I FIORETTI
Un miracolo... e Palermo è convertita!
dal Numero 34 del 1 settembre 2019

Un pomeriggio del 1951, a San Giovanni Rotondo, nell’ufficio della prenotazione delle donne per la Confessione da padre Pio, una signorina siciliana, che per la dolcezza della voce e dei modi sembrava timida, mi disse: «Padre, io non posso aspettare il turno per la Confessione, perché ho lasciato mio padre moribondo a Palermo».
Non riuscì a frenare le lacrime ed estratto un fazzoletto le asciugò e continuò tra i singhiozzi: «Lei prima che arrivi il mio turno non vuol farmi confessare. Mi faccia almeno la carità di raccomandare il mio papà a padre Pio e gli dica che se strappa questo miracolo dalle mani del Signore tutta Palermo si convertirà».
Timidezza e modestia a parte, la signorina, non ricordo bene se si chiamava Nelly o Lella, era uno di quei tipi prepotenti che ti mettono facilmente con due piedi in una scarpa, sempre pronti, nel momento opportuno, a fare cagnara, non dico con la stessa trivialità di certe massaie al mercato o di certe lavandaie di una volta al rannaio pubblico, ma sicuramente con la stessa grinta, anche se meno scomposta o addirittura fine ed elegante. [...].


Promesse e ricatti

La signorina Nelly, che aveva già sfondato la mia linea di difesa senza che io me ne rendessi conto, mi presentò la foto del padre malato: un bell’uomo dall’apparente età di 50 anni, seduto, con un volto pallido, serio, ma beatamente sereno, sotto una di quelle pensiline, presso le quali fanno capolinea gli autobus.
Mi commossi alla vista di quel volto, che, nella foto, dava l’idea di un uomo pronto a canticchiare o fischiettare una dolce e mesta canzonetta e che, nella realtà, a Palermo era in coma, pronto ad esalare l’ultimo respiro. Nervoso sì, ma quasi mai crudele le risposi: «Le faccio volentieri questo piacere, se lei non mi secca più per confessarsi prima che arrivi il suo turno».
La signorina rispose affermativamente a questa condizione, dettata dall’egoismo che purtroppo affiorava in me, nonostante la vicinanza e l’esempio di un uomo che a tutti dava tutto se stesso senza reclami e in una forma molto più reale di quella fisica; esuberante in tutte le sue cose si effuse in un cordiale ringraziamento e mi diede subito la foto del papà, accompagnandola con una lettera diretta a padre Pio e una raccomandazione verbale per me: «Io non secco più lei, ma lei in compenso mi deve promettere di seccare padre Pio». [...].
Rientrato in convento domandai dove fosse padre Pio e fra’ Gerardo, che, secondo me, per le innumerevoli mansioni di portinaio, forestaio, sacrista, canovaio, ecc..., doveva stare sempre con la testa nelle nuvole e i nervi a pezzi e che, invece, era sempre informato di tutta la situazione del convento e sempre disposto a dare affabilmente le informazioni necessarie, mi disse che padre Pio era andato nell’orto e stava solo, non essendo ancora arrivati i soliti amici del pomeriggio, i quali o entravano da padroni o scavalcavano atleticamente, furtivamente e non senza qualche rischio, il muro di cinta dell’orto.
«Nel frattempo – mi disse fra’ Gerardo –, tu potrai tenergli un po’ di compagnia».


Un miracolo per convertire

Mi avviai con il passo e l’aspetto che immagino debbano avere quelli che, rivoltella alla mano, stanno per dire a un poveraccio: o la borsa o la vita. [...]. Vidi che padre Pio solo soletto era già arrivato sotto le finestre della stanza sua e lo raggiunsi di corsa. Andammo a sederci sul muricciolo che divide il viale dall’aia [...].
«Uaglio’, tu tieni una brutta faccia stasera: o hai ucciso o vuoi uccidere qualcuno», mi disse padre Pio appena seduto. Egli si era accorto che celavo una penosa apprensione e, scomparsa, se pure c’era mai stata, la grinta dell’assalitore, gli mostrai la foto e la lettera dicendo: «Padre, qui si tratta di un ammalato di Palermo: dica a Gesù che lo guarisca».
«Va bene», rispose condiscendente e forse sicuro di ottenere qualcosa da Gesù. Donde gli venisse, poi, questa sicurezza, io non lo capivo: una fede così semplice e così cristallina non mi sembrava possibile in un uomo che non si dava neppure un po’ di arie.
Della risposta comunque mi sarei potuto contentare, invece per l’impegno assunto continuai: «Padre, veda bene che se lei “sficca” [strappa] questo miracolo a Gesù, si converte tutta la città di Palermo, e non a gruppi di mille, ma a gruppi di centomila. E io so che lei ci tiene alla salvezza delle anime e di tante anime».
Notando che qualcosa mi costringeva ad essere buffo e grossolano, disse sorridente: «Hai fatto la scoperta! Ma perché, tu ti sei fatto frate per dannare le anime?».
Sperando che apprezzasse non dico il mio coraggio, ma almeno il pio desiderio di fare cosa grata a una persona e non mi prendesse in giro per la bassezza e inesperienza dei miei colpi, volli insistere: «Non cambiamo argomento, Padre. Lei già sa che io sì e no riuscirò a salvare l’anima mia, e adesso mi metto a salvare le anime degli altri?! Ma lei ci pensa che se il fatto succede davvero, tutti i palermitani correranno a San Giovanni Rotondo?». «Dio ce ne scampi e liberi! Se il fatto succede veramente qua nun campomme cchiù» [Qui non potremmo più vivere] disse dandomi così ad intendere che il suo concetto di miracolo era molto diverso dal mio e che la preghiera con richiesta di grazia, pur tanto frequente in lui, doveva distinguersi nettamente dalla mia non solo per frequenza, ma anche per impostazione.
 Allora eliminando dal mio vocabolario le sciocche espressioni: veda bene, lei ci tiene, lei ci pensa, che pur essendo state il non plus ultra della mia opera di convincimento, non erano servite granché, cominciai, occhi bassi, muso lungo e fronte corrugata, a fare l’impertinente: «Dunque, lei per non essere seccato, né cerca le grazie a Gesù, né vuole la salvezza delle anime».
Girò gli occhi intorno e poi li fissò sulla masseria di don Orazio come per domandare ad essa da quale manicomio fossi scappato io quella sera. Poi calmo, pronunziando le parole in un soffio, con delicatezza e dolcezza, quasi temesse di contraddirmi, precisò: «Può anche darsi che io cerchi solo la salvezza delle anime senza porre condizioni a Gesù».


Miracolo e fede

Padre Pio sapeva bene che fra tutti i pellegrini frequentatori della sua Chiesa ve n’erano alcuni che, ricchi di speranza o già ricolmi di gratitudine, lo credevano il proprietario assoluto della banca dei miracoli o almeno un funzionario con pieni poteri. E con costoro c’era poco da discutere: sapevano meglio dei teologi che senza Dio il miracolo praticamente non esiste e che solo Dio spiega i miracoli della bellezza, della tecnica, della funzionalità, dell’amore, della purezza e tutta la dinamica di essi.
Egli però, considerandosi neppure spazzino di tale banca, era seccato, e non solo correggeva severamente quelle convinzioni che gli sembravano inesatte, ma godeva pure quando qualcuno, alieno dai facili entusiasmi e ben piazzato nella fede, osservando attentamente il comportamento delle folle che invadevano il Santuario della Madonna delle Grazie, faceva qualche intelligente messa a punto. [...].
Eppure non eravamo né cretinetti né cattivelli, noi che gli stavamo intorno. Ma l’incarico di stargli vicino e di servire da intermediario dava le vertigini.
Per mantenere un certo equilibrio io diventavo nervoso e scortese e spesso mi pungeva la voglia di fuggire: allora a San Giovanni Rotondo era come stare a sentire un oratore troppo brillante e troppo affascinante, che dopo poche battute ti soddisfa a tal punto che ti vien la voglia di abbandonare la sala. L’unico a mantenere la freschezza e la sicurezza dell’andatura in mezzo a tanto squilibrio, l’unico a camminare speditamente su quelle sabbie mobili, era padre Pio.

Eravamo seduti dirimpetto al Monte Nero: lui pieno di quella calma che gli veniva dalla grazia di Dio ed io insofferente perché ignaro di quello che avrei dovuto fare nella vita. [...].
Girando gli occhi luminosi intorno, prima alla piccola distesa dell’aia, poi alla maestosa muraglia di cipressi, poi al sole già vicino al tramonto e infine al boschetto dei pini, riprese: «La nostra bella fede da chi non la conosce ma la desidera si fa trovare ovunque, anche negli occhi limpidi di un bambino innocente, anche in quei tre fiori campestri che sono nati sul tronco di quel mandorlo. Senza tante cose strabilianti. Basta non chiudere gli occhi di fronte a quel calice traboccante di grazia che Dio pone sempre a un palmo dal nostro naso. Basta non girare le spalle, per disprezzo e noncuranza come se si trattasse di un basso istinto, alla nostra più nobile aspirazione qual è quella di scoprire in noi le impronte di Dio, basta muoversi verso il punto dove sorge la luce, anche se c’è da salire e da portar su il peso non indifferente della nostra materia».
Un passerotto sbucò dall’erba e, saltellando e cinguettando felice, venne a beccare qualcosa sull’aia a pochi passi da noi. Per il suo abbondante piumaggio esclamai: «Oh, come è bello grosso!».
Padre Pio, burlandosi della mia meraviglia, disse serio: «Forse deve essere una quaglia».
Non risi, perché quello mi sembrava davvero una quaglia e così bella così grossa che... Nel contemplare quell’esemplare della fauna dell’orto avevo completamente dimenticato il filo della conversazione e il mio impegno con la siciliana. Mi riscosse padre Pio riprendendo a parlare con voce leggermente più alta: «E se anche tu vedessi un miracolo di prim’ordine, non potresti rimanere tale e quale come prima? I miracoli lasciamoli fare a Dio, sia perché noi non siamo capaci di compierne, sia perché non sappiamo se essi servono per la nostra salvezza o per una nostra maggiore condanna».

La paura di vedere interrotta la conversazione dal sopraggiungere di amici mi spinse a dire la prima cosa che mi venne in mente: «Padre, io non l’ho mai sentita parlare a questa maniera», come per insinuare che egli stesse negando la efficacia del miracolo nell’economia della salvezza eterna.

Miracolo come Torre di Babele


Riprese subito: «Ed ora sentimi tu che ti sei messo d’accordo con la signorina siciliana facendo un patto di non aggressione tra di voi per seccare soltanto me. Che cosa è questa impalcatura dei miracoli per convertire la gente? Un’altra torre di babele di marca nostrana?!».
Si fermò un istante, interdetto perché il passerotto, impaurito dalla sua voce un po’ alterata, era volato via per andare a beccare qualcosa altrove.
Poi raddolcito continuò la lezione: «Eh, sì! adesso facciamo il teatro! Mo’ ci spostiamo con il carrozzone del circo e andiamo a dare spettacolo in Sicilia! Quelli, i Palermitani, stanno aspettando te a braccia aperte. Uaglio’, tu sei portato a giudicare gli uomini dal peso, e il buffo è che questa tendenza ce l’hai pure per le cose astratte. Quello che ha fatto Dio per noi basta e avanza per salvare la nostra e tutte le altre anime: il resto potrebbe servire a niente».
La funzionalità del miracolo non la negava, però anche lui, simile ai panegiristi che presentano ogni santo come il più grande della cristianità, usava, per ribadire un concetto preciso, la tecnica dell’iperbole e dell’eccesso.
A questa stessa tecnica mi aggrappai io dicendo: «Se per lei i miracoli non servono a niente, io posso pure dire che i miracoli non esistono affatto».
Mi sembrò con queste parole di essermi tolto un peso dal cuore e mi alzai. Andai a mettermi a rispettosa distanza nel timore che egli mi fustigasse con il cordone e mi misi a passeggiare scrutandolo con la coda dell’occhio in attesa della sua reazione: quel pomeriggio desideravo proprio vederlo nella veste di martello degli eretici.
«E il fatto che io non ti mando a spasso questa sera che cos’è? Non è un miracolo di Gesù Cristo che mi sta dando un poco di pazienza?», gridò e sorrise. E il suo sorriso era radioso come quello dei bambini nel giorno della loro Prima Comunione. Mi compativa.

Padre Pellegrino Funicelli,
padre Pio tra sandali e cappuccio,
pp. 113-124

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