PADRE PIO
Sergio Rendine: “La mia infanzia con Padre Pio”
dal Numero 22 del 5 giugno 2022
di Roberto Allegri

Padre Pio nei ricordi del maestro Sergio Rendine che, con occhi di bambino, assisteva alla vita ordinaria e straordinaria di un Santo.

Pescara, maggio. «Da bambino ho vissuto insieme a padre Pio!». Ha esordito così il maestro Sergio Rendine e solo con questa frase mi ha catturato. Prima che cominciasse il suo racconto, prima ancora che mi mostrasse le foto e le reliquie che conserva gelosamente, mi sono immaginato tutta la portata straordinaria contenuta nelle sue parole. Un bambino accanto ad un santo. Mi è sembrata una bellissima favola.

«Ma è tutto vero. Fa tutto parte della mia infanzia», ha detto ancora il maestro. 

Sergio Rendine, classe 1954, napoletano, è ritenuto oggi uno dei maggiori compositori moderni di musica classica. A solo 4 anni e mezzo, fece il suo primo concerto di Beethoven al San Carlo di Napoli. Diplomatosi poi in Composizione al Conservatorio di Roma e in Musica Corale e Direzione di Coro al Conservatorio di Pesaro, ha lavorato per La Scala di Milano, per l’Opera di Roma, l’Arena di Verona, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Bolscioi di Mosca, l’Orchestra Sinfonica Nazionale di Praga, l’Orchestra di Stato di San Pietroburgo. Ha composto musica per la BBC e per la RAI. Nel 1995 è stato invitato dall’organizzazione del Nobel per la Pace a comporre l’Alleluja, eseguito al termine della consegna dei premi ad Oslo. E in onore di padre Pio ha composto la Messa ufficiale per la sua beatificazione. 

«Tutto questo è il mio lavoro, è la mia passione per la musica – spiega –. Poi c’è la mia infanzia. E ne fa parte padre Pio».

Dai 6 ai 14 anni, Rendine ha vissuto accanto a lui nel convento di San Giovanni Rotondo. «Non appena finiva la scuola, mio padre che era un suo figlio spirituale, mi portava da lui. Rimanevo nel convento tutta l’estate. Avevo una mia stanzetta, facevo la vita dei frati. Mangiavo con padre Pio, restavo spesso fino a tardi nella sua cella e mi addormentavo lì, mentre lui pregava o rispondeva alle numerosissime lettere che riceveva. Mi chiamava “Sergitiello” e nel silenzio del giardino del convento mi insegnava il catechismo».

Il papà del maestro Rendine era Furio Rendine, leggendario autore di canzoni napoletane che aveva scritto per Claudio Villa, Aurelio Fierro, Nunzio Gallo e Marisa del Frate. Ed era amico di padre Pio. 

«Papà mi portò da padre Pio la prima volta nel 1960. Avevo 6 anni. Papà aveva avuto un brutto incidente d’auto, si era salvato ma aveva riportato la frattura del femore in otto punti. Una gamba gli era rimasta più corta dell’altra di cinque centimetri e il ginocchio era irrimediabilmente anchilosato. Papà doveva camminare col bastone. Era però convinto che fosse stato padre Pio a salvarlo dalla morte e così volle andare a ringraziarlo di persona. E portò anche me. Ricordo che il Frate ci impartì la benedizione e papà si chinò di fronte a lui senza accorgersi di essere riuscito tranquillamente a piegare il ginocchio immobilizzato. Uscì dalla stanza dimenticando il bastone. Realizzò quanto era accaduto solo qualche minuto più tardi, quando padre Onorato Marcucci, assistente di padre Pio, lo rincorse col bastone in mano. “Furio! – gridava padre Onorato – Furio, tu cammini senza questo!”. Papà si bloccò per alcuni istanti, poi capì. E come un bambino si mise a correre per il convento, su e giù per le scale, urlando di gioia. Il giorno dopo andò all’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza, portando con sé le radiografie fatte a Napoli quindici giorni prima. Gliene fecero delle altre e poi il radiologo le confrontò. “Ma è sicuro che si tratta della stessa persona?”, chiese il medico. “Qui ci sono otto calli ossei nel femore ma nelle lastre di oggi l’osso è integro!”. Poi vide l’espressione attonita di mio padre e aggiunse: “Scommetto che è la prima volta che viene a San Giovanni Rotondo. Noi, con padre Pio siamo abituati a queste cose!”.

Se chiudo gli occhi e penso al Padre, mi pare di averlo davanti. Aveva la carnagione bianca come il marmo, la barba candida e gli occhi che ti penetravano. Mi pareva quasi che avesse un’aurea luminosa attorno al volto. Camminava strusciando i piedi a terra, a causa delle stimmate sui piedi che gli davano molto dolore. Perciò, lo si sentiva arrivare dal rumore dei piedi trascinati. Aveva poi una voce profonda. I primi tempi mi metteva molta soggezione poi però imparai a conoscerlo. E per me aveva sempre un sorriso meraviglioso. Gli piaceva tanto fare scherzi, specie ai confratelli. “Sergitiello – mi diceva ad esempio –, prendi quel pezzo di stoffa e mettilo tra i piedi di padre Onorato. Poi grida: aiuto! Un topo! Dai! Così si spaventa!”. Lo facevo e padre Onorato si metteva a correre.

E poi padre Pio mi insegnava il catechismo. Mi portava nel giardino del convento, mi faceva sedere sulle sue ginocchia e mi parlava di Gesù. Mi dava sempre delle caramelle che all’esterno erano dure ma avevano un ripieno di crema di menta. “Vedi Sergitiè – mi diceva –, la sofferenza per Gesù è come queste caramelle: dura fuori ma tanto dolce dentro!”. Un’altra volta invece gli chiesi perché Gesù, prima di risorgere, era stato agl’inferi. Mi rispose: “Hai mai tirato una pallina di carta con la molla della penna? Tu pigli la molla della penna e ci metti la pallina sopra. Poi per farla partire devi premere la molla, devi farla andare verso il basso. La carichi di forza, poi lasci la molla e la pallina se ne va in cielo”. Questa fu la spiegazione di padre Pio. Per andare in Cielo devi scendere in basso per caricarti.

Restavo al convento durante le vacanze di Natale, quelle di Pasqua e poi per tutta l’estate. Ogni tanto i miei genitori venivano al convento perché erano entrambi devoti di padre Pio. Stavano un po’ in paese e poi tornavano a Napoli. Al convento avevo una mia stanzetta. I primi tempi dormivo con padre Eusebio Notte, che in quegli anni assisteva padre Pio. In seguito mi diedero una stanza tutta per me. Facevo la vita e gli orari dei frati. Avevano detto a padre Pio che ero “piccerillo”, piccolino, e che forse sarebbe stato troppo impegnativo per me alzarsi nel cuore della notte per andare in chiesa. Ma padre Pio aveva risposto: “No, no, Sergitiello fa come noi!”. E così mi alzavo di notte con i frati e andavo nel coro per le Lodi.

Mangiavo accanto a lui, mi voleva alla sua sinistra. Mi ricordo che gli piaceva tanto il crème caramel. Col cucchiaino prendeva una puntina, lo assaporava e poi spingeva il resto verso di me. In un attimo, io che ero goloso, lo mangiavo tutto. A pranzo, amava la mozzarella di bufala. Gliela portavano e lui con la punta del coltello ne prendeva un pezzetto invisibile. “Quanto è buona”, diceva. E spingeva il resto verso di me. Lo stesso avveniva con la pastina alla sera. Padre Pio quindi non mangiava praticamente mai. In compenso io mangiavo per due. Non mangiava e non dormiva. Io spesso mi addormentavo nella sua cella e poi mi venivano a prendere. Lui andava avanti a pregare e poi si metteva al tavolo a rispondere a tutte le lettere che riceveva. Tutta la notte. Poi si appoggiava forse un’ora al letto e quindi si preparava per la Messa.

Ho assistito tantissime volte alla sua Messa. Sull’altare, era come se fosse una persona diversa, completamente distaccata da tutto il resto. Non era più lì. Era in concentrazione totale. Assente. Se in quei momenti gli avessero incendiato la barba non se ne sarebbe accorto. Era incredibile come facesse a resistere ad alcuni sforzi fisici. Per esempio teneva l’Ostia alzata, con le braccia tese, per tantissimo tempo. Lo stesso faceva con il calice. Finita la Messa, faceva una ventina di minuti di ringraziamento. E allora vedevo che rientrava nel mondo. Respirava a fondo, si toccava la barba, riprendeva poco alla volta contatto con la realtà fisica. 

Sono stato testimone di un fatto straordinario che avveniva alla Messa, tutte le domeniche di Pasqua. Al momento dell’elevazione, quando padre Pio teneva in alto l’Ostia, un raggio di sole entrava dalla vetrata e colpiva la particola. Allora un’onda di commozione percorreva tutta la chiesa e la gente scoppiava in lacrime. Quel raggio luminoso entrava dalla vetrata anche se fuori il tempo era nuvoloso: in quel preciso istante, quello dell’elevazione appunto, le nuvole si aprivano e appariva il sole. La luce percorreva come un raggio laser la chiesa e toccava l’Ostia. Era qualcosa da lasciare senza fiato. 

Sono stato anche uno dei pochi che non solo ha potuto vedere da molto vicino le stimmate di padre Pio, ma che le ha anche tenute tra le mani. Una sera, padre Pio era ammalato, aveva la febbre altissima. Stava a letto e accanto a lui c’era padre Onorato. Gli stava pulendo la ferita sulla mano destra con l’ovatta. Io ero con loro, nella cella di padre Pio, seduto in disparte. Avevo 11 anni. Ad un certo punto, vennero a chiamare padre Onorato perché lo cercavano al telefono. “Continua tu Sergitiè”, mi disse padre Onorato. E mi diede l’ovatta. A me faceva un po’ impressione. Però, piano piano, presi la mano di padre Pio che stava dormendo. Ho visto molto bene che c’era un buco, un foro, potevi vederci attraverso. 

Ma ho visto tanti altri prodigi, cose incredibili e bellissime. Una volta, ad esempio, vennero a dirgli che era arrivata una signora francese e chiedeva di lui. La donna aveva camminato a piedi nudi dalla Francia per chiedere a padre Pio di salvare suo figlio, molto malato. Era distrutta dalla fatica, lacera e sporca. E i suoi piedi erano un’unica piaga sanguinante. Padre Pio si arrabbiò: “Queste cose non si fanno! – gridava – Il Signore si prega anche a casa. E poi io non posso fare niente!”. Con queste parole aveva voluto dire che gli era impossibile ottenere da Dio la guarigione di quel figlio. La donna stava in ginocchio, piangeva. Lui si addolcì, la fece alzare e poi le guardò i piedi. “Guardate come state combinata”, disse. E si piegò sventolando la mano come se volesse togliere la polvere dai piedi martoriati. Poi salutò, diede la benedizione e se andò. Io rimasi indietro. Gettai l’occhio sui piedi della donna e vidi che erano perfettamente guariti, lindi e puliti come fossero appena usciti da una pedicure. 

Ho assistito anche ad un esorcismo di padre Pio. Avevo 12 anni. C’era una donna di Torino che era posseduta. Si chiamava Dina. Era piccolina ma dovevano esserci almeno quattro uomini per trattenerla. Io stesso l’avevo vista contorcersi, saltare come una scimmia e camminare a testa in giù sul soffitto come un ragno. Una sera la portarono da padre Pio. C’erano i frati, c’era mio padre e anche io. 

La chiesa era chiusa e c’erano solo le candele accese sull’altare. La donna posseduta stava al centro con tutti gli altri che la tenevano stretta. Urlava da spaccare i timpani. Ad un certo punto, si sente il rumore dei passi di padre Pio, lo strusciare dei suoi piedi. Arrivò, sostenuto da padre Eusebio e da padre Onorato. Era tra l’altare e la donna e quindi le candele, che stavano dietro di lui, proiettavano la sua ombra a terra. Quando l’ombra ha toccato la donna, questa ha cominciato a tremare come fosse attraversata dalla corrente elettrica ed è svenuta. Dopo pochi secondi si è ripresa e stava benissimo. Padre Pio si girò verso i frati e disse: “Ma m’avete chiamato per ‘stu diavulicchio!’” e se ne andò.

Un’altra volta, accadde qualcosa di ancora più indescrivibile, lì davanti ai miei occhi. Non ricordo l’anno. Era morto un frate del convento; sono sicuro che non era un sacerdote e quindi non era “padre”. Io stavo nel salottino insieme a padre Pio e ad altre persone. C’era anche mio papà. Vennero ad avvisare il Padre del decesso che era avvenuto nell’ospedale Casa Sollievo. Al sentire la notizia, vidi padre Pio scoppiare in lacrime. Piangeva sconsolato e capii che era molto affezionato a quel confratello. Singhiozzava e sentivo che diceva: “Perché? Perché?”. Poi all’improvviso disse: “Portatemi da lui!”. Ci alzammo tutti e andammo all’ospedale. Prendemmo le automobili perché anche se Casa Sollievo era vicina al convento, quel giorno pioveva a dirotto. Io e mio padre eravamo in una macchina, padre Pio e altri frati ne presero una seconda. Poi ci furono altre persone che invece vennero a piedi, sotto gli ombrelli. Entrammo nella camera mortuaria dell’ospedale. Vidi bene che c’era la salma di questo frate coperta dal lenzuolo, tranne il viso. Ricordo che aveva la barba rossa. Portarono una sedia per padre Pio che si sedette lì davanti. Continuava a piangere. Si dondolava, avanti e indietro, come se stesse cullando questo suo amico ormai senza vita. Ad un certo punto si asciugò gli occhi con il fazzoletto e poi disse: “Lasciatemi solo in preghiera”. Uscimmo tutti e restammo nell’anticamera. C’era un silenzio totale, nessuno parlava, si respirava appena. Non so quanto tempo passò, forse pochi minuti ma all’improvviso la porta si aprì. Apparve padre Pio. Era contento, sorrideva. E teneva sottobraccio il frate che poco prima era morto. Ma adesso era in piedi, vivo. L’ho visto bene. Aveva il lenzuolo avvolto attorno al corpo e mi fece pensare agli antichi romani. Tutti i presenti caddero in ginocchio, gli occhi sgranati. I frati in fretta e furia fecero andare via tutti, me e mio padre e le altre persone che erano presenti. E si chiusero la porta alle spalle. Ho visto tutto quanto.

La mia infanzia è stata così, immersa nella meraviglia e nel mistero. Ho portato con me ogni particolare nella vita, nella musica, anche nei numerosi sbagli che ho fatto perché sono un uomo come tutti. Ma so che padre Pio ha messo semi in me, li sento. Così come sento la sua presenza accanto a me, ogni giorno. Non mi abbandona mai».

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