SPIRITUALITÀ
L’uomo più felice dell’Unione Sovietica: Padre Placid Olofsson
dal Numero 31 del 2 agosto 2020
di Carlo Codega

Monaco benedettino, sacerdote, insegnante plurilaureato, eletto deputato in Parlamento... all’improvviso condannato a dieci anni di prigione e lavori forzati. Che senso poteva avere tutto questo? Il Codice penale sovietico non bastava a spiegargli la sua sorte, ma la fede sì. Una fede che lo avrebbe portato ad essere l’uomo più felice dell’Unione Sovietica.

Anche nella camera ardente i profondi solchi che scavavano il viso ormai centenario di padre Placid Olofsson non potevano nascondere quel sorriso che abitualmente trionfava sul suo svolto. Un sorriso, accompagnato da un umorismo contagioso, che il benedettino, negli ultimi venticinque anni della sua vita, aveva portato ovunque in Ungheria, tenendo conferenze e testimonianze in parrocchie, scuole e ovunque venisse chiamato. Un sorriso, però, frutto non di superficialità ma di profondità, non di leggera vanità ma di sforzo ascetico, un sorriso che non aveva acquistato in qualche luogo di divertimento ma nei campi di prigionia sovietici... un sorriso per cui poteva dirsi, proprio in mezzo alle sofferenze, alle umiliazioni e ai patimenti dei Gulag, “l’uomo più felice dell’Unione Sovietica”.

La giovinezza di padre Placid

Nonostante il cognome rivendichi una chiara origine scandinava, la famiglia Olofsson era ungherese da ormai diverse generazioni e, nella penultima precedente a padre Placid, aveva anche abbandonato il luteranesimo portato dalla Svezia, in favore del Cattolicesimo. In tal modo Károly, Carlo (questo il nome da secolare), nato nel 1916, poté avere la fortuna di crescere cattolicamente sia in famiglia che a scuola, dato che per una felice intuizione paterna, fu mandato a studiare nel liceo tenuto a Budapest dai benedettini di Pannonhalma, la celebre millenaria abbazia, faro di cultura e religiosità per tutto il popolo magiaro.

Studente intelligente, giovane di pietà, entusiasta boy-scout, a sedici anni e mezzo – al termine del liceo – Carlo scelse di entrare tra i benedettini di Pannonhalma. In realtà come lui stesso ammetteva «non volevo tanto essere monaco, quanto professore benedettino»: tale era stato l’entusiasmo suscitato in lui da quegli uomini di Dio e al contempo di scienza, che lo avevano educato per anni. Seppe ben presto comunque far conciliare il suo desiderio con la sua vocazione e lì dove non arrivò il suo sforzo, la mano paterna ma decisa di Dio intervenne a purificare e raddrizzare. Tutto nel quadro dell’insegnamento ricevuto da padre Francesco Saverio Szunyogh, suo professore, il quale aveva insegnato ai suoi studenti a leggere il vero significato del «sia fatta la tua volontà» – con cui quotidianamente ci rivolgiamo a Dio – nell’affermazione decisa di Gesù al termine della sua preghiera nell’Orto degli Ulivi: «Sia fatta la tua volontà», cioè la tua volontà salvifica, la tua volontà anche crocifiggente trionfi nella nostra vita.

I primi passi di padre Placid

E così a Pannonhalma Carlo diventò fratel Placid, e mentre il suo itinerario verso il Sacerdozio proseguiva a passi spediti, egli poteva conseguire anche lauree in teologia, lingua e letteratura tedesca (perfezionandosi a Monaco di Baviera) e filosofia, quest’ultima presa piuttosto per avere una scappatoia dall’insegnamento del tedesco, che non amava troppo. Nel 1939 fu ordinato sacerdote a Szombathely, ma purtroppo alla cerimonia non poté partecipare nessuno della sua famiglia: il padre era morto già da tre anni, la sorella da qualche anno era entrata in convento a Budapest (da qui poi si trasferirà a Vienna e a Pressbaum, durante il Comunismo), mentre alla madre fu impossibile un così lungo viaggio da sola.

Un giorno padre Placid si trovò a lamentarsi con un anziano benedettino, che tutto scorreva troppo tranquillamente nella sua vita. «Sii paziente, verranno le difficoltà», rispose il monaco. E infatti vennero sin dai primi anni di Sacerdozio... Cappellano militare a Komarom e poi professore a Sopron e Pàpa, padre Placid si trovò ad affrontare da novello sacerdote gli anni della guerra, in cui l’Ungheria era stata dapprima neutrale, per poi schierarsi con Hitler, e trovarsi dominata dalle violente “croci frecciate”, epigoni ungheresi del nazismo tedesco, con cui spesso i sacerdoti (e anche un vescovo come Mindszenty) si trovarono a scontrarsi. Ma nessuna di queste difficoltà fu paragonabile a ciò che successe dopo la guerra.

Formalmente paese libero e democratico, l’Ungheria si trovò a essere progressivamente fagocitata dal Comunismo, che stendeva i suoi tentacoli intorno allo Stato e alla società civile, con l’appoggio dell’esercito sovietico, scomodo e invadente “liberatore”. Nel 1945 padre Placid fu inviato dall’abate di Pannonhalma come insegnante nello stesso liceo in cui era stato educato e, al contempo, ottenne dal primate Szeredi l’incarico di consigliere e direttore spirituale delle “Suore di servizio sociale” di Margit Schlachta. Quest’ultima, donna e consacrata di ingegno e attività ineguagliabili, per le elezioni del 1946 aveva creato un partito di ispirazione cristiana, nelle cui fila anche padre Placid fu eletto. Fu questo per lui l’inizio della fine: accanto al francescano Szalesz Kiss e al neo primate Josef Mindszenty, le autorità comuniste riconobbero in padre Placid Olofsson uno dei bersagli da colpire. Con il pretesto di alcune sue conferenze sulla democrazia, i comunisti iniziarono una violenta campagna stampa. L’abate di Pannonhalma per salvarlo lo richiamò all’abbazia madre ma, dopo pochi mesi, nel giugno del 1946 la polizia segreta fece irruzione nel convento, arrestò padre Placid e lo condusse nel famigerato edificio di via Andrassy 60 a Budapest.
Interrogatori e prigionia

In quell’edificio che oggi è sede della “Terror haza” (Casa del terrore) – museo in cui si rievocano i tanti prigionieri politici passati per quelle stanze, durante il periodo nazista e soprattutto quello comunista – padre Placid trascorse tre settimane terribili. Non capì fin da subito la sua situazione, tanto che appena arrivato, di sera, chiese alla guardia se il mattino seguente avrebbe potuto celebrare la Santa Messa nella vicina basilica. In realtà quell’edificio che, secondo l’opinione pubblica, era una “casa di cura”, si rivelò un luogo di detenzione, torture inumane e pratiche abominevoli: con qualsiasi mezzo si voleva indurre i detenuti a “confessare le loro colpe”, cioè ad ammettere che la libera espressione delle loro opinioni o la loro attività perfettamente legale, in realtà fosse attività sovversiva contro lo Stato e contro la Nazione, oppure un altro tipo di crimine comune. L’intento era quello di ridicolizzare e criminalizzare la Chiesa Cattolica, al fine di sottrarle totalmente ogni attività sociale, politica, culturale ed educativa e, così, anche ogni influenza sulla società.

E da lì interminabili interrogatori, detenzione solitaria in celle umide senza letto e latrine, con i riflettori sempre puntati per ostacolare il sonno, violenze senza eguali. Gli andò bene, che a quell’epoca il celebre Peter Gabor – capo-torturatore, per così dire – non avesse ancora introdotto l’uso della droga per far confessare i detenuti... come successe poi al cardinal Mindszenty. I successivi furono mesi di peregrinazioni in varie prigioni a Budapest in via Marko, poi via Regina Vilma e successivamente in via Conti, passando così direttamente sotto la responsabilità dell’esercito russo. Mesi estenuanti e avvilenti, soprattutto psichicamente, in cui per ammissione dello stesso padre Placid, fu il Rosario a salvarlo dalla pazzia: nello stato d’impossibilità a meditare e riflettere profondamente, «la recita dell’Ave Maria aveva un certo effetto calmante. Affermo che rimasi in me, perché ogni giorno da solo pregai il Rosario».

La condanna

Proprio nella prigione di via Conti, però, le violenze e gli interrogatori più estenuanti coincisero con un’intuizione che avrebbe cambiato la vita a padre Placid. Tra le grinfie dell’esercito sovietico padre Placid incominciò a rimpiangere i trattamenti della polizia ungherese: gli interrogatori erano una continua serie di accuse violente e di botte implacabili, che spesso lo lasciavano tramortito e gli facevano perdere i sensi. Il suo corpo era pieno di percosse e di lividi, tra cui notò, mentre si lavava, alcuni inspiegabili amatomi a forma di ferro di cavallo... al successivo interrogatorio padre Placid fu in grado di spiegarli, dato che l’interprete ungherese portava proprio delle scarpe con un tacco di quella forma. «Sembra che quando perdevo i sensi, danzasse su di me». Per ironia della sorte diversi anni più tardi avrebbe incontrato quella stessa donna – una vistosa bionda ungherese con accento dei Carpazi – in un campo di concentramento: anche lei lo riconobbe, gli fece dei cenni e ammise di aver subito anch’essa una condanna a dieci anni di prigionia. Forse proprio da un evento come questo, padre Placid fu capace di elaborare una delle sue battute più riuscite: «Esistono tre tipi di cittadini sovietici. Quelli che sono in prigione, quelli che lo sono stati e quelli che lo saranno». Il processo avvenne comunque di lì a poco e il nostro Benedettino venne accusato di propaganda antibolscevica («d’altronde un sacerdote non può aspettare i carri armati sovietici con un mazzo di rose», commentò padre Placid), di cospirazione – ma l’accusa cadde per mancanza di prove – e di terrorismo. Per quest’ultima il tribunale valutò una dichiarazione di padre Placid durante gli interrogatori. In uno di questi gli fu domandato quale fosse la sua opinione sull’uccisione appena avvenuta di un soldato russo, al che il religioso rispose: «Non è questo il sistema di combattere il Comunismo». Applicando il sospetto sistematico sovietico, tale affermazione venne interpretata nel senso che per combattere il Comunismo non bastava l’uccisione di un soldato ma era necessario un eccidio di massa di soldati sovietici. D’altronde poco si poteva fare di fronte a un tribunale che applicava a un cittadino ungherese la legge penale sovietica – nemmeno in vigore in Ungheria – e che, per ammissione dello stesso presidente del tribunale, non aveva nulla da rimproverare a padre Placid per essere stato cappellano militare dell’esercito ungherese ai tempi della collaborazione con Hitler: «Noi non abbiamo problemi con coloro che allora erano crocifrecciate (cioè nazisti) e ora comunisti, ma con coloro che allora non erano crocifrecciate e adesso non sono comunisti»... dunque era proprio con padre Placid che ce l’avevano, il quale aveva avuto problemi con gli uni ed ora li aveva con gli altri!

L’uomo più felice dell’Unione Sovietica


Fatto sta che padre Olofsson considerò tutto sommato un privilegio l’essere condannato a dieci anni di lavori forzati, anziché alla pena di morte. Mentre veniva portato via – pubblicamente sulle strade come si addiceva ai condannati politici – vicino a casa gettò un pezzo di cartone con un messaggio per la madre («Sono stato condannato a dieci anni. Placid»...) messaggio che miracolosamente arrivò a destinazione. Ma il problema di padre Placid era un altro: nella prigione rifletteva sulla sua vita. Monaco benedettino insegnante, plurilaureato, eletto deputato in parlamento... e ora dieci anni di prigione e lavori forzati. Che senso aveva tutto questo? Bastavano i paragrafi 58, 2 e 11 del codice penale sovietico per spiegare la sua sorte? Certo che no, era la volontà di Dio, la volontà “salvifica” di Dio – come gli aveva insegnato padre Szunyogh – a volerlo lì. E ciò nella pratica lo scoprì già nella prigione di via Conti, in attesa del processo.

I carcerieri sovietici, dopo avergli strappato il suo abito religioso, lo costrinsero a pulire i w.c. – privilegio per il suo stato clericale – e, a volte, i corridoi antistanti le celle dei condannati a morte, sempre accompagnato da una guardia. Un giorno la guardia iniziò a canticchiare qualche canto sovietico, e padre Placid, dopo un paio di volte, pensò che se la guardia cantava anche lui poteva allora cantare... e in effetti la guardia non fu per nulla disturbata da quei canti ungheresi che il prigioniero cominciò a portare alle labbra. Quando il benedettino comprese che la guardia non capiva nulla di ungherese, allora incominciò a sostituire alle parole dei canti altre parole, per provare a comunicare con i prigionieri dietro le porte, cioè i condannati a morte, tra cui c’erano molti ungheresi. A un certo punto, per ispirazione dello Spirito Santo, incominciò – seguendo le note di una canzone popolare – ad annunciare che lui era un sacerdote cattolico e che se qualcuno avesse voluto confessarsi, bastava che dicesse ad alta voce i suoi peccati e gli avrebbe dato l’assoluzione. Ben poco comprese la guardia di questi scambi tra i prigionieri ungheresi, e forse ancor meno comprese la formula di assoluzione latina, canticchiata sulla melodia di qualche canzonetta popolare.

Non sappiamo quanti abbia potuto confessare in tal modo, ma sappiamo quello che gli raccontò qualche mese più tardi uno dei condannati a morte che stava dietro a quelle porte. Mentre a Sopronkohida i 1.300 prigionieri, completamente nudi, aspettavano la disinfezione, un giovane uomo si avvicinò a padre Placid, domandandogli: «Eri tu a cantare nel corridoio nella prigione di via Conti?». «Ero io». «Non sai cosa abbia significato per noi nella camera della morte. Quando ascoltammo il tuo canto, ci guardammo e incominciammo a sussurrarci l’un l’altro quanto sia meraviglioso il Signore! Se non sappiamo pacificarci con la nostra sorte, e se non sappiamo far pace con i farabutti carcerieri armati, allora almeno troviamo pace con Dio. Da quel momento cambiò l’atmosfera nella camera della morte». La confessione di quel prigioniero aprì gli occhi di padre Placid sulla sua vera missione salvifica: «Non insegnerò agli studenti, come avevo progettato. Il mio lavoro sarà di sostenere gli animi dei miei compagni di prigionia. Questa fu la mia vocazione per dieci anni nel lager. Per questo ero l’uomo più felice dell’intera Unione Sovietica, perché avevo scoperto lo scopo della mia vita».

La volontà di Dio

Padre Placid fu solo uno tra i 3 milioni e mezzo di prigionieri in uno dei 16.000 gulag in cui morivano circa l’80% dei detenuti – secondo la statistica ufficiale del 1952 comunicatagli dal direttore dell’ufficio statistico, anch’egli condannato – ma, in realtà, completamente speciali furono i 10 anni passati lì, perché migliaia di prigionieri devono a lui la sopravvivenza. Non tanto perché li abbia aiutati fisicamente ma piuttosto – il che è molto più importante – perché diede loro un motivo per affrontare tutta quella sofferenza. In primo luogo padre Placid comprese come la presenza di un sacerdote in mezzo a quell’inferno di dolore avesse un senso profondo, quello di portare le anime in Paradiso. È vero che tanti erano i sacerdoti internati, ma è anche vero che non tutti seppero comprendere il senso della loro presenza lì... peraltro le guardie stesse – abituate all’austerità dei barbuti pope orientali – non sapevano spiegarsi quel sacerdote cattolico sempre sorridente e così vicino agli altri, così benevolente e benvoluto.

Il compito di padre Placid non fu semplice, soprattutto perché l’astuzia sovietica arrivò anche a far sì che i circa 50.000 prigionieri che si trovavano nel medesimo distretto in Moldavia cambiassero spesso posto e residenza in uno dei 36 lager di quella zona, affinché non stringessero rapporti umani troppo stretti tra di loro.

Molti sono gli episodi e i particolari che lo stesso padre Placid raccontò ma forse niente è più commovente della sua vita sacerdotale trascorsa nei gulag, con le molte fatiche e sofferenze affrontate per celebrare la Santa Messa. I primi due anni di detenzione non riuscì a offrire il Santo Sacrificio: oltre all’impossibilità di trovare un posto e un momento adeguato, gli mancava tutto il necessario e, soprattutto, il pane e il vino. I 400 grammi di pane che ricevevano i detenuti erano infatti non di grano ma di soia, inutilizzabili per la Santa Messa. Il vino era ancora più introvabile, dato che al massimo si sarebbe potuto procurare un po’ di vodka dalle guardie. Ma la Provvidenza piano piano gli venne incontro in modo che per i restanti otto anni poté ogni giorno (o meglio ogni notte) celebrare la Santa Messa. Un prigioniero ucraino gli procurò una tovaglia, e padre Placid aveva cura che fosse la cosa più pulita in quel sordido gulag. Un giovane fedele protestante ungherese, lavorando di nascosto, gli fece un crocifisso di alluminio e una patena, levigando un disco di ferro trovato per terra. Un altro detenuto che lavorava nella fabbrica gli tornì un perfetto calice di metallo. Mancava sempre però la cosa più importante: il pane e il vino. Per il secondo in un primo momento provò a scrivere alla madre perché gli mandasse uva secca – dalla quale si poteva ricavare succo d’uva utile per la Messa – ma la madre non comprese quella strana richiesta. Così si rivolse piuttosto ai compagni di prigionia caucasici, i quali sempre ricevevano diversi grappoli di uva secca, che dalle loro parti è un po’ l’alimento nazionale. Per il pane fu più complicato... per un po’ di tempo furono molto utili le “op?atek” che i lituani e i polacchi ricevevano per Natale, delle specie di ostie di farina di grano con cui sono soliti festeggiare la Natività del Signore spezzandole tra di loro come segno di comunione fraterna. Quando finirono però, la Provvidenza gli venne in aiuto in maniera ancor più sorprendente... padre Placid venne a sapere che un prigioniero non consumava la sua razione di pane. Si incuriosì e scoprì che era un ebreo osservante che nel periodo precedente lo Jom Kippur non poteva consumare pane lievitato, anche se di soia, ma in compenso riceveva dalla comunità israelitica di Mosca del pane azzimo. Con molta sfacciataggine padre Placid gli chiese se poteva avere anche lui due chili di pane azzimo dagli ebrei di Mosca... e così «un insegnante benedettino ungherese in un lager dell’Unione Sovietica con del pane azzimo degli ebrei moscoviti poté dire Messa. Questo è un miracolo di Dio».

Apostolato nel gulag

In tal modo ogni notte, tra le 2:00 e le 3:00, padre Placid poté celebrare il Santo Sacrificio della Messa, al buio, nel suo letto, tra le pulci e i pidocchi che infestavano quei letti sudici. Il Benedettino aveva scoperto che bevendo due bicchieri di acqua prima di coricarsi, era certo che a quell’ora si sarebbe svegliato, e, quando si metteva sul fianco per celebrare la Messa, sempre rimanendo sdraiato, anche i vicini di “letto” si svegliavano e pregavano con lui in silenzio. Negli ultimi anni di detenzione – dopo la morte di Stalin – la domenica, durante il cambio della guardia, incominciò a celebrare di giorno, con l’assistenza di molti fedeli. Cosa più straordinaria di quella Messa celebrata a letto è che col passare del tempo padre Placid non solo incominciò a comunicare i vicini, ma, prendendo coraggio, portava la Santa Comunione a chiunque la volesse nel gulag, conservandola in un piccolo contenitore di plastica ben ripulito.

A un certo punto la Provvidenza, in maniera insperata, lo aiutò ad ampliare il suo apostolato. Conobbe il dottore del lager, un ateo militante di lingua ungherese, condannato per qualche ragione e utilizzato in particolar modo per curare le donne che, pur con stretta separazione, si alternavano agli uomini nel lavoro nella fabbrica di vestiti. Questi si convertì e ricevette la Comunione il giorno di Natale, ma soprattutto desiderò che il Padre si incontrasse con una sua paziente, una monaca basiliana internata nel gulag, suor Maria. Essa organizzò con padre Placid le Confessioni delle donne del gulag bisognose di purificare la loro anima, mentre tramite il dottore, il Sacerdote poteva far giungere quotidianamente le sacre Particole alla sezione femminile del gulag, incartate in una confezione medica. Quando suor Maria venne trasferita a un altro lavoro, padre Placid, con la dovuta cautela, continuò a far pervenire le Ostie consacrate alla suora, inserendole in una busta che le faceva ricapitare tramite una prigioniera, che credeva si trattasse di lettere amorose. Dopo qualche mese tuttavia fu il turno di padre Placid a essere trasferito... questa volta le sue penitenti, senza alcuna paura, prima della sveglia si recarono al solito luogo delle Confessioni e, sfidando qualsiasi cautela, chiesero alla guardia di poter salutare quel prigioniero. Dopo la miracolosa concessione, seguì un’assoluzione generale, la consegna di un pacchetto di “medicine spirituali” più abbondanti del solito e, in cambio, il dono di un fazzoletto con le sue iniziali, cucito di notte dalle generose penitenti.

Miracoloso fu anche quello che avvenne la Pasqua del 1954: padre Placid e altri 20 compagni ungheresi si alzarono temerariamente prima della sveglia per celebrare la Messa pasquale nella “sala della cultura”, dove riuscirono ad allestire un degno e decorato altarino. Ma appena finito questo, due guardie irruppero nella sala: i prigionieri rischiavano grosso, in quanto quella non solo era una disobbedienza al regolamento, ma poteva persino essere considerata una cospirazione. Con la sua solita capacità d’improvvisazione, padre Placid subito accolse fraternamente le guardie con un «Krisztosz voszkresz!» (Cristo è risorto!), cioè il saluto che tutti i cristiani orientali si scambiano a Pasqua. Il più vecchio tra i due, con una lacrima di commozione, rispose: «Voisztinu voszkresz!» (È veramente risorto!), soggiungendo poi: «Dobbiamo continuare la sorveglianza, non cantate a voce troppo alta!». I prigionieri, nonostante ciò, si aspettavano una severa punizione, considerato anche che poche settimane dopo un pope ortodosso fu punito per aver celebrato la Messa pasquale da solo, ma in realtà nulla avvenne. Il miracolo fu persino occasione per la conversione di un compagno di prigionia: «Padre, saprebbe spiegare ciò se Dio non esistesse!», domandò al Benedettino. «Io già da tempo non so spiegarmi le cose senza Dio, ma non potrebbe esistere per me una gioia più grande di sentire che anche tu l’abbia ammesso».

Le regole della sopravvivenza

Non dobbiamo però immaginarci che tutto scorresse solo su questo piano soprannaturale nella vita da detenuto di padre Placid... Il Benedettino, effettivamente, in quell’inferno terrestre era, prima che un prete, un uomo che lottava per la propria sopravvivenza. In tali contesti infatti lottare e impegnarsi per la propria sopravvivenza – se fatto ordinatamente e non a scapito degli altri o dei Comandamenti di Dio – non è affatto opera di egoismo, bensì di carità verso se stessi. La genialità di padre Placid – anche a questo livello semplicemente umano e terreno – fu quella di saper coinvolgere i compagni di detenzione in questo sforzo di sopravvivenza, così da trasferire questo impegno dal piano personale a quello sociale... in ciò si manifestò soprattutto la sua vocazione a sollevare le anime dei compagni di prigionia. Da questo sforzo derivano le quattro regole di sopravvivenza elaborate da lui e dai compagni di detenzione: regole di buon senso e di impegno personale e sociale, non strettamente religiose, per far sì che anche quella prigionia infernale assumesse dei caratteri umani, e permettesse a tutti di tornare a casa.

Secondo la prima regola: «Non si devono drammatizzare le sofferenze e non ci si deve lamentare, perché questo rende l’uomo più debole». Proprio per questo la comune regola stretta dai compagni di prigionia fu che chiunque si lamentasse, doveva essere ripreso immediatamente.

La seconda regola di sopravvivenza recitava: «Le gioie sono necessarie alla sopravvivenza. Pertanto bisogna prendere coscienza e cercare consapevolmente le piccole gioie della vita». In base a questa regola i detenuti – in concomitanza con le Olimpiadi invernali di Helsinki del 1952 – inventarono le Olimpiadi delle piccole gioie. Dopo la serale minestra di cavoli (non che per colazione e pranzo il vitto fosse diverso!) i detenuti organizzavano un campionato nel quale si sfidavano ad elencare le piccole gioie vissute in quel giorno... ne emergeva un quadro piuttosto vasto di piccole gioie, il cui ricordo e la cui condivisione accresceva il buon umore generale. Il record assoluto rimase quello del prigioniero che seppe elencare 17 piccole gioie.

Secondo la terza regola ci si doveva ricordare che «non siamo perfetti, ma qui e ora dobbiamo mostrare che siamo migliori dei nostri carcerieri, perché ciò accresce l’energia vitale». È vero che spesso i detenuti si professano innocenti – ed è vero anche che tra gli internati nei lager c’erano anche veri delinquenti – ma bisognava dimostrare di non essere dei delinquenti comuni, altrimenti si sarebbe fatto il gioco dei carcerieri, che volevano ridurli da uomini a bestie. Bisognava, in altre parole, dimostrare una certa nobiltà di animo, che li innalzava al di sopra della meschinità di quel luogo: pertanto si doveva lavorare diligentemente, mostrare di voler risparmiare materiale e tempo, collaborare tra loro lavorando al meglio. Come quella volta quando nel 1956, ormai annunciata la prossima liberazione di 70 detenuti ungheresi, tra cui padre Placid, il direttore della fabbrica di mobili arrivò imprecando perché, perdendo tali operai che non erano più costretti a lavorare, non poteva compiere il piano quadriennale e così non avrebbe ricevuto il premio. A nome di tutti padre Placid lo interruppe: «Noi detenuti vi garantiremo il premio». E così chiamando gli altri al lavoro, e moltiplicando gli sforzi, in cinque giorni giunsero a produrre il 300% del previsto. «Questi sporchi ungheresi sanno produrre il 300%, mentre voi non arrivate all’80%», disse il direttore, visibilmente soddisfatto, ai sovietici. Ma in quel caso le sue parole, furono anche premio al nobile animo dei detenuti, che in quell’inferno di egoismo seppero dimostrare la gratuità della benevolenza.

Infine la quarta regola: «Chi ha dove attaccarsi, più facilmente sopporterà il suo stato», il che per un cristiano significava attaccarsi a Dio. Da qui si può capire la gioia di padre Placid nel constare come la Provvidenza agisse per vie tanto strane e insperate... come quando dei detenuti venuti dalle terribili carceri del Mare del Nord consegnarono a padre Placid un piccolo libretto, senza copertina e retro, che si svelò essere un Nuovo Testamento in ungherese. Tra le travi di legno di una cella di punizione, uno dei detenuti tastando al buio il soffitto trovò questo lascito di qualche inquilino precedente, e seppe proteggerlo dalle molte perquisizioni. Così dal Mare del Nord arrivò una Bibbia ungherese, e quale gioia per quei detenuti non solo poter leggere il Vangelo, ma anche poterlo leggere in ungherese, quando da ormai 6 anni non avevano a disposizione una sola riga nella loro lingua. Leggendo in comune questo Vangelo – cristiani e atei – seppero trovare passi evangelici su cui appoggiare le regole della sopravvivenza, meraviglioso frutto della loro sofferenza.

Una cornice per Stalin e Lenin

Emerge da tutto ciò un quadro piuttosto luminoso di quei dieci anni di padre Placid nei lager... uno sguardo ottimista e deciso a sopravvivere come il suo seppe scoprire sempre il volto di Dio e l’aspetto positivo delle cose dietro ogni persona ed evento. Per questo le sue conferenze e le sue memorie sanno dare all’anima tanta serenità e lasciarci una quantità di episodi e aneddoti edificanti e divertenti. Il che è assai significativo, se pensiamo che la vita quotidiana dei detenuti nel lager era di nove ore di massacrante lavoro, spesso nei boschi a -20°; di una refezione scarsissima, cioè zuppa di cavolo e un po’ di pane; di regole rigidissime, come quella di potersi coricare nelle gelide brande solo con una maglia. I prigionieri erano talmente indeboliti che quando andavano al bagno si dovevano sostenere l’un l’altro, per evitare che qualcuno cadesse nella latrina... e ciò non per un anno ma per dieci anni.

Tra i tanti episodi, che dimostrano come un’anima veramente religiosa, sappia sorridere e gioire anche in mezzo alle sofferenze più atroci e in mezzo a carcerieri che fanno di tutto per stroncarti, c’è il seguente. Nel 1952, quando Stalin era ancora in vita, un giorno un ufficiale responsabile della sezione culturale, chiamò padre Placid nel suo ufficio. L’ufficiale, tenendo in mano un pacco avvolto in carta da giornale chiese a padre Placid di incorniciare e appendere due foto che aveva nel cassetto: dal cassetto della scrivania estrasse due foto dei santi numi del Comunismo, Stalin e Lenin. Fin qui niente di strano... strano era invece il contenuto del pacco che aveva in braccio. L’ufficiale infatti disse di aver cercato due cornici ma di aver trovato alla fine in magazzino solo quelle che teneva in mano... il problema era che quelle non erano affatto cornici ma, pur ben levigate e verniciate, si trattava di sedili del w.c. Durante la seconda Guerra mondiale come bottino di guerra dall’esercito tedesco, i russi avevano preso un intero vagone del treno pieno di ciambelle del w.c., ma, non sapendo che farsene, le mandavano da un campo all’altro, senza che nessuno se le utilizzasse dato che, evidentemente, i bagni dei gulag – e forse dell’intera Russia comunista – non avevano bisogno di tali sofisticherie. Anzi tali “mondanità” erano pressoché sconosciute ai russi, tanto che persino l’ufficiale non aveva per nulla capito di cosa si trattasse... nel gulag però non c’erano solo russi ma prigionieri di tutte le nazioni, che ben potevano riconoscere una ciambella del w.c. Ecco perciò che padre Placid, con grande gioia, prese la palla al balzo per provocare una di quelle “piccole gioie” con cui sollevare l’animo dell’intero campo di prigionia. E in effetti, con precisione e gusto di artista – era nel tempo divenuto il ritrattista ufficiale del gulag – bene sistemò le due foto tra le “cornici” e poi le appese al muro, ben centrate e in vista. Quando la squadra di lavoro tornò dai boschi, li invitò calorosamente a entrare: scoppi fragorosi di risa ed esclamazioni concitate si susseguirono nel vedere i visi di Stalin e Lenin posti “nel luogo a loro adatto”. La voce si sparse in tutto il campo e quella sera la sede della sezione culturale risultò ben più frequentata del solito, dato che interi gruppi andavano e venivano. Ecco una piccola gioia che deve aver fatto passare una serata più allegra ai detenuti.

Il buon Dio ha senso dell’umorismo

E così, percorrendo brevemente la vita di padre Placid, sembra di averlo qui a fianco con il suo sorriso che ci fa scoprire la bellezza di spendere la propria vita per Dio e con quel suo particolare umorismo, che svela le profondità della vita umana al di sotto della superficie degli eventi, a volte tanto dolorosi. Basterebbe guardare una delle sue tante conferenze ancora reperibili su internet per capire che ci si trova di fronte a una persona che ha saputo essere felice nella vita, scoprendo la volontà di Dio nelle pieghe della propria esistenza, anche in quelle più avvilenti e mortificanti. Un uomo e un sorriso che speriamo sopravvivranno nella memoria comune e, in particolare, nel ricordo di noi cattolici. E che tale sopravvivenza sia segno ancor più vivo di quell’humor che padre Placid attribuiva allo stesso buon Dio in una battuta che sempre ripeteva: «Dio Nostro Signore ha senso dell’umorismo. Per dieci anni l’Unione Sovietica ha fatto di tutto per farmi a pezzi. E ora io sono qui a oltre novanta anni mentre, dove sta l’Unione Sovietica?».

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