Contempliamo Gesù nell’orto. È annientato e geme. Soffre al pensiero della morte atroce che lo aspetta, ma dietro a questo dolore c’è un altro dolore senza confronto più grande, del quale ci sfuggono le proporzioni, perché si tratta d’un dolore che solo un’anima poteva concepire: la Sua.
Gesù, seguito dai tre Discepoli prediletti, s’era allontanato dal gruppo degli otto, che sostavano nella grotta, a passi lenti. Giunto nel boschetto degli ulivi, si voltò e disse: «L’anima mia è triste fino alla morte; restate qui e vigilate con me» (Mt 26,38). I tre lo guardarono stupefatti. In quel momento, il volto di Gesù era illuminato dalla luna, la cui luce frastagliata giungeva attraverso la chioma degli alberi a tingere il terreno di pallide chiazze ineguali. Forse la luce biancastra dell’astro notturno riuscì a nascondere agli occhi degli Apostoli il pallore mortale di quel volto venerabile, ma ciò che non poté sfuggire all’osservazione dei tre amici di Gesù, in quel momento spauriti e turbati, fu l’espressione d’ineffabile tristezza ch’era improntata su di esso. Che cosa aveva dunque il Maestro? Che cosa stava per succedere? Perché quella tristezza? Anche la voce di Gesù non era più quella delle grandi giornate dell’apostolato: bella, forte, pastosa, musicale; alle volte vibrante di sdegno, alle volte dolce e incoraggiante. La voce di Gesù era lenta, soffocata, agitata da un leggero tremito. Forse interrotta da sospiri, forse intonata di pianto. In ogni modo, non era la solita voce di Gesù. Cosa c’era dunque? [...].
«L’anima mia è triste fino alla morte»
Queste parole sono di fatto misteriose. Come poteva la tristezza entrare nell’animo di Gesù che godeva la visione immediata del Padre? E se vi era penetrata, come si può dire che essa abbia tutta penetrata la santa anima di Gesù e quasi sommersa sotto le sue onde vorticose (perilypos = tutto avvolto e come fasciato di tristezza; cf. anche il salmo 68: «Sono caduto in acque profonde e l’onda mi travolge»)? Prima di tutto riconosciamo che in quelle parole non c’è e non ci può essere ombra di retorica. A Colui che è la Verità vivente non si possono attribuire né esagerazioni, né studiate amplificazioni, né figure barocche e improprie. Gesù non è un mentitore, né un istrione che prende pose teatrali, né un delicato che si lamenta o strilla per un nonnulla. Le parole del Signore sono l’espressione sincera d’un determinato stato d’animo, e non bisogna supporre in esse una semplice frase convenzionale giustificata dall’uso. Anche noi diciamo alle volte: “Mi sento morire dal dolore”, oppure “mi sento morire dalla tristezza”, ma tutti sanno che queste espressioni non si devono prendere alla lettera, ma sono solamente manifestazioni d’un dolore e di una tristezza intensi. E aggiungiamo anche, che di solito quelle espressioni nascondono l’intenzione di destare pietà altrui con una punta di esagerazione. Ma in Gesù non vi fu nulla di tutto questo. Le parole del Signore esprimono quello che significano realmente nel linguaggio corrente. Se Gesù ha detto che era triste fino a morirne, è perché in tutta verità la sua tristezza era tale da produrre la morte o almeno era tale da preferire mille volte la morte. [...].
Le ragioni della tristezza
Noi ci domandiamo: quale fu il motivo o l’oggetto della tristezza di Gesù nell’orto? Gesù fu preso da tristezza, da orrore e da paura al pensiero della morte. Senonché parve a molti, tra i quali anche ad alcuni dei santi Padri (sant’Ambrogio e san Girolamo), che quei sentimenti fossero indegni di Gesù e perciò attribuirono la tristezza e l’angoscia del Signore alla visione della nostra ingratitudine, dei nostri peccati e della nostra rovina. E non vi è il minimo dubbio che la visione di tutte queste cose abbia effettivamente causato nell’animo di Gesù una tristezza superiore a qualunque altra tristezza. Ma ciò non toglie che il primo, immediato, motivo dell’angoscia mortale provata da Gesù nell’orto (quello di cui ci sono testimonio indubitabile le Sacre Scritture) fu proprio la visione della morte in Croce.
Vediamo ora che cosa dice la Sacra Scrittura della tristezza e della paura di Cristo. Qui ci viene davanti al pensiero, prima di tutto, la preghiera stessa di Gesù in quell’occasione: «Abbà, Padre. Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice. Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Nella Sacra Scrittura il calice è simbolo di gioia o di tristezza. Qui non c’è dubbio ch’esso rappresenta un dolore grande e insopportabile. Quale dolore? Quello della morte imminente o quello proveniente dalla visione dei nostri peccati? Non c’è dubbio che si tratta del dolore della morte imminente. Ciò risulta chiaramente dal testo di san Giovanni che ci riferisce l’intimazione fatta da Gesù a Pietro di rimettere la spada nel fodero: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mio mi ha dato?» (Gv 18,11). È ben evidente che qui Gesù comanda a Pietro di non tentare neppure di strapparlo dalla morte simboleggiata in quel calice (cf. anche Mt 20,23). Ma dove apparisce in modo inequivocabile la situazione interiore di Gesù nell’orto, è nella Lettera agli Ebrei. Lo Scrittore sacro non poteva essere più esplicito. Ascoltiamolo: «Nei giorni della sua vita terrena egli [Gesù] offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio [di Dio], imparò l’obbedienza da ciò che patì» (Eb 5,7). Qui non c’è il minimo dubbio che Gesù abbia realmente domandato al Padre, con gemiti altissimi e lacrime, di salvarlo dalla morte. Il particolare dei gemiti altissimi e delle lacrime non è contenuto nel Vangelo, ma ciò importa poco perché tutti e due i documenti hanno la stessa autorità infallibile. Questa omissione tutt’al più è una nuova prova dell’estrema sobrietà degli Evangelisti i quali sono ben lontani dal tentare di colorire il loro racconto con particolari drammatici come avviene di solito nei racconti d’invenzione. Gli Evangelisti si accontentano di dire la verità, e se talvolta aggiungono dei particolari, questi, molto spesso, sono poco onorifici per loro, e, in non rari casi (come la Passione), sono umilianti anche per il loro Eroe.
Il fatto è che Gesù, nell’orto, ha avuto una crisi di pianto caratterizzata da una certa violenza. Il clamor validus (kraughè ischyrè) vuol dire clamore, grido, o singhiozzo. Qui, naturalmente, va preso come singhiozzo. Gesù, dunque, secondo la testimonianza dell’Autore sacro, ruppe in singhiozzi violenti e sparse lacrime abbondanti. In quel momento, Gesù era paragonabile a un piccolo, debole, fragile uomo sopraffatto dal pianto. Noi ci domandiamo ora: gli Apostoli furono risvegliati da quegli alti gemiti e da quei singhiozzi violenti? Tutto lo fa credere. Prima di tutto perché il loro sonno, benché pesante, era agitato e quindi suscettibile di essere interrotto dal più piccolo rumore; e poi perché furono proprio essi (almeno così si può credere) a informare l’Autore della Lettera agli Ebrei di quel particolare. [...].
Toccando il fondo della natura umana
Non si può affatto dubitare che Gesù abbia sofferto molto più al pensiero dei nostri peccati e della nostra rovina che non al pensiero della morte che lo aspettava, ma non si può neanche dubitare che Egli abbia veramente provato un senso di terrore e un’angoscia indicibile alla prospettiva del supplizio che gli preparavano gli uomini. Questo terrore e quest’angoscia sono affermati inequivocabilmente nel Vangelo. Gesù nell’orto, ha veramente santificato il terrore e l’angoscia. È un luogo comune dire che la paura è la qualità dei vili. Ma ciò non è vero affatto. In tal caso, anche Gesù sarebbe stato un vile perché ha avuto paura. La paura, anche spinta ai più grandi eccessi, è una delle infermità della natura umana a cui tutti sono soggetti. Vi sono degli spiriti boriosi e vani che affermano di non aver paura di niente. Si dice che Napoleone abbia superbamente dichiarato di non sapere cosa sia la paura. Tutte rodomontate. Tutti hanno paura di qualche cosa. Basta essere uomini per aver paura. O si ha paura della morte propria o di quella altrui; o si ha paura del disonore o della perdita dei propri beni, o della malattia o dell’insuccesso agli esami, ecc. Tutti abbiamo paura perché tutti siamo deboli e non possiamo difenderci contro il pericolo dei mali che più paventiamo. Non è una viltà aver paura, ma disertare al proprio dovere per paura. Quanto più grande è la paura, tanto più grande il merito d’averla superata. Gesù ha santificato la paura, l’angoscia, il turbamento dell’animo, e ci ha insegnato a farcene dei mezzi per salire alle stelle. Quante anime nascondono nel fondo inesplorato e invisibile del loro essere delle dolorose tragedie che non osano confidare a nessuno! Ma Gesù è vicino a queste anime, soffre, gela di terrore con esse, e le sostiene nella dura prova anche se non ne sono affatto consapevoli.
Sia benedetto Gesù, che ha voluto passare attraverso la trafila delle nostre miserie! Sia benedetto Gesù, che ha voluto discendere fino in fondo alla natura umana e attribuirsi le debolezze più umilianti (escluso il peccato)! Benedetto Gesù che ha voluto essere proprio come uno di noi in tutto e per tutto: carne fragile e debole, anima soggetta ai terrori e ai turbamenti. Oh com’è meraviglioso il messaggio del Vangelo che mette Dio al livello dell’uomo, e l’uomo all’altezza di Dio! Sia benedetto Gesù che ha previsto i momenti più difficili della mia vita e ha voluto mettersi accanto a me e dirmi: “Non temere. Io ho tremato come te, sono stato turbato come te. E in questo momento difficile sono con te. Non temere perché è vicino il trionfo”.
Stritolato per i nostri peccati
Ritorniamo col pensiero a Gesù nell’orto. Il Salvatore è accasciato. Si direbbe che non è in grado di sopportare l’orribile prova. Contrariamente all’uso invalso ai suoi tempi, e da Lui fedelmente seguito, Egli non prega in piedi con le braccia alzate. Gesù si mette in ginocchio (Lc 22,41). Perché? Forse per prendere un atteggiamento più umile e più espressivo, mentre anche il suo Corpo prende la positura naturale di chi supplica con tutte le potenze dell’anima. Ma forse anche perché in piedi non si regge più. Le ginocchia gli tremano, non lo sostengono più. Si mette dunque in ginocchio e si appoggia o si puntella con le mani per terra. La tristezza diventa mortale e gli serra il respiro. Qualche cosa lo schiaccia. Non è solo il pensiero della morte imminente: è qualche cosa di ben più terribile che lo infrange e lo atterra.
Certamente Gesù vede qualche cosa che noi non possiamo vedere, perché a un tratto un gemito straziante esce dal suo petto, e, dopo un vano tentativo di resistenza, stramazza al suolo: «Avanzatosi un poco si prostrò con la faccia a terra» (Mt 26,39). La tremenda visione dei nostri peccati lo atterra e lo annienta. E ora lo possiamo contemplare abbandonato sul terreno, senza forze, con la bocca semiaperta, agonizzante. Il peso dei nostri peccati lo stritola letteralmente: «È stato stritolato per i nostri peccati» (Is 53,5). [...].
A questo punto qualcuno [...] potrebbe domandarsi come mai sia stata possibile a Gesù la vertiginosa visione di tutti i peccati umani lungo il corso dei secoli nell’abisso insondabile del tempo. Questa visione simultanea o quasi simultanea sembra impossibile all’anima umana. A questa difficoltà bisogna rispondere che noi non conosciamo la capacità dell’anima umana, e specialmente di un’Anima come quella di Gesù assistita da una scienza universale e da una grazia unica nel suo genere. Del resto, la nostra stessa anima, dopo la morte, avrà una capacità recettiva e attiva ben superiore a quella che le è concessa durante la sua vita terrena, mentre il corpo la rinserra e la limita da tutti i lati. Qualcun altro potrebbe domandarsi come mai noi possiamo essere chiamati responsabili della tristezza di Gesù nell’orto, mentre questa tristezza è un fatto compiuto, consegnato alla storia, incapace di essere modificato dal nostro contegno di oggi. A quest’altra difficoltà (del resto di poco conto) risponde il papa Pio XI nella sua enciclica Miserentissimus Redemptor, dicendo che i nostri peccati non agiscono sull’Anima di Gesù al modo delle cose naturali per contatto immediato, ma per ragione della previsione certa dovuta alla scienza infusa. Ecco le sue parole: «È certo che i nostri peccati, futuri ma previsti, hanno cagionato a Gesù una agonia di morte»...
Tutti i nostri peccati! Una valanga sterminata che si precipita da tutti gli angoli del tempo e dello spazio addosso all’Unico, che deve espiare per tutti. Se il dolore del grande e divino Penitente dovesse essere, come insegna san Tommaso, proporzionato all’enormità e al numero dei peccati umani... Dio mio, che dovremo pensare di questo dolore? [...].
Tutti i nostri peccati! Ciò vuol dire che noi siamo stati presenti al dramma dell’agonia e vi abbiamo portato un contributo di dolore, del quale noi, e noi soli, portiamo la personale responsabilità. Gesù ci ha visti, ci ha riconosciuti e ha sopportato l’oltraggio senza maledirci, ma gemendo e struggendosi di angoscia al pensiero dell’amicizia da noi vilmente tradita. «Mi hanno odiato senza motivo» (Gv 15,25). Cioè, Gesù non mi ha dato certo nessun motivo di odiarlo, perché non ha fatto altro che volermi bene e farmi del bene. Mi ha usato tutte le attenzioni e tutte le tenerezze. Per me si è sacrificato fino all’estremo. Di più non poteva fare. Gesù non mi ha dato motivo di odiarlo, ma... io purtroppo ho avuto dei motivi per tradirlo e aggiungere così dolore al suo dolore. Dei motivi che non ho il coraggio di confessare a me stesso. Motivi vili e bassi: la soddisfazione dell’orgoglio, della vanità, del risentimento, della carne. Non ho chiesto di più. Una piccola soddisfazione m’è bastata per dimenticare tutto e tradire il più grande Amico.
E almeno potessi addurre a mia scusa che ho agito per ignoranza! Ma non lo posso fare. Io sapevo quello che mi facevo. Sapevo di aggravare la sua agonia, sapevo di spremere un Uomo già spremuto sotto il torchio immane di tutti i peccati umani. Sapevo di colpire un Morente. E l’ho fatto lo stesso. Gesù l’ho pestato sotto i miei piedi per darmi una soddisfazione qualunque, incurante dei suoi gemiti e del suo dolore. Io, proprio io, ho fatto questo!
Gesù mio, tutta la vita impiegata per riparare e amare sarà ben poca cosa in confronto del male che ti ho fatto.
tratto da: La Passione di Gesù