I FIORETTI
“Un frate mi sorrideva…”
dal Numero 25 del 3 luglio 2022

Martina Ghini è una signora attivissima, infaticabile lavoratrice. Vive a Milano. Per un lungo periodo della sua esistenza è stata impegnata nel mondo della moda e ora gestisce un negozio. Suo marito è un noto e bravo pittore. L’ho conosciuta nel 1985. 

«Sono nata in Emilia – mi raccontò – e, per ragioni particolari e dolorose, ho avuto un’infanzia e una giovinezza piuttosto travagliate. A 9 anni cominciai ad andare a lavorare per guadagnarmi da vivere. Erano tempi difficili. Dovetti adattarmi a tutto. Durante la guerra lavoravo a Bologna, in una tintoria, ma i vapori e gli acidi erano nocivi alla mia salute. Nel ’45, una mia amica, che era riuscita a sistemarsi a Milano, mi trovò un posto in un maglificio, e senza esitare mi trasferii nella metropoli lombarda. 

Avevo molti sogni per la testa, ma ero completamente priva di mezzi economici. Mi sistemai alla meno peggio. Mangiavo poco, pativo il freddo e lavoravo moltissimo. Poiché ero l’ultima arrivata, nel maglificio dovevo svolgere le mansioni più dure. Ero addetta all’imballaggio, un compito che richiedeva forza fisica e un grande dispendio di energie. Sopportavo tutto, nella speranza che arrivassero giorni migliori, ma la mia salute crollò. Verso la fine del ’45, cominciai a star male. Mi sentivo debole, avevo la tosse e verso sera mi saliva la febbre di alcune linee. Avrei dovuto curarmi, ma non volevo assentarmi dal lavoro per paura di perdere il posto. Continuai a presentarmi al maglificio anche se avevo la febbre. Pensavo si trattasse di una semplice influenza, che potevo superare restando in piedi. Ma, giorno dopo giorno, le mie condizioni peggioravano e la tosse aumentava in maniera paurosa. 

Una mattina, appena alzata, durante un attacco violento di tosse, ebbi uno sbocco di sangue. Mi spaventai e corsi subito dal medico. Era troppo tardi. Il medico riscontrò delle ombre sui miei polmoni e mi mandò da uno specialista. Fui sottoposta a meticolosi esami radiografici che evidenziarono una tubercolosi bilaterale, già grave. “Deve esser ricoverata urgentemente” disse il professore. 

Il giorno dopo, con la dichiarazione del professore mi presentai al “Litta” di via Sforza, per essere ricoverata, ma non c’erano posti liberi. “Torni domani” mi dissero. Tornai il mattino dopo, ma ancora non si era liberato nessun letto. Continuai a tornare ogni mattina, per tutto un mese. Naturalmente le mie condizioni di salute peggioravano a vista d’occhio. Quando finalmente potei entrare in ospedale, faticavo a reggermi in piedi. 

Cominciarono le cure, ma senza giovamento. Il mio stato era grave e non reagivo alle medicine. Fu necessario intervenire chirurgicamente. Fui sottoposta a otto operazioni, ma senza alcun risultato positivo. Allora, da Milano, mi trasferirono a Garbagnate, dove continuai a peggiorare. Non riuscivo più a mangiare. I polmoni erano pieni di liquido che mi veniva regolarmente tolto, ma non potevo stare sdraiata perché quel liquido mi soffocava. La febbre era sempre molto alta. Perdevo peso: da 65 chili ero scesa a 46. 

Un frate mi apparve in sogno

Dopo due anni di questo calvario, per me non c’erano più speranze. I medici aspettavano solo che morissi. Infatti, andavo spegnendomi lentamente. 

Una sera il professore disse a suor Ambrogia, che mi assisteva, di tenere pronto l’olio santo per l’estrema unzione e di avvisare i miei parenti che mi restavano poche ore di vita. Sentii quelle parole, ma non ebbi alcuna reazione. Ero così distrutta, stanca di soffrire, che consideravo la morte una liberazione. Ma fu durante quella notte che accadde il prodigio. Come ho detto, non riuscivo quasi mai a dormire. Non potevo sdraiarmi, perché sarei morta soffocata, e restavo seduta, con quattro, cinque cuscini dietro le spalle. In quella posizione, ogni tanto, vinta dalla debolezza, mi appisolavo. 

Quella notte, proprio mentre mi trovavo in quel particolare stato di dormiveglia, ebbi una “visione”. Non fu un sogno, ne sono certa. Mi pareva di essere vicino alla casa dove sono nata, in un prato dove da bambina andavo a giocare. Il prato era verde e pieno di fiori. Vidi un frate con la barba. Sorrideva. Quando mi fu vicino, disse: “Non aver paura. Prega Gesù e guarirai”. Alzò la mano e mi benedisse. Poi ripeté la stessa frase con voce calma, sicura e un sorriso dolcissimo sulle labbra. 

Quella visione e quelle parole mi tolsero immediatamente dal torpore in cui mi trovavo. La mia mente divenne lucidissima. Mi chiedevo che cosa fosse accaduto e che significato avesse ciò che avevo visto e sentito. Desideravo confidarmi con suor Ambrogia, ma era notte fonda. 

Attesi pazientemente fino al mattino. Dentro di me sentivo una gioia strana, una insolita energia, una voglia di parlare che non conoscevo da mesi. Appena vidi la suora, le dissi: “Madre, per favore, mi porti un caffè”. Suor Ambrogia mi guardò stupita. Da settimane non chiedevo più niente, perché ogni cosa che tentavo di inghiottire mi provocava conati di vomito. “Diamoglielo – disse la suora rivolta a una consorella –; povera ragazza, sono i suoi ultimi desideri”. Suor Ambrogia mi fece portare il caffè e con meraviglia restò a guardare mentre lo bevevo senza vomitare. 

Nessuna traccia del male 

Allora le raccontai della visione. La suora mi ascoltò pazientemente, ma scrollò la testa come per dire che avevo già le allucinazioni dell’agonia. Alle undici, chiesi una mela cotta e la mangiai senza problemi. La suora mi guardava sempre più incuriosita. 

A mezzogiorno mi portarono una lettera. Era di un amico che avevo conosciuto sul lavoro. Mi scriveva da San Giovanni Rotondo. Diceva che, sapendo quanto ero ammalata, era andato da padre Pio a chiedergli la grazia della guarigione. Nella lettera aveva incluso una fotografia del Padre. Come vidi quell’immagine, rimasi allibita: “Questo è il frate che ho visto stanotte!” gridai. Chiamai la suora e le mostrai la foto. “Padre Pio”, disse, e da quel momento cominciò a prendere in seria considerazione la mia vicenda. 

Suor Ambrogia riferì quanto avevo raccontato, ai medici. Tutti erano curiosi e venivano a vedermi. Io mi sentivo benissimo. Ripresi a mangiare normalmente. Recuperavo in fretta energie e peso. I professori non riuscivano a spiegarsi quel mio improvviso miglioramento. Dopo un paio di giorni potei addirittura alzarmi dal letto e riprendere a camminare.

Acquistavo prodigiosamente le forze di giorno in giorno, finché mi sentii tornata normale. Fui dimessa. Quando andai a salutare il professore, questi mi raccomandò di essere molto prudente, di evitare le fatiche, il freddo, i viaggi. “Se non vuoi tornare qui dentro – disse – devi mettere in pratica le mie raccomandazioni alla lettera”. 

Invece, tornata a casa, ripresi a lavorare come una dannata. Mi sentivo forte e avevo voglia di affermarmi. All’inizio tornai in fabbrica, poi cominciai a lavorare in proprio. La mia guarigione era perfetta. 

Molti anni dopo, avendo saputo che per legge mi sarebbe spettata una pensione di invalidità civile, feci domanda per averla. Fui chiamata alla visita di controllo e i medici mi chiesero se volevo prenderli in giro: i miei polmoni risultavano sanissimi. Feci tre ricorsi, raccolsi un malloppo di documentazioni negli ospedali dove ero stata ricoverata, ma non ci fu niente da fare. Neppure all’esame radiografico risultava traccia della malattia che mi aveva portata in fin di vita. 

 

Renzo Allegri, I miracoli di Padre Pio, pp. 165-169

Casa Mariana Editrice
Sede Legale
Via dell'Immacolata, 4
83040 Frigento (AV)
Proprietario: Associazione CME Il Settimanale di Padre Pio. Tutti i diritti sono riservati. Credits