A settant’anni dal processo farsa nel quale venne condannato all’ergastolo, József Mindszenty viene dichiarato Venerabile. Ricordiamo la figura di quest’uomo perseguitato dai nazisti e dai comunisti, una delle figure più significative della “Chiesa del Silenzio”.
Molti segni precedettero quell’indimenticabile Avvento dell’anno 1948. Lo era la prima prigionia comunista, subita durante la breve ma sanguinaria dittatura di Bela Kun. Il futuro primate aveva appena 27 anni, quando per prima volta venne messo in carcere dagli spietati nemici della Fede. Lo era anche la seconda prigionia, durante la seconda Guerra mondiale, quando Mindszenty, già vescovo di Veszprem, venne incarcerato dai nazisti. Ma soprattutto, lo era quel sussurro del Sommo Pontefice, il 21 febbraio 1946, quando al nuovo arcivescovo di Strigonio-Budapest e primate d’Ungheria, accanto agli altri 31 prelati, imponeva la berretta cardinalizia: «Tu sarai il primo dei trentadue a sopportare il martirio simboleggiato da questo colore rosso».
Proprio così. Con la fine della guerra l’Ungheria si trovò assoggettata a quel medesimo regime già conosciuto 25 anni prima con la effimera ma brutale dittatura di Kun. Anche se nelle prime elezioni del Dopoguerra aveva vinto il partito conservatore dei piccoli contadini, la prepotenza dei comunisti divenne ogni giorno più pesante, fino alla realizzazione di un colpo di stato. Al potere saliva così Mátyás Rákosi, ebreo, già collaboratore di Bela Kun, un uomo che riteneva un onore essere chiamato lo “Stalin ungherese”.
Dal nazismo al comunismo
József Mindszenty (sebbene tal cognome, originato dal nome del paese natalizio, il futuro cardinale lo portò solo dai tempi della seconda Guerra mondiale) nacque nel 1892. Entrato giovane in seminario, si distingueva tra gli altri chierici per la sua spiccata intelligenza. Ordinato sacerdote nel 1915, presto cominciò a lavorare come insegnante ma fu anche attivo nel campo sociale, divenendo persino membro del consiglio provinciale a Zalaegerszeg. Durante la rivoluzione di Bela Kun venne imprigionato non una, ma ben tre volte. Dopo la caduta di quel primo regime comunista ungherese, a soli 27 anni divenne parroco nella medesima città di Zalaegerszeg. Laborioso e devoto, durante i successivi venti anni guadagnò l’amore dei suoi fedeli e la stima dei superiori ecclesiastici.
In mezzo alla seconda Guerra mondiale, nel 1944, don József venne nominato vescovo di Veszprem. La situazione del paese e della Chiesa diventava giorno dopo giorno sempre più drammatica. L’Ungheria, governata dal reggente-dittatore Miklos Horthy, si era vincolata in una fatale alleanza con la Germania nazista: ed ora le sorti della guerra evidentemente si volgevano contro i tedeschi e, assieme ad essi, contro l’Ungheria di Horthy. Un tentativo di quest’ultimo di svincolarsi dall’alleato portò, invece, nel marzo 1944 ad una occupazione de facto da parte dei tedeschi e poco dopo all’istallazione del governo di Ferenc Szálasi, incondizionatamente sottomesso ai nazisti.
Durante questi tragici anni la Chiesa ungherese era guidata dall’intrepido pastore, cardinal Jusztinián Serédi, deciso oppositore del nazismo. In risposta alla sua opposizione a Szálasi, alcuni vescovi e sacerdoti vennero imprigionati: tra quelli si trovò mons. Mindszenty, il quale proprio nella prigione nazista ordinò sacerdoti alcuni suoi seminaristi, incarcerati insieme a lui. Nella prigione passò il Natale 1944, e per sempre portò con sé il ricordo di quel Natale e in particolare del fatto che lì, nella prigione, perfino i comunisti – come Laszlo Rajk – cantavano i canti natalizi e pregavano. «Il pericolo di morte li aveva avvicinati tutti a Dio». Un episodio significativo, se si pensa alle successive svolte nella vita di quel Laszlo Rajk che da lì a poco sarebbe divenuto un potente ministro nel governo comunista e un persecutore della Chiesa.
Poco dopo i tedeschi lasciarono Budapest. Ed ecco che proprio allora, quando la nazione aveva tanto bisogno di una guida, a soli 60 anni venne a mancare il grande primate ungherese, uomo d’intrepida giustizia e carità (ben la conobbero i profughi polacchi e gli ebrei perseguitati dal regime!), il cardinal Serédi. La Chiesa e il paese rimasero orfani proprio in quel drammatico momento quando un regime di terrore e di sangue veniva sostituito con un altro: Budapest venne occupata dall’esercito rosso.
Il martello e l’incudine
In questo contesto, dopo appena un anno di episcopato, mons. Mindszenty venne nominato arcivescovo di Strigonio-Budapest e primate d’Ungheria. Nel febbraio 1946, dopo aver superato gravi difficoltà frapposte dai comunisti, a Roma, egli ricevette la rossa berretta cardinalizia, accompagnata da quella profetica frase dell’angelico pastore Pio XII.
Nei successivi 34 mesi Mindszenty affrontò una battaglia durissima per la Fede e per la patria. Il regime diventava sempre più duro. Dall’inverno del 1947 i comunisti controllavano ormai quasi tutta la scena politica. Lo Stalin ungherese, Rákosi, autore dell’espressione “tattica del salame”, fetta dopo fetta toglieva i rimasugli di libertà agli ungheresi e, soprattutto, alla Chiesa Cattolica in Ungheria. In questa situazione il Primate coniò il famoso detto: «Quanto più pesante il martello, tanto più resistente l’incudine». Le difficoltà e le persecuzioni, ogni mese più aperte, non lo scoraggiavano; anzi, lo convincevano che nell’opporsi all’empio regime occorreva evitare ogni compromesso superfluo. In effetti, sapeva bene che la Chiesa ortodossa in Russia non aveva guadagnato niente con i continui cedimenti nei confronti del regime: al contrario, questi resero ancor più spietati i bolscevichi, convinti di essere padroni assoluti del Paese e di aver abbattuto l’unico baluardo rimasto, la Chiesa.
Mentre, dunque le catene si stringevano sempre più, Mindszenty cercava di render sempre più libero lo spirito. E alle manifestazioni del potere temporale dei comunisti rispondeva con operazioni di preghiera e di devozione popolare. Non erano mirate primariamente allo scopo propagandistico, tuttavia, consolidando la nazione ed adempiendo i sacri doveri della religione, esse mostravano anche l’intramontabile forza della Chiesa Cattolica. Il Primate, secondo la legislazione del Regno ungherese, nei periodi di interregno diventava ipso facto reggente: nell’ormai lontano 1945 perfino gli ufficiali dell’esercito rosso rispettarono questa posizione politica di Mindszenty. Ora tutto il popolo guardava alla sua figura come uno stabile punto di riferimento nei tempi della burrasca.
Il più grande successo fu quello dell’Anno Mariano, indetto dal Primate il 15 agosto 1947, in netta opposizione ai festeggiamenti statali del centenario della rivoluzione ungherese del 1848. La partecipazione degli ungheresi ai pellegrinaggi e raduni mariani era enorme. C’era chi si preoccupava che la mossa del Primate fosse politicamente sbagliata, in quanto in Ungheria vi era una numerosa minoranza protestante che “certamente” avrebbe boicottato le celebrazioni mariane. Ma il Primate rispose: «La mamma nella famiglia e la Madre di Dio nella vita del popolo non producono divisioni, ma sono vincolo dell’amore che unisce». E, in effetti, più tardi poteva ricordare come «i protestanti compresero nel senso giusto le mie parole e le mie intenzioni. Comparvero numerosi nelle nostre istituzioni e in particolare parteciparono ai congressi e ai pellegrinaggi dell’Anno Mariano».
L’anno 1948 segnava un continuo peggioramento della situazione politica. L’Occidente ormai aveva accettato il fatto della dittatura comunista nella parte orientale dell’Europa e in tutta l’Asia continentale. La “cortina di ferro” divise il continente e il mondo. Gli ungheresi, insieme alle altre nazioni, si trovarono in un’enorme prigione, estesa da Kamchatka e Hanoi fino alla frontiera ungaro-austriaca, ad appena 200 chilometri da Budapest.
Avvento di Passione
L’incudine era resistente, ma il martello – insieme alla falce – non cessava di batterla con una forza, si direbbe, insopportabile. Le prigioni si riempivano. I vescovi e i sacerdoti venivano continuamente spiati. I tentativi d’intimorire Mindszenty fallirono, allora i comunisti decisero d’intimorire tutto il resto della Chiesa, togliendo di mezzo l’eroico Primate.
Nell’avvento del 1948 già si sapeva di un imminente arresto del Cardinale. Il 23 dicembre il palazzo vescovile venne perquisito. Tuttavia, Mindszenty rimase libero ancor fino al Natale. Nel frattempo poteva contemplare la terribile minaccia, vedendola incarnata nella persona del suo segretario: «appena trentacinquenne, negli anni migliori della maturità; e ora, dopo cinque settimane di prigionia, distrutto nella sua personalità; prima, un uomo forte e deciso, ora, un relitto». Sarebbe stato questo il destino del medesimo Mindszenty?
Pronto ad affrontare i lupi, l’eroico pastore in quei giorni cupi decise di usare la talare più sdrucita e di mettere al dito il più modesto degli anelli episcopali: «Se mi avessero portato via, avrebbero potuto rubare alla Chiesa solo quegli oggetti di poco valore».
Era questo un Natale ancor più angoscioso rispetto a quello passato 4 anni prima nella prigione nazista. «A mezzanotte celebrai la Messa, oppresso e triste, più triste che in quel Natale del 1944 che avevo trascorso nella prigione di Sopronkóhida». Il Primate, celebrando alla presenza della sua madre, non poteva non pensare al dolore che le avrebbe procurato il suo arresto, la condanna, l’esecuzione... Eppure, era Natale! Gesù Bambino veniva, anch’Egli, mentre le tenebre coprivano il mondo. E veniva per affrontare, anch’Egli, l’arresto, le torture, la diffamazione, la morte. Ed anche la Madre sua avrebbe dovuto soffrire accanto alla croce del Redentore. E così, il figlio e la madre, pur nella loro oppressione, attingevano le forze per quel futuro che si delineava davanti a loro pieno di angosce e sofferenze.
Devotissimo della Madonna, la “Grande Signora d’Ungheria” (primo Paese nella storia ad essere consacrato alla Madre di Dio), il Cardinale pose la sua fiducia in Lei e prese Gesù crocifisso come suo modello. “Devictus vincit”, vinto ma vittorioso: così stava scritto sul suo quadro prediletto della Passione. Era anche questa scritta un presagio del suo stesso futuro.
Nella “Casa del terrore”
La sera della festa di santo Stefano, patrono della chiesa titolare di Mindszenty a Roma, l’episcopio viene circondato dai poliziotti: ottanta di essi entrano nel palazzo, dove il colonnello Décsi arresta il primate d’Ungheria. Mindszenty viene portato nel famigerato carcere in via Andrassy 60, chiamato anche “Casa del terrore” (a Terror Háza): fino a pochi anni prima luogo delle torture e delle esecuzioni naziste, ora passato alla nuova gestione dei carnefici di Rákosi (lo “Stalin ungherese”).
Quarantaquattro giorni passarono dall’arresto alla condanna all’ergastolo. Poco più di mille ore. Potrebbe sembrare poco. Ma furono mille ore di umiliazioni indicibili; mille ore di torture raffinate; mille ore senza riposo: tra i calci di stivali, colpi di manganello e, soprattutto, interruzioni di sonno, qualora il prigioniero si addormentasse. «Chi non è mai stato interrogato o tenuto prigioniero in via Andrassy non può immaginarsi gli orrori che là vi si commettevano», avrebbe scritto Mindszenty. Non pochi prigionieri, prima ancora di una condanna (e prima che iniziasse un processo), morivano in mezzo alle torture.
Ma non doveva essere il caso suo. Il regime lo voleva condannato pubblicamente. Ogni giorno veniva proposto al Primate di firmare il verbale preparato dai suoi accusatori: una confessione d’aver commesso i crimini contro la repubblica popolare, con lo spionaggio e traffico illegale della valuta (tutto al servizio dell’imperialismo vaticano-statunitense). La firma o il manganello. Nei pasti gli venivano somministrate droghe che avrebbero dovuto stordire la mente e indebolire la volontà. La cronica mancanza di sonno dopo alcuni giorni avrebbe dovuto ancor più farlo cedere. Umanamente, era impossibile resistere. Eppure, József Mindszenty resisteva ancora.
Due volte in questo terribile gennaio del 1949 poté perfino celebrare la Santa Messa. «Anche in quel luogo orrendo c’era dunque qualcuno che pensava quale grande grazia sarebbe stata per un sacerdote poter celebrare la Santa Messa in quella condizione». Il Primate trovò accanto al divano sul quale veniva buttato dopo gli interrogatori, un piccolo bicchiere di vino che in forza delle parole da lui pronunciate poteva diventare il Sangue di Cristo, mentre il pezzettino di pane dalla colazione diveniva il Corpo del Signore. Poco importa se sin dall’inizio Mindszenty si fosse accorto che era anche questo un intrigo dei comunisti. Infatti, si trattava della preparazione di una provocazione. poco dopo uno degli ufficiali si presentò a Mindszenty come un cattolico pronto ad aiutarlo nella fuga. Ovviamente, non vi era nessuna fuga, ma solo l’accusa d’averne fatto un tentativo.
Infine, la stanchezza e la tortura portarono l’incarcerato a concessioni verso i suoi carnefici. Dopo una notte di torture particolarmente crudeli, il primate acconsentì a firmare il verbale presentatogli dai carnefici. Ebbe però la lucidità per aggiungere alla firma le lettere “c.f.”, coactus feci (l’ho fatto perché costretto). Chiestogli cosa significasse, rispose che le due lettere stavano per “cardinalis foraneus”. Tuttavia, poco dopo, gli oppressori s’accorsero dello stratagemma. «Animale! – gridarono – ci hai presi per stupidi? Non devi aggiungere niente al tuo nome, né sopra, né sotto, né accanto». Questo grido fu l’ultima cosa del periodo di detenzione che rimase nella memoria del detenuto. Nei giorni successivi, completamente stordito dalla stanchezza e dalle droghe, egli firmò diversi documenti il cui contenuto venne a conoscere solo molti anni più tardi.
Il condannato
L’8 febbraio 1949 Mindszenty venne condannato all’ergastolo. Tutto il mondo rimase sconvolto dalle fotografie del Primate seduto sul banco degli accusati, con il viso che portava i segni dei maltrattamenti subiti. In piazza San Pietro decine di migliaia di fedeli si radunarono per manifestare la solidarietà con il Primate ungherese. Dal punto di vista propagandistico il regime non usciva vittorioso da questa vicenda; ma senz’altro in molti cattolici ungheresi il terribile processo e la condanna del loro Pastore dovevano produrre uno scoraggiamento avvilente.
Mindszety stette in prigione più di sette anni. I maltrattamenti continuavano, anche se attenuati. Per nove mesi non poté celebrare la Santa Messa, tranne una volta sola, quando venne visitato – in bilocazione – da padre Pio da Pietrelcina che gli portò l’occorrente per il santissimo Sacrificio. Quando infine gli si permise di celebrare, non solo dovette utilizzare come “palla” un libro di Lenin, ma talvolta la celebrazione veniva bruscamente interrotta dalle guardie.
Nella prigione veniva maltrattato con frequenti cambiamenti di cella e del carcere stesso (anche in prigione l’uomo sente bisogno di una certa stabilità!); da un regime di vita stancante, all’obbligo di stare 10 ore a letto, a luce spenta (una vera tortura per un uomo abituato a dormire 5-6 ore); con 3 ore destinate ai pasti, con la possibilità di leggere solo i noiosi discorsi dei capi comunisti.
La rivolta
Nel frattempo, l’Ungheria cambiava. Il 15 ottobre 1949 Mindszenty poté, dalla piccola finestra della sua cella, assistere all’esecuzione di quel Laszlo Rajk che cinque anni prima era stato imprigionato dai nazisti insieme a lui e il quale poi era divenuto un potentissimo ministro e persecutore della Chiesa. Caduto in disgrazia presso l’invidioso Rákosi, in giro di pochi mesi Rajk venne arrestato, condannato alla morte ed impiccato. Dal suo finestrino Mindszenty diede l’assoluzione sotto condizione a quel comunista che durante il Natale ’44 cantava e pregava...
Ma, a parte i drammi dei singoli (e le prigioni straboccavano di detenuti in tutto il Paese!), il regime rimaneva duro. Nemmeno la morte di Stalin, nel marzo 1953, portò ad un sollievo. Solo tre anni più tardi, in Unione Sovietica con il rapporto di Kruscev e in Ungheria con la salita al potere di Imre Nagy, un venticello più caldo sfiorò le terre ghiacciate del “blocco” comunista. Kruscev era un comunista; lo era anche Nagy. Ma l’epoca dello stalinismo (e, in conseguenza, di rakosismo) tramontava. Per il Cardinale l’inizio delle riforme portò un notevole miglioramento delle condizioni della sua detenzione: le dure carceri vennero cambiate negli arresti domiciliari. Non veniva più disturbato nella preghiera, poteva liberamente portare la talare e leggere i libri spirituali.
In Ungheria il soffio di libertà bastò per portare ad una esplosione: la grande rivolta dell’autunno 1956. Durante questi pochi giorni di libertà, gli ungheresi liberarono il loro Primate, portandolo trionfalmente a Budapest. Il 1° novembre parlò alla radio, dando il suo appoggio agli insorti. Pochi giorni dopo, però, una massiccia invasione sovietica pose fine al sogno ungherese della libertà. La rivolta venne schiacciata, Imre Nagy e i suoi collaboratori arrestati e poco dopo impiccati. Al potere salì János Kádár, già stretto collaboratore di Rákosi.
L’esule a Budapest
Il Primate evitò un nuovo arresto, trovando riparo nell’edificio della rappresentanza diplomatica (più tardi, dal 1967, ambasciata) americana, dove trascorse i successivi 15 anni: esule, pur nella propria metropoli, in un edificio extraterritoriale. Inizialmente accolto come un eroe ed alleato, col passare del tempo divenne un ospite poco gradito.
I tempi nuovamente cambiavano. Con la presidenza di Kennedy gli Stati Uniti non guardavano più il mostro sovietico come un nemico. Peggio ancora, una ventata pacifista e perfino filocomunista entrò anche in Vaticano. Se in Pio XII il mondo ebbe un fermo punto di riferimento e un baluardo anticomunista, non fu così dopo la sua morte. Giovanni XXIII e Paolo VI, promossero una linea politica, più tardi diretta dal cardinale Casaroli e chiamata Ostpolitik. Con i comunisti non bisognava più combattere, ma trovare l’accordo. Dalla prospettiva storica si può dire che l’Ostpolitik fu un fallimento. Il cardinale slovacco Jan Korec ebbe a dirlo in termini forti: «Per noi fu veramente una catastrofe, quasi come se ci avessero abbandonato, spazzato via. [...]. I comunisti, così, hanno avuto nelle loro mani la pastorale pubblica della Chiesa».
In ogni caso, si voleva gli accordi con i comunisti: cosa per il cardinal Primate piuttosto impensabile. Non più la resistenza dell’incudine proporzionata al peso delle martellate; ma piuttosto un bel piumone. Ed ora la figura di quell’incudine irremovibile malgrado tutte le martellate ricevute; la figura di quel testimone e simbolo assieme della resistenza cattolica e delle atrocità comuniste, diventava scomoda. Soprattutto se egli era presente proprio a Budapest e proprio come cardinale primate d’Ungheria, ovvio punto di riferimento per tutti e manifesto rimorso di coscienza per chi sceglieva la più facile via di collaborazione con il regime.
L’ultimo esilio
Infine, nel 1971, venne deciso che lo scomodo Primate dovesse abbandonare sia l’ambasciata che la patria. Egli stesso avrebbe preferito una nuova prigionia comunista a quella presunta liberazione. Ma non era lui a decidere. Il 28 settembre uscì, dopo 15 anni, dall’ambasciata americana; uscì per andare in esilio, abbandonando per sempre l’amata patria. Con amarezza notò come questa sua partenza venne commentata ne L’Osservatore Romano: si trattava dell’eliminazione di «un ostacolo che rendeva più difficili i buoni rapporti tra Chiesa e Stato».
Non era l’ultima pillola amara che il vecchio Confessore dovette inghiottire. Alcuni anni più tardi, malgrado un suo dignitoso rifiuto di presentare le dimissioni, Mindszenty venne deposto dalla sede arcivescovile di Strigonio-Budapest. Ancor una volta, ma in mezzo a un dolore più acuto, egli diventava come quel Cristo coronato di spine del suo quadro preferito: Devictus vincit (Vinto ma vittorioso). Uno sconfitto, ora chiamato “vittima della storia” (non più “del comunismo”), la cui vita divenne però un monumento gigantesco e un messaggio chiaro per tutta la Chiesa.
Ed è anche per merito suo (accanto ad altri protagonisti) se oggi è proprio l’Ungheria il paese che con più decisione rifiuta la nefasta eredità comunista, iscrivendo nel testo del preambolo della Costituzione le parole: «Non riconosciamo la costituzione comunista dell’anno 1949, perché fondamento di tirannia e ne dichiariamo perciò l’invalidità».
József Mindszenty morì nel 1975 a Vienna, la più vicina all’amata Ungheria tra le città dell’Europa libera. Morì circondato dall’ammirazione dei fedeli e dei non fedeli e con fama di santità; ma allo stesso tempo considerato da molti un relitto dei tempi passati; un uomo eccessivamente attaccato a quel passato di cui i comunisti (del resto insieme ai progressisti cattolici) contavano di farne “tabula rasa”.
Ora, proprio nel 70° anniversario del suo processo farsa, viene dichiarato venerabile. Un altro processo, quello di beatificazione e canonizzazione, conferma la vera vittoria – agli occhi di Dio, della Chiesa e della storia – di quel grande Devictus che pur nelle sofferenze e nelle umiliazioni della sua lunga vita, rimase invincibile.