I FIORETTI
Finalmente a San Giovanni Rotondo
dal Numero 38 del 27 settembre 2015

Ricevuto il dono prezioso della sua Corona ed il significativo messaggio che conteneva, baciai con trasporto filiale la mano del Padre.
Egli, seduto sulla poltrona, bianco in viso, diafano, con uno sguardo dolce e dolente che mi avvolse tutto, mi bisbigliò all’orecchio: «Prega per me».
«Padre spirituale – riuscii a dire – sono io che ho bisogno delle sue preghiere». Aggiunse: «Figlio mio, ti dico che il giudizio di Dio è severo».
Mi resi conto che stava preannunciandomi prossima la fine.
Infatti, qualche giorno dopo, mi ritrovai accanto alla sua bara, ai piedi dell’altare. Vi rimasi ininterrottamente, tutto il tempo in cui fu esposta alla venerazione dei fedeli, a detergere con un panno il vetro che la ricopriva, dopo il bacio di un’incalcolabile folla.
Era sereno, bello, nella solenne rigidità della morte.
Il 17 gennaio dell’anno seguente, fui trasferito definitivamente a San Giovanni Rotondo. Il sogno di tanti anni si avverava. Potevo finalmente starmene vicino al Padre che, anche se morto, sentivo più vivo che mai. Potevo aggirarmi nei luoghi che l’avevano visto operare, gioire, pregare, soffrire.
Durante il giorno, nelle ore libere dal lavoro, me ne stavo davanti al Crocifisso delle stimmate, in Coro, a meditare sulla sua vita di martire modellata a quella di Cristo.
A refettorio contemplavo il suo posto, ormai vuoto. Fiori variopinti, sempre freschi, che delimitavano lo spazio della mensa a lui riservato, mi parlavano del profumo delle sue virtù.
Sul matroneo accarezzavo la sponda su cui poggiava le braccia per nascondervi il viso, in prolungata preghiera.
Sostavo a lungo davanti al confessionale, rivedendolo nel sofferto ed illuminato rito della penitenza, o davanti all’altare di san Francesco, dove per anni l’avevo ammirato nell’estatico abbandono della Celebrazione Eucaristica. Mille ricordi mi affollavano la mente!
A sera, quando i Frati, dopo cena, si ritiravano nelle loro celle, scendevo in cripta e, vicino a lui, pensando a lui, sgranavo la Corona benedetta. Nacque così il Rosario delle 21 di cui ho parlato nelle pagine precedenti.
Nei giorni successivi fui assegnato allo «sportello» del Convento. Rispondevo al telefono. Ricevevo i pellegrini.
Notavo che, invece di diminuire, l’ansia di ricerca del Padre aumentava sempre più e, a tutt’oggi, quel crescendo non conosce tregua. Tutti volevano sapere. Tutti volevano sentir parlare di lui. Io non mi risparmiavo anzi, non badavo all’orario di lavoro che pur si faceva sempre più estenuante.
Ricordavo ciò che Padre Pio un giorno mi disse: «Stai tranquillo. Ti starò sempre vicino e lo sguardo di san Francesco sarà sempre sopra di te». L’eco di quelle parole m’infondeva forza, coraggio, mentre ne esperimentavo la veridicità profetica.
Ero felice. I figli spirituali di Padre Pio, mio tramite, aumentavano. Seminavo Rosari.
La mia gioia raggiunse il vertice quando il Superiore dell’epoca, Padre Pellegrino Funicelli, mi diede la chiave della cella di Padre Pio e la chiave dell’archivio per mettere in ordine. Dovevo sigillare in appositi contenitori di cellophane, gli indumenti del Padre e tutto quanto era appartenuto a lui o da lui era stato usato, ad eccezione di ciò che era riservato alla competenza del Postulatore. Non so descrivere ciò che provai! A distanza di tanto tempo, avevo capito perché Padre Pio, con tutte le sue forze, aveva voluto che vivessi la mia vocazione religiosa tra i Cappuccini e non tra i Benedettini.
Prima di tutto misi ordine nella cella del venerato Padre. Posso testimoniare che più di una volta, tra quelle mura, sono stato avvolto dall’inconfondibile profumo di Padre Pio.
Lavoravo pregando e pregavo lavorando, col cuore gonfio di commozione. Nella mente ricordi, ricordi, ricordi.
Davanti al lettino del Padre mi fermavo spesso. Mi parve una volta di risentire ciò che ascoltai dalle sue labbra una sera del 1964. Ero solo con lui quando testualmente mi disse: «Senti, figlio mio, prega questo Dio che mi faccia gustare un po’ di sonno. Mi fanno male gli occhi. Crepo dal sonno. Sono tre anni che non dormo».
All’interno di quella cella sempre un nodo mi serrava la gola. Accarezzando la poltrona su cui spirò il Padre mi sembrava di rivedere, in un’interminabile sequenza di quadri, tutte le scene della sua vita che riuscivo facilmente ad immaginare. Come potrei descriverle?
Toccare le sue cose! Ogni oggetto, una reliquia!
Privilegi, onore, responsabilità. Un groviglio di sensazioni. Di sentimenti. Con soddisfazione portai a termine quel lavoro...

Fra Modestino da Pietrelcina,
Io... testimone del Padre,
pp. 71-73

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