FEDE E CULTURA
Il fatidico anno 1492
dal Numero 29 del 21 luglio 2019
di Claudio Meli

Gli eventi che hanno contrassegnato il 1492 come anno fatidico della storia universale, cioè la fine della signoria musulmana in terra spagnola e la scoperta del Nuovo Mondo da parte di Cristoforo Colombo, sono misticamente legati...

Gli eventi che hanno contrassegnato il 1492 come anno fatidico della storia universale, cioè la fine della signoria musulmana in terra spagnola e la scoperta del Nuovo Mondo da parte di Cristoforo Colombo, sono misticamente legati: di fronte al loro rinnegamento teorico e pratico è necessario riaffermarne il significato perenne.

La Reconquista

Il 2 gennaio del 1492, al termine di una campagna lunga e difficile, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia prendevano possesso della città di Granada, capitale dell’ultimo regno moresco superstite in Spagna, concludendo così, almeno formalmente, il plurisecolare movimento della Reconquista. I Re Cattolici adempivano alle profezie che li raffiguravano come i prossimi restauratori dell’unità cristiana della nazione (1), e davano per sempre ragione al rifiuto opposto dal re Pelayo, quasi ottocento anni prima, al vescovo fellone Oppa, che lo invitava ad arrendersi agli Arabi invasori: «“Non hai letto nella Sacra Scrittura che la Chiesa di Dio può diventare piccola come un granello di senape e può poi, per grazia di Dio, essere fatta crescere di nuovo più grande?”. Il vescovo rispose: “Così è scritto”. E Pelayo aggiunse: “Cristo è la nostra speranza, che da questa esigua schiera che tu vedi la Spagna possa essere salvata e l’esercito del popolo goto ricostituito. Confido perciò che la promessa del Signore possa realizzarsi in noi come fu annunciato attraverso Davide... Nella battaglia che ci hai adombrato come minaccia, noi abbiamo il nostro Signore Gesù Cristo come nostro difensore davanti al Padre, ed Egli è potente abbastanza da salvare noi pochi da loro» (2). Alla decisione da parte di Pelayo di non sottomettersi all’islam seguiranno la vittoria di Covadonga (718), da lui e dal suo manipolo di guerrieri conseguita con l’ausilio di Maria (3), e la fondazione del Regno delle Asturie, punto di partenza della principale fra le direttrici della Reconquista.


I moriscos

L’atto che avrebbe completato davvero la Reconquista doveva essere, negli intendimenti dei Re Cattolici, la conversione al Cristianesimo dei musulmani del regno di Granada (4), ma nonostante le aspettative fiduciose, l’opera di proselitismo condotta dal grande Jiménez de Cisneros, arcivescovo di Toledo, fomentò il risentimento dei Mori, che si ribellarono: la prima guerra delle Alpujarras (1499-1501) indusse Isabella a metterli di fronte all’alternativa fra Battesimo ed espulsione dalla Castiglia (decreto del 12 febbraio 1502); né questo bastò, perché la minaccia costituita da questi cristiani solo di nome, concretizzatasi nella seconda guerra delle Alpujarras (1568-1570), portò alla loro definitiva cacciata (1609).
Si è voluto mettere a confronto il fallimento della politica di conversione di massa adottata dai Re Cattolici con l’islamizzazione spontanea di gran parte dei cristiani di Al-Andalus (5). Ora, per questi ultimi vale quanto affermò Edward Gibbon proprio in riferimento a loro: «Una provincia conquistata prende facilmente le abitudini del vincitore, sia per l’afflusso degli stranieri, sia per lo spirito d’imitazione degl’indigeni» (6); la resistenza dei moriscos invece si spiega per essere la loro presenza sul suolo spagnolo, quindi la loro stessa esistenza come comunità storica, fondata su nessun altro titolo che il diritto islamico alla conquista; né da ultimo la Reconquista ebbe altra radice che quella enunciata semplicemente dall’Infante di Castiglia Juan Manuel (1282-1348) nel suo Libro de los estados: «Essi conquistarono terre appartenenti ai cristiani. È per questo motivo che c’è guerra fra cristiani e mori, e ci sarà finché i cristiani non avranno recuperato le terre che i mori tolsero loro con la forza...» (7). È dunque curioso pretendere che i cristiani spagnoli, per amore di una convivencia di cui solo chi cerca di relativizzare il fattore religioso nella società ha una visione idilliaca, ma che sappiamo viceversa come dipendesse nel suo equilibrio dalla separazione delle diverse comunità (8), dovessero accontentarsi di una pace basata sulla sottomissione, tanto più se imposta in nome di un falso profeta (9), e tanto più se si trattava di riscattare un vergognoso cedimento; e tuttavia la sottomissione sembra essere ancora la “soluzione” che in fondo ci prospettano gli irenisti di fronte alla crescita dell’islam in Europa, accompagnata da vere e proprie cessioni di territorio (agli immigrati), di attività economiche (alla finanza araba), e sopravvenuta per la dissipazione dei risultati delle lotte dei nostri antecessori. Il problema islamico si ripresenta sempre negli stessi termini.


Chateaubriand e Lope de Vega

L’ostinazione dei Mori di Spagna ci è presentata in modo stilizzato nel racconto di François-René de Chateaubriand (1768-1848) intitolato Le avventure dell’ultimo degli Abenceragi (1811). Niente poteva accendere l’immaginazione del grande Bretone meglio della Granada appena passata sotto sovranità spagnola, se è vero, come dice di lui Charles Maurras, che «il passato in quanto passato e la morte in quanto morte, furono i suoi unici piaceri» (10): si tratta infatti della storia di Aben Hamet, discendente del bellicoso clan arabo degli Abenceragi, il quale decide «di fare un pellegrinaggio alla terra degli avi» (11) a distanza di ventiquattro anni dalla conquista cristiana (12), senonché si innamora, ricambiato, di Blanca, nobile fanciulla spagnola. Chateaubriand rende la nostalgia irreversibile e al contempo ne stempera la malinconia, là dove fa accompagnare Aben Hamet in visita all’Alhambra deserto, simbolo del suo rimpianto, proprio dalla cristiana Blanca; tuttavia nessuno dei due protagonisti acconsente al matrimonio finché l’altro non si sarà convertito alla propria religione. Nel momento in cui il Moro si risolve ad abbracciare il Cristianesimo, scopre che la sua amata Blanca appartiene alla casata dei Bivar, sui quali era venuto a vendicarsi come sui discendenti di chi aveva versato il sangue di suo nonno. La gara di generosità che chiude la novella è in realtà la manifestazione dell’inimicizia esistenziale fra musulmani e cristiani: Aben Hamet recede dalla decisione di convertirsi, e quando ha un attimo di esitazione, è la stessa Blanca a sacrificare il proprio amore, gridandogli di tornare nel deserto.
Della resa di Granada è passato fin nella letteratura il pianto dell’ultimo emiro, Mohammed XII (meglio conosciuto come Boabdil), a cui Lope de Vega (1562-1635), per esempio, mette in bocca queste parole, al momento del trionfo di re Ferdinando: «Moltiplico le mie sventure e termino la mia vita di re. Addio, famosa ed inclita Granata, lauro che adorna la fronte della Spagna; addio, bianca e bella montagna Nevada, Bermeja, bagnata di sangue. Addio, Albazino mio, e Alhambra amata; addio, Generaliffe; addio paese mio, da cui mi esilia l’invidia che si aggiunse alla spada cristiana. Dalla torre più alta al più profondo burrone gema il tuo cordoglio. O Granata, piangi ora il mio male, se la mia fortuna ti ha qualche volta rallegrato. Se per il mondo sono stato un piccolo re, da oggi non lo sono più, avendo potuto resistere e sopravvivere a tanta sventura». L’aspetto davvero notevole, però, dell’opera in questione, la commedia storica Il Nuovo Mondo scoperto da Colombo (13), è appunto la connessione fra l’impresa di Granada e quella del navigatore genovese, con la prima che rappresenta nella sua grandiosità il prologo alla straordinarietà della seconda; verso la conclusione del dramma infatti, dopo il ritorno di Colombo, l’eroe di Granada, Gonzalo Fernández de Córdoba, esclama: «Sono sbalordito di quanto è successo. Questa è stata una gran conquista compiuta in soli otto mesi». Nel primo atto tuttavia Cristoforo Colombo viene sbeffeggiato dai vari personaggi a cui sottopone il suo progetto di scoprire una «terra mai veduta», e solo per essere questo di ispirazione divina egli persevera fino all’avverarsi della condizione perché si realizzi: «Finché non sia terminata questa guerra che si combatte dentro il suo reame, e non gli diano Granata, [Ferdinando] dice che non è bene d’andare in cerca d’un mondo immaginario». A Colombo scoraggiato appare la sua Idea, che lo esorta ad afferrarsi fortemente a lei; segue quindi il dibattito davanti al tribunale della Provvidenza fra la Religione e l’Idolatria, nel quale si chiarisce la missione del navigatore essere la redenzione delle Indie; né l’intervento di Lucifero, che si presenta come «re dell’Occidente» e «padrone di quel mondo», serve a impedire il decreto provvidenziale per cui ne sarà spossessato. Come in una famosa pellicola (14), nel secondo atto i cristiani sono immaginati da Lope de Vega giungere nel bel mezzo di un conflitto fra gli indigeni, di cui le prime relazioni etnografiche evidenziavano la sensualità e lo stato di guerra perpetua, e il terzo atto descrive il progresso dell’evangelizzazione, pur nelle difficoltà e nei contrasti: la Croce trionfa sugli idoli proprio mentre vengono punite l’avidità e la doppiezza di alcuni spagnoli, nel corso di una rivolta suscitata presso gli Indios dal diavolo sotto le spoglie del falso dio Ongol.


Le Révélateur du Globe

L’elogio finale di Cristoforo Colombo pronunciato da Ferdinando il Cattolico nella commedia di Lope de Vega allude al significato del nome dell’eroe e alla similitudine con il santo omonimo, il gigante che traghettava sulle sue spalle i passeggeri (tra i quali capitò un giorno anche Cristo fanciullo) dalla sponda all’altra di un fiume: entrambi questi elementi saranno ponderati nel loro simbolismo profetico da Léon Bloy (1846-1917) nel suo libro dedicato al Rivelatore del Globo (15), ispirato alla biografia (o meglio, agiografia) di Colombo commissionata da Pio IX al conte Roselly de Lorgues, che del Servo di Dio e Terziario Francescano fu anche postulatore della causa di beatificazione. Bloy, capace di captare ogni mistica corrispondenza, lumeggia così quella fra papa Mastai Ferretti e l’Ammiraglio: «Colombo rivela la sfericità del mondo terrestre sotto i piedi di Gesù Cristo e di sua Madre; Pio IX, mediante la definizione ex-cathedra dei due grandi dogmi che ancora mancavano alla trascendente armonia dell’insegnamento teologico, ha chiuso il cerchio di luce che avvolge le intelligenze umane in esilio...»; è soprattutto però la devozione all’Immacolata Concezione a unire i due: «Sembra che quest’Apostolo abbia voluto preparare l’evangelizzazione dei popoli nuovi attraverso lo stesso procedimento divino che servì a preparare, lungo quattromila anni, la Redenzione del genere umano. Cristoforo Colombo disseminò la gloria di Maria nel mar delle Antille, imponendo il suo Nome alla maggior parte delle isole che scopriva, ma è principalmente con la dedicazione a Maria Immacolata che volle offrire al cielo le gloriose primizie della sua Missione». Lo scrittore francese presenta la situazione dell’Europa alla vigilia della scoperta tale per cui «un presentimento universale annunciava il prossimo compimento di qualche immenso Decreto», e ribadisce l’impressione che sull’animo di Colombo produsse la fine della Reconquista: «I successi inauditi della Spagna contro l’islamismo, successi che stavano per portare con la presa di Granada alla definitiva espulsione dei nemici della Croce, dopo una lotta di 778 anni, sembravano al Missionario ispirato un segno di elezione divina su questo popolo di eroi».
La visione teologica che Léon Bloy ha della missione del Porta-Cristo prefigurato da san Cristoforo e profetizzato da Isaia, è la stessa che soggiace al lavoro di Lope de Vega, per cui il Nuovo Mondo, fino al momento della scoperta, era «l’appannaggio esclusivo dello Spirito del male». Solo questo permette di comprendere cattolicamente tale impresa: «Un giorno, infine, il Signore chiamò un uomo, come aveva chiamato san Giovanni per preparare le sue vie, e l’investì, per un certo tempo, della sua potenza, affinché potesse mettere davvero fine a quella parvenza d’eternità dolorosa per la quale Satana, soprannominato la scimmia di Dio, aveva tentato di scimmiottare se stesso in una sacrilega contraffazione del suo stesso regno»; il che ha inoltre reso possibile «l’oblazione perpetua e universale del santo Sacrificio». Il diavolo quindi, nei confronti di un santo «che fa invasione nel suo regno e che viene ad abolire il suo antico e incontestato dominio», di un navigatore che «non scopre il Nuovo Mondo solo sulla terra, lo scopre fin nel cielo», scatena «la più terribile, la più accanita di tutte le persecuzioni». Questa non si è esaurita per l’Ammiraglio negli ostacoli elementali (16), nell’ingratitudine della Spagna, nelle calunnie di cui fu fatto oggetto (17), nella privazione delle dignità temporali, nell’esproprio della sua missione e nella distruzione della sua opera. Se è vero infatti che Cristoforo Colombo vide i suoi figli spirituali ridotti a «un immenso bestiame per il lavoro e per lo sterminio» – e Bloy riguardo a ciò è comunque troppo severo con gli spagnoli – gli attuali popoli americani purtuttavia rappresentano ancora quella «metà del genere umano di cui lui solo conosceva l’esistenza e che voleva donare a Gesù Cristo»: che proprio loro dunque, che gli devono quello che sono, lo abbiano rinnegato, ormai conquistati al terzomondismo, è doloroso almeno quanto il fatto che alla fine il nuovo Continente abbia preso il nome da Amerigo Vespucci, e quanto i quattro secoli di oblio di cui si lamentava Bloy a suo tempo (la vecchia, indebita intestazione da parte della Massoneria oggi ci pare addirittura inverosimile). Lo scrittore francese ha pienamente ragione, là dove dice che «il Principe del Mondo ha terrore di Cristoforo Colombo», e che le false accuse contro di lui «dureranno forse per sempre, data l’inaccettabile sublimità della vittima»; né purtroppo c’è al momento da sperare che sia la Chiesa Cattolica a rivendicare la sua gloria.  


NOTE
1) Andrew Wheatcroft, Infedeli. 638-2003: il lungo conflitto fra cristianesimo e islam, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2007, p. 125.
2) Ivi, p. 78.
3) La grotta del monte Auseva, nella Cordigliera Cantabrica, dove Pelayo si era rifugiato con la sua gente era già allora dedicata alla Santissima Vergine: ivi Alfonso I il Cattolico, genero di Pelayo, fondò in ricordo della battaglia il Santuario di Covadonga; la Santa Grotta è stata restaurata più volte, mentre i lavori della vicina basilica di Santa Maria durarono dal 1877 al 1901.
4) Senza considerare qui l’espulsione degli ebrei, decretata il 31 marzo 1492. A detta di Joseph de Maistre, «verso il fine del XV secolo il Giudaismo avea nella Spagna gettate di sì profonde radici che minacciava di soffocare intieramente la pianta nazionale» (cf. Joseph de Maistre, Lettere ad un gentiluomo russo su l’Inquisizione spagnuola, trad. it., PiZeta, San Donato (MI) 2009, p. 11: si tratta della ristampa della traduzione uscita a Modena nel 1823); dal canto suo Edward Gibbon scrisse che «l’alleanza dei discepoli di Mosè e di Maometto si mantenne fin quando gli uni e gli altri furono definitivamente cacciati dalla Spagna» (cf. Edward Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano, trad. it., Einaudi, Torino 1987, vol. III, p. 2130).
5) Andrew Wheatcroft, Infedeli. 638-2003: il lungo conflitto fra cristianesimo e islam, p. 160.
6) Edward Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano, p. 2136.
7) Citato in Andrew Wheatcroft, Infedeli. 638-2003: il lungo conflitto fra cristianesimo e islam, p. 114.
8) Ivi, pp. 88-89.
9) Ecco il giudizio in proposito di Alfonso X di Castiglia, detto il Saggio (1221-84), nelle Siete Partidas: «I mori sono un tipo di persone che credono che Maometto fosse il profeta o messaggero di Dio. Poiché le opere o azioni che egli fece non dimostrano alcuna santità particolare da parte sua, tale che possa giustificare per lui un simile status santo, la loro legge è come un insulto a Dio...»: citato in Andrew Wheatcroft, Infedeli. 638-2003: il lungo conflitto fra cristianesimo e islam, p. 113.
10) Charles Maurras, Sapore di carne e altri racconti, trad. it., Ciarrapico, Roma 1983, p. 180.
11) François-René de Chateaubriand, Atala. René. Le avventure dell’ultimo degli Abenceragi, trad. it., Mondadori, Milano 1982, p. 213.
12) La coerenza interna del testo richiede però un periodo di trentaquattro anni, non ventiquattro, dalla presa di Granada.
13) Lope de Vega, Il Nuovo Mondo scoperto da Colombo, trad. it., Edizioni Paoline, Catania 1961.
14) Apocalypto di Mel Gibson.
15) Léon Bloy, Le Révélateur du Globe, A. Sauton, Paris 1884.
16) Bloy cita per esteso il brano in cui Roselly de Lorgues narra il miracolo in mare compiuto da Cristoforo Colombo il 13 dicembre 1502, nel corso del suo ultimo viaggio: il Servo di Dio stornò un tifone recitando il Prologo del Vangelo di san Giovanni. Giovanni Papini ha messo in versi quest’episodio, e vale la pena riportare almeno la conclusione della poesia (Il miracolo di Colombo): «Dopo che il portator di Cristo tutto / ebbe scandito il prologo a gran voce, / alzò la spada sull’enorme flutto / e per tre volte lo segnò di croce. / Subitamente la colonna nera / al triplice baleno si spezzò / e incalzato da un vento di preghiera / verso ponente il gran nembo piegò».
17) Tra le altre, la fame dell’oro, quando è noto che egli cercava i mezzi per la liberazione del Santo Sepolcro. D’altra parte, nell’opera di Lope de Vega presa in esame, l’interesse per l’oro è legittimato come parallelo a quello che v’è in Cielo per le anime, e solo il suo eccesso viene punito.

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