SPIRITUALITÀ
Commemorazione dei defunti. Dai primi secoli fino a noi
dal Numero 41 del 28 ottobre 2018
di Claudia Del Valle

Il 2 novembre tutti i sacerdoti possono disporre d’un privilegio più unico che raro: quello di celebrare tre sante Messe. Anche in questo modo la Chiesa insegna la grande importanza che riveste la santa Messa per il suffragio dei defunti. Come ha avuto origine questa commemorazione?

Lo spirito di questa commemorazione si manifesta sin dall’inizio dal Martirologio romano che recita così: «Oggi facciamo la commemorazione di tutti i fedeli defunti. La Chiesa, nostra buona Madre, dopo aver con degne lodi esaltato i suoi figli che già godono in Cielo, vuole soccorrere anche le anime che ancor soffrono nel luogo di purificazione e per esse intercede con tutte le sue forze presso il Signore e suo Sposo Cristo, perché quanto prima esse possano raggiungere la comunità degli eletti in Cielo».
Ma vediamo quali sono le origini storiche del culto ai fedeli defunti. Il cardinal Ildefonso Schuster nel suo Liber Sacramentorum sottolinea che in tutte le civiltà pagane si scopre un fondo di religione particolarmente quando si tratta dei defunti. La violazione di una tomba è considerato un grande crimine, secondo l’universale principio «Parce sepulto». I pagani danno al culto dei defunti un carattere familiare. Li seppelliscono nel giardini lungo i margini delle grandi vie consolari che partivano da Roma e arrivavano fino ai confini dell’impero. Coprivano di fiori i sepolcri e li visitavano spesso, celebrando persino banchetti per unirsi in spirito con le anime dei trapassati.
I cristiani dei primi secoli non sopprimono queste usanze pagane; al contrario, le accettano per purificarle e cristianizzarle. Erigono cimiteri sulle grandi vie, conservano le novendialia (i nove giorni di lutto) e nei giorni terzo e nono vanno alle tombe per celebrare i banchetti.
La Chiesa dei primi secoli, con spirito di materna comprensione, accettò quanto vi era di accettabile nel rituale funebre latino, ma lo sublimò e lo santificò, infondendovi la speranza cristiana della risurrezione. Così, fin dai primi tempi, alla liturgia funebre fu intimamente unita l’idea della Vita eterna. «Nulla di macabro o spaventoso. Non apparati fregiati dall’emblema della morte, con crani e tibie di defunti disegnate su quei drappi. Tutto invece spirava pace e serena speranza». Questo spirito si riflette nel Cum Christo vivas, in pace dormias, così frequenti nelle catacombe. Ma la Chiesa santifica gli onori funebri, soprattutto introducendo in essi il Sacrificio eucaristico in suffragio per i defunti. Tertulliano afferma: «Noi celebriamo la preghiera per i defunti nataliis e nell’anniversario della morte». Molto toccante è anche il testo di santa Monica tramandato dalle Confessioni di sant’Agostino: «Seppellite questo mio corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore».
Sappiamo inoltre che fin dai tempi delle persecuzioni si recitavano delle preci funebri che possono considerarsi come rito primitivo delle esequie cristiane. Non si può determinare chiaramente quali fossero. San Girolamo, nel descrivere quelle di Fabiola, dice che si udiva risuonare per le vie di Roma il canto dell’Alleluia. E nella vita di santa Paola dice che la salma della Santa fu portata a spalla dai vescovi, mentre altri prelati portavano torce e ceri; e che si cantarono ordinatamente salmi in greco, latino e siriaco, non solo per lo spazio di tre giorni, finché fu sepolta nella cripta accanto alla grotta del Signore, ma durante tutta la settimana. Sant’Agostino, descrivendo i funerali di sua madre santa Monica, dice che Evodio intonò il salmo 100 e che tutti i presenti rispondevano ad ogni versetto: «Misericordiam et iudicium cantabo tibi, Domine».
Quando l’Italia venne invasa dai barbari, i cimiteri cessano di esistere e si seppelliscono i fedeli nelle chiese o presso di esse. Scompaiono così i banchetti, i rosalia e tutto ciò che ha carattere puramente familiare, per lasciar posto solo a ciò che è strettamente liturgico, cioè: sepoltura nel luogo sacro e Messa nel giorno della sepoltura, nel terzo, nel settimo e nell’anniversario. Questa liturgia comincia ad arricchirsi con l’introduzione dell’ufficio defunctorum, che si canta nei monasteri di Roma, probabilmente nel secolo VII.
Nel secolo X, soprattutto nei monasteri benedettini, prevalse l’uso di celebrare annualmente una memoria di tutti i benefattori o amici defunti del cenobio. Sant’Odilone, abate di Cluny, passa come colui che diede forza di legge e carattere universale a tale consuetudine invalsa già in molte chiese. Conosciamo l’editto di sant’Odilone. Esso è del 998, ma non riguarda che i soli cenobi che dipendevano allora da Cluny, e che giungevano a qualche centinaio sparsi, com’erano, in Francia, in Spagna ed in Italia. In quel documento il pio Abate ordina che il dì 1° novembre, dopo i vespri solenni, le campane diano i rintocchi funebri, ed i monaci celebrino in coro l’Ufficio dei defunti. Il giorno seguente, poi, tutti i sacerdoti debbono offrire a Dio il divin Sacrificio pro requie omnium defunctorum.
Quest’uso trovò largo seguito, dapprima nei vari cenobi benedettini; quindi a poco a poco nei rituali diocesani, finché non divenne rito universale della Chiesa latina. Negli Ordines Romani, l’anniversarium omnium animarum compare la prima volta nell’Ordo XIV, del secolo XIV.
Nei secoli a noi più vicini, la pietà verso le povere anime del Purgatorio ha conseguito un enorme sviluppo. Fu così che durante la prima Guerra mondiale (1914-1918) quando ogni città, per non dire ogni famiglia, ebbe a piangere i propri morti, Benedetto XV allargò a tutta la Chiesa Cattolica un Privilegio, che già Benedetto XIV aveva concesso agli Stati che stavano sotto la corona di Spagna: il permesso cioè ad ogni sacerdote di celebrare il dì due di novembre tre Messe in suffragio dei defunti. Nella mente del concedente, oltre l’inutile macello, com’egli chiamò quella guerra, influirono anche altre ragioni.
«La pietà degli avi – spiega il cardinal Schuster – aveva riccamente dotati gli altari, chiese e capitoli, perché dopo morte venisse suffragata con la Messa l’anima del donatore. La rivoluzione però e la confisca dei beni ecclesiastici il più delle volte hanno dissipati quei lasciti; cosicché, a cagione della miseria a cui ora è ridotto il clero, quel grande Pontefice si sentiva costretto tuttodì a dispensare capitoli, comunità religiose e sacerdoti dall’onere di questi antichi legati di Messe, divenuti ormai insolubili. Che fece allora Benedetto XV? Abituato già all’uso liturgico spagnolo sin dal tempo in cui era stato in quella nunziatura pontificia col defunto cardinal Rampolla del Tindaro, egli permise ad ogni sacerdote di celebrare tre volte la Messa nella Commemorazione dei fedeli defunti. Le condizioni furono le seguenti: uno dei sacrifici poteva venire offerto secondo l’intenzione particolare del celebrante; gli altri due, invece, volle il Papa che venissero celebrati, uno per tutti i fedeli trapassati, e l’altro, poi, a soddisfazione d’un cumulo enorme di legati di Messe, rimasti insoluti per colpa del fisco.
Questa poliliturgia del 2 novembre, nell’odierna disciplina ecclesiastica viene a costituire un privilegio più unico che raro, il quale in certo modo equipara la Commemorazione di tutti i fedeli defunti al giorno stesso del santo Natale. È il vero Natale delle anime purganti».
Da ciò si comprende la grande importanza che riveste la Messa per i defunti. San Tommaso dimostra teologicamente che è il principale suffragio. La pietà dei fedeli verso i defunti, pertanto, deve indirizzarsi anzitutto a questo “supremo suffragio”, memore che gli ornamenti dei sepolcri servono talvolta per conforto, talvolta per vanità dei vivi, più che per sollievo dei defunti. Invece questi traggono beneficio dalla Messa, dalle elemosine e da ogni genere di opere caritatevoli.

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