FEDE E SCIENZA
La clamorosa beffa di Piltdown
dal Numero 2 del 13 gennaio 2019
di Antonio Farina

Nel 1912 alcuni scienziati diedero il clamoroso annuncio della scoperta dell’“uomo di Piltdown”. Ciò che da tutti fu subito salutato come l’ultimo sigillo sulla teoria evoluzionista di Darwin, si dimostrò invece non solo un colossale sbaglio, ma un vero e proprio imbroglio...

La teoria dell’evoluzione degli esseri viventi, proposta per la prima volta da Charles Darwin e da A. R. Wallace nel 1859, continua ad essere molto in voga nel mondo scientifico. Nella sua versione rimaneggiata, riveduta, corretta ed emendata dalle contraddizioni più eclatanti la “teoria sintetica dell’evoluzione” – così è stata chiamata – sebbene riscuota un universale consenso non è una teoria scientifica. L’idea originale di Darwin in base alla quale gli organismi viventi sarebbero progressivamente derivati da forme più semplici a quelle più complesse attraverso un meccanismo di selezione naturale è, e rimane, una mera speculazione intellettuale, un’ipotesi pseudo-scientifica non verificabile né falsificabile in laboratorio mediante esperimento. Le nuove conoscenze biologiche e genetiche non hanno dissipato i dubbi e le perplessità che fin dal suo esordio l’hanno vista contrapposta all’ipotesi creazionista ma, al contrario, sembrano avvalorare quest’ultima.
In ambito scientifico domina incontrastato un “paradigma di pensiero” riduzionista basato su pochi ma essenziali punti fondanti:
- la prima forma di vita si sarebbe generata “per caso”. Una connessione fortuita di molecole avrebbe generato prima gli amminoacidi, poi le proteine, poi le basi ed infine un primitivo codice genetico in grado di autoreplicarsi.
       - la ricombinazione genetica (sessuale o non sessuale) ha permesso agli organismi viventi di trasmettere ereditariamente i propri caratteri (geni) alle generazioni successive.
    - le mutazioni casuali e un meccanismo di selezione naturale (per cui sopravvivono e si riproducono con successo solo gli individui più “adatti” all’ambiente) determina l’affermarsi di nuovi “geno-tipi” ed è la ragione dell’enorme varietà di specie che si trovano tuttora in natura.
   Il “peccato d’origine” di questa pseudo-teoria risiede innanzitutto nel fatto che non è possibile dedurla dai principi della fisica e della chimica inorganica. Inoltre non giustifica in alcun modo la provenienza della grande quantità di “informazione” che ha accompagnato questi processi primordiali. Ed in ultimo fa naufragio per la chiara impossibilità di replicare in condizioni controllate gli eventi singolarissimi che avrebbero dato luogo alla Vita1.
 Non è pertanto possibile catalogarla o classificarla quale teoria scientifica falsificabile secondo la teorizzazione di K. Popper, il famoso epistemologo del ’900. Nonostante gli sforzi condotti da squadre di biologi nei laboratori di tutto il mondo (specie, a quanto pare, nell’est asiatico), non si riesce a “generare” per caso la vita in provetta ma, tutt’al più, si riesce a “manipolare” (ed anche a stravolgere) quella già esistente. Il passaggio da ciò che non è vivente a ciò che è Vivente rimane un mistero. Come pure appare indimostrabile la trasformazione nel mondo naturale di una specie in un’altra. Non si è mai visto un pollo che diventa un tacchino o viceversa. Anche perché questo fantomatico ed improbabilissimo evento, come oggi sappiamo, comporta la modifica sostanziale del DNA, il codice genetico cellulare, e del numero di cromosomi! Semplicemente assurdo. Eppure, anche se in modo dissimulato e celato sotto una montagna di paroloni e di ipotesi bizzarre, gli scienziati sembrano davvero credere che siano accadute cose del genere. 
Naturalmente qualcosa di giusto Darwin l’ha scoperto e l’ha pure detto: è del tutto evidente che esiste un meccanismo intraspecifico (cioè operante nell’ambito di una stessa specie animale o vegetale) di adattamento all’ambiente per cui un batterio diventa rapidamente “resistente” agli antibiotici e che questa proprietà possa essere trasmessa alla generazione successiva. Come pure è evidente che se una specie vegetale è attaccata da un parassita o da un fungo e riesce a produrre un meccanismo di difesa, questo divenga patrimonio di quella specie. 
L’introduzione dell’elemento casuale nel discorso eziologico riguardante la Vita è apparso immediatamente come un fattore nuovo e dirompente nella “querelle” mai sopita tra credenti e non credenti. I filosofi atei e materialisti dell’800 hanno subito tentato di avvalersi della Teoria dell’Evoluzione per corroborare la tesi della non esistenza di Dio. Lo stesso Darwin ha raccontato come si sia imbarcato (1831) a bordo del Beagle, il brigantino impiegato per i suoi viaggi fino alle Galapagos, quale credente e come man mano sia stato assalito da forti dubbi sulla realtà della Creazione. I suoi epigoni hanno fatto di più (e di peggio) sostenendo che l’ipotesi di Dio sia diventata antiquata e non più necessaria alla luce delle nuove conoscenze.


L’anello mancante, perché inesistente

Nel 1970 il biologo Jacques Monod pubblica il saggio di filosofia naturale Il Caso e la necessità che ha suscitato il più vasto dibattito nel mondo scientifico dopo L’Origine delle specie di Darwin, per cui non solo la Vita ma tutto l’Universo sia – in definitiva – frutto del Caso. Tuttavia la mancanza di prove a suffragio dell’evoluzionismo costituisce non solo il tallone d’Achille della Teoria ma anche il “vulnus” che turba i sonni dei neodarwinisti. In definitiva – questo devono aver pensato alcuni studiosi nei primi anni del ’900 – ciò che non si riesce a dimostrare onestamente con metodi scientifici, si può sempre tentare di “sdoganare” mediante un bell’imbroglio. Fu così che il 18 dicembre 1912 il paleontologo Arthur Smith Woodward, un dipendente del settore di Geologia del British Museum, e l’archeologo Charles Dawson, fecero un clamoroso annuncio alla Geological Society di Londra: «Sono stati ritrovati i resti fossili di un nuovo ominide che è l’anello mancante nell’evoluzione tra la scimmia e l’uomo». Il ritrovamento consisteva in alcuni frammenti di cranio e osso mandibolare, dichiarati dagli scopritori come raccolti in una cava di ghiaia nella zona di Piltdown, nell’East Sussex. All’ominide sconosciuto fu assegnato il nome scientifico di Eoanthropus dawsoni o «uomo di Piltdown». La prudenza era d’obbligo: il materiale presentato consisteva essenzialmente in una mandibola di primate contenente due molari e in alcune parti di un cranio di “tipo umano”. Gli scavi continuarono tra il 1913 e il 1914, portando ad altri ritrovamenti, ma furono interrotti dallo scoppio della prima Guerra mondiale e dall’aggravarsi delle condizioni di salute di Dawson, che morì il 10 agosto 1916. L’Eoanthropus era talmente necessario al darwinismo che non si andò tanto per il sottile e poiché aveva suscitato un eccezionale interesse sia tra gli specialisti che tra il pubblico la scoperta fu accreditata subito come autentica. Un ulteriore motivo per accogliere favorevolmente l’evento era costituito dal prestigio nazionale: nel 1907 l’Homo heidelbergensis aveva dato lustro alla Germania conferendole un posto di primo piano nella ricerca di reperti fossili, la scoperta dell’uomo di Piltdown avrebbe assicurato alla Gran Bretagna il ruolo di guida nel quadro delle scoperte paleoantropologiche. Resta il fatto che più di qualcuno dubitava dell’autenticità del ritrovamento a causa di alcune incongruenze cronologiche e anatomiche. Negli anni ’20 furono trovati in Cina, Indonesia e Africa fossili di ominidi che non presentavano la “singolare combinazione” di una mandibola di primate e di un cranio umano.


Truffa smascherata


Quello che all’epoca della presentazione poteva essere solo un sospetto, poté essere dimostrato efficacemente solo negli anni ’40 e ’50 con tecnologie di indagine più moderne di quelle disponibili all’epoca2. Infatti spinti dallo scetticismo, l’antropologo del British Museum Kenneth Oakley ed altri scienziati iniziarono un’analisi sistematica dei frammenti di Piltdown e dimostrarono inoppugnabilmente che la mandibola era molto più recente di quanto asserito da Dawson, che apparteneva ad un orango ma era stata astutamente modificata, colorata e sepolta a Piltdown insieme con parti di un cranio umano. Anche quest’ultimo era stato “tinteggiato a chiazze” per dargli il colore della ghiaia. Dunque non esisteva alcun “anello mancante”: si trattava di un falso clamoroso! A questo punto si scatenò una querelle mediatica di chi, materialmente, era stato il responsabile della truffa. Indice puntato in primo luogo sugli “scopritori” Dawson e Smith Woodward, ma nel furore iconoclasta che ne seguì fu coinvolto anche il gesuita Pierre Teilhard de Chardin, che – a detta di alcuni – era stato presente agli scavi e aveva “scoperto” un dente dell’asserito ominide. Verità, menzogne, denunce, calunnie... le cose non sono mai state ben chiarite. «Un articolo pubblicato il 10 agosto scorso (per ironia della sorte a cent’anni giusti dalla morte di Dawson) su Royal Society Open Science fornisce un resoconto assai preciso di questa frode e, soprattutto, una descrizione delle complesse indagini che hanno portato ad attribuirla al solo Dawson. Più dei particolari tecnici (datazione al radiocarbonio, esame del DNA...) interessa il lato umano della vicenda: perché mai un avvocato di successo, noto per le competenze di geologo, archeologo e storico, possessore di una cospicua collezione di fossili depositata al British Museum, divenne contraffattore di reperti?»3. A questa domanda faremmo bene a rivolgere anche noi una certa attenzione, senza tanti pregiudizi e tanti preconcetti. Certamente c’è stata una componente individuale: «È opinione di parecchi che Dawson fosse mosso dalla bruciante ambizione di divenire membro della Royal Society».
Tuttavia è innegabile che questo episodio si innesta, per così dire, o si incastona se preferite, come un ennesimo tassello nella disputa, spesso scomposta, tra credenti e atei militanti. Tra coloro che credono in un Dio Creatore, amoroso Ordinatore dell’universo, e quelli che vorrebbero spodestarlo, relegandolo sdegnosamente nel dimenticatoio, riducendolo ad un consunto, oscurantistico retaggio della tradizione semitica. Purtroppo gran parte del mondo scientifico fin dai tempi di Galileo Galilei (e forse proprio a causa della sua abiura), non demorde dall’ostinata volontà di negare ogni forma di Metafisica e di Trascendenza. Ma la cosa è più generale. Come afferma Monod facendosi portavoce e corifeo di un sentire comune: «Noi vogliamo essere necessari, inevitabili, ordinati da sempre. Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la propria contingenza». Insomma – è doloroso constatarlo – una parte del genere umano nega (disperatamente) l’esistenza di Dio.


Chi vuole svilire l’uomo?

In realtà questo episodio truffaldino si inquadra nel più profondo del Misterium iniquitatis: nell’operare di satana e dei suoi satelliti. Ed allora perché sorprendersi? L’ateo si comporta in modo molto diverso dall’agnostico: nel suo furore iconoclasta, nella sua ansia distruttrice non esita nemmeno a ricorrere al falso, alla frode, all’inganno; non esita a barare spudoratamente pur di accreditare una visione materialistica ed immanentistica della Realtà. L’ateismo razionale (vedi UAAR) esalta la Ragione, la Scienza e la Tecnologia presentandole come la Panacea di tutti i mali dell’umanità ma si tratta di un millantato credito: solo Dio ci salva per mezzo di Gesù Cristo. L’Uomo è stato creato personalmente dalla Santissima Trinità come essere vivente a Sua immagine e somiglianza e le singole specie sono state create una per una: «Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,25). Le domande fondamentali: “perché esiste qualcosa anziché nulla?” (problema della contingenza) e “da dove proviene l’ordine perfetto e lo “scopo” (telos) che ha dato vita all’universo?” (oggi si dice il problema dell’“Entropia zero”) non sarebbero minimamente scalfite nemmeno dagli assiomi neo-darwinisti: il loro superamento è solo apparente. L’evoluzione stessa presupporrebbe l’esistenza di un Progetto Intelligente (Intelligent design). Come si sono resi conto i filosofi dell’Istituto per l’ateismo scientifico di Leningrado attivo per oltre settant’anni nell’Unione Sovietica non è possibile dimostrare la non esistenza di Dio. Pertanto l’operazione anti-apologetica che ha cavalcato la teoria di Darwin roteandola come una clava contro la Religione è stata fallimentare, è stato un tentativo andato a vuoto ed anche un pessimo servigio reso all’umanità in quanto ha sollevato solo dubbi, sgomento e confusione negli spiriti meno critici. A che giova negare la dignità trascendente umana? L’esistenza dell’anima? Non riconoscere la nostra superiorità ontologica rispetto agli animali? Perché abbrutire le nostre origini, avvilirle, svilirle riducendole a quelle d’una scimmia glabra che ha sviluppato l’intelletto, il linguaggio, l’arte, la musica e la cultura perfino solo perché “armi vincenti” nella competizione per la sopravvivenza? Alla visione squallida, spregevole e desolante dei neodarwinisti si oppone quella fulgida della Fede: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”» (Gen 1,26).

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