paternità benché non fisica, assai profonda.
Pare proprio di sì, se riflettiamo alle parole della Beatissima Vergine, dopo il ritrovamento: «Tuo padre ed io...». È infatti presumibile che Ella abbia detto tali parole in disparte, dato il mistero che miravano a indagare e per evitare pubblicità. Perciò anziché derivare dalla preoccupazione di non turbare intempestivamente l’opinione comune sulla paternità di Gesù, dovevano riflettere l’uso intimo della Sacra Famiglia e indicare quindi l’appellativo abituale di Giuseppe sulle labbra stesse del Salvatore. L’occasione medesima in cui tali parole furono pronunciate da Maria, come argomento valorizzativo dell’accorato lamento, suggeriva inoltre la più grande esattezza nella scelta dell’appellativo di Giuseppe, affinché l’argomento stesso non risultasse infondato o almeno tarato da un vizio di amplificazione, non presumibile sulle labbra sapientissime di Maria. Lo stesso mettere sulla medesima linea quel «padre» e quell’«io» – essendo Lei vera madre, nel senso più completo del termine – aggiunge valore alla parola padre. E ancor più ne aggiunge il fatto che nella immediata risposta Gesù, pur senza fare eccezione o precisare in alcun modo la parola stessa usata dalla Madre sua, la usa a sua volta come Dio nei riguardi del Padre Celeste – «io debbo essere (occupato) delle cose del padre mio» – allineando così, in qualche modo, le due paternità del Cielo e della terra.
La letterale traduzione del greco di san Luca, accentua il parallelo con l’espressione di Maria (con l’articolo determinativo e il possessivo dopo). Ella disse: «Il padre tuo ed io...». Quell’articolo determinato per indicare il padre Giuseppe di chi pur aveva, come unico padre, il Padre Celeste, colpisce. Lo stesso si nota nelle parole descrittive dell’Evangelista (cf. Lc 2,33) cui subito accennerò, che secondo il greco portano: «Era il padre suo e la madre...».
Tali rilievi preliminari sull’alto significato dell’appellativo di «padre» per san Giuseppe, hanno non trascurabile conferma nell’uso dello stesso Evangelista, anche prescindendo da «il figlio di Giuseppe» (Lc 4,22) che egli raccoglie dalle labbra dei Nazaretani, e dalle eguali espressioni riportate da san Giovanni (cf. Gv 1,45; 6,42) che si riferiscono propriamente all’uso degli altri. Egli infatti, pur avendoci ben chiaramente riferiti il concepimento miracoloso di Gesù Benedetto e aver ripetuto esplicitamente nella genealogia: «Come si riteneva», poi senza discriminazione alcuna associa strettamente, come ordinari appellativi di Maria e di Giuseppe, i nomi di padre e di madre: «Il padre e la madre di Gesù si stupivano...» (Lc 2,33). «I suoi genitori si recavano ogni anno...» (Lc 2,41).
Difatti egli non era soltanto padre nutrizio, nel senso ristretto del termine, che comporterebbe soltanto il mantenimento d’un giovanetto, il quale potrebbe magari vivere lontano dal suo benefattore. Nemmeno era semplicemente padre adottivo, come potrebbe essere chi prende legalmente per figlio un ragazzo qualunque, figlio di altro padre e non legato a lui da nessun titolo antecedente. Egli aveva una paternità putativa che doveva bensì chiamarsi legale – per distinguersi nettamente da quella naturale – ma che era del tutto «sui generis», anzi assolutamente unica. Essa era infatti fondata sull’anteriore legame matrimoniale con Maria, Vergine e Madre, il che ha permesso a san Matteo di tessere egregiamente la genealogia legale di Gesù, attraverso san Giuseppe, nominandolo, con particolare esattezza di termini: «Lo sposo [in greco tòv ándra] di Maria, dalla quale nacque Gesù, detto Cristo» (Mt 1,16). Gesù apparteneva a Giuseppe perché a lui apparteneva, quale sposa, Maria, da cui nacque verginalmente il Figlio divino. In corrispondenza della maternità verginale di Maria, si ha una paternità verginale di Giuseppe. Il titolo più preciso di questi, rispetto a Gesù, è dunque padre virgineo. Se «padre», il figlio da sposa; se «vergine», da sposa vergine.
A questa sublime funzione paterna verso il Figlio di Dio incarnato, corrisponde il significato stesso etimologico del nome, non certo a caso attribuito a chi era stato «ab aeterno» destinato a tale missione. A differenza del nome di Maria, quello di Giuseppe ha una etimologia certa, derivando dal verbo «jasaf» che significa: «accrescere». Il libro della Genesi narra esplicitamente (cf. Gen 30,24) la ragione per cui fu chiamato così da Rachele, fino allora sterile, il figlio che ella ebbe da Giacobbe. Fu un grido e una aspirazione esultante di ulteriore fecondità: «Mi accresca Iddio un altro figliolo». «Giuseppe» vuol dire cioè richiesta e fiduciosa attesa di copiosa vita dall’alto. E il padre legale di Gesù lo è veramente perché alla sua ombra tutelare, piovvero i Cieli, si aprì la terra, germinò il Salvatore (Is 45,8): e sarà lui a difenderne e a coltivarne la vita. Né ad alcuno possono sfuggire le significative corrispondenze tipicologiche col grande primo Giuseppe.
Cuore di padre
Qui l’analisi deve divenire più accurata per penetrare tutta la singolarità di questa situazione familiare, e comprendere un poco il cuore veramente di padre di san Giuseppe. La singolarità sta tutta nel divino adombramento della Vergine Santissima per opera dello Spirito Santo, in ordine alla sua maternità e nell’esclusione quindi di ogni concorso paterno naturale. È precisamente da tale esclusione, che deriva la speciale e sorprendente pienezza paterna di san Giuseppe e la speciale nobiltà di tale paternità: non solo non minore, ma trascendente anzi a dismisura, sia quanto all’oggetto – Gesù – sia quanto al modo – l’azione divina – ogni altra paternità naturale. Non bisogna dimenticare infatti che i vincoli di sangue che legano i figli ai genitori, non avrebbero alcun contenuto specificamente umano, né alcuna vera nobiltà, né alcuna forza psicologica e giuridica, senza l’elemento morale indissolubilmente collegato, almeno in radice, alla persona umana. La prole è il frutto propriamente non dei sensi ma dell’amore degli sposi, ai quali i sensi permettono una integrità di espansione e donazione reciproca, adeguata al piano di nature insieme razionali e corporee. E Iddio stesso interviene, con un atto di amore creativo, infondendo l’anima. Il livello d’una paternità è dunque commensurato all’amore.
Ora all’altezza del candore immacolato e della grazia di Maria – a cui corrispondeva, proporzionatamente, quella del castissimo sposo Giuseppe – l’amore reciproco, sublimemente soprannaturale, si espandeva con la castità perfetta non discendendo ai sensi, ma elevandosi in Dio; si accendeva non d’una fumigante fiamma terrena, ma d’una tersissima luce celeste. Tale purissima unione non poteva avere, per sé, che una fecondità puramente spirituale, per quanto altissima, come si legge di altre unioni di sposi santi. Ma la onnipotenza stessa di Dio – «la potenza dell’Altissimo» (Lc 1,35) – discese, come nel suo sacrario, in Maria, non a infondere soltanto un’anima – come nelle comuni nascite – ma a operare interamente il concepimento del Verbo eterno incarnato. Quell’amore purissimo fu con ciò coronato da una fecondità divina: più alto fu l’amore, più alto ne fu il frutto.
Che mancava dunque al castissimo Giuseppe per sentire nel cuore i più teneri palpiti veramente paterni per il divin frutto della immacolata sua Sposa? L’amore di sposo era il più sublime e, per il riposo dei sensi, acquistava il più puro splendore. La mancanza poi d’un attivo concorso fisico in ordine alla prole, non avendo lasciato il posto all’azione d’un’altra creatura, ma all’azione stessa diretta di Dio, non faceva che impreziosire a dismisura il frutto della sua immacolata Sposa e renderlo immensamente più amabile al suo infiammato cuore. Fu più altamente e amorosamente padre, perché virgineo padre (1).
Preparazione di grazia
Ma quale uomo poteva avere un cuore adeguatamente paterno per il Figlio di Dio? Solo un’effusione speciale di grazia poteva elevare così sublimemente l’animo suo. Come dunque lo Spirito Santo aveva perfettamente preparato Maria ad essere tenerissima Madre di Gesù, così, nel piano di quella «convenienza» che presiedeva a tutte le cose riguardanti moralmente la Sacra Famiglia, avrà preparato Giuseppe ad esser degno sposo di Lei e amoroso e illuminato padre di Gesù. E tale «convenienza» per Giuseppe veramente urgeva – giova ricordarlo ancora una volta – data la sublime grandezza degli altri due termini delle relazioni familiari, Gesù e Maria. Nell’ipotesi d’un Giuseppe moralmente povero o mediocre, incapace di comprendere Gesù e Maria, quale famiglia avrebbe potuto essere più stonata? Poiché sono proprio la comprensione e l’armonia reciproche che creano la bontà della famiglia e l’opposto che ne crea la miseria: peggio poi quando l’indegnità relativa riguarda il capo, da cui dipendono le decisioni della famiglia intera. È facile pensare quindi quanta grazia inondasse l’anima di lui per comprendere, adorare e amare la divina Persona di Gesù e quanta tenerezza per stringerla paternamente al cuore.
Nota
1) Dice sant’Agostino: «Non è assurdo affermare che colui che adotta un figlio lo ha generato non mediante la carne, ma mediante la carità». E che nel caso di Giuseppe, vale in modo sì trascendente, da potersi veramente dire: «Tanto firmiter pater quanto castius pater»: tanto più saldamente padre quanto più castamente padre (Sant’Agostino, PL 38, 351).
* tratto da: Maria Santissima nel Vangelo