Pensieri e supposizioni
Dicevo tra me: padre Pio è interessato a spendere continuamente le proprie energie per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime e, come se non l’avesse già, cerca una occupazione a tempo pieno; tra i vari datori di lavoro annovera anche molti diavoli, dai quali, fino al 1916, fu clamorosamente impegnato e, dopo il 1916, forse meno clamorosamente, ma più crudelmente, è ancora tormentato; sa benissimo che, per avere del filo da torcere nelle sue lotte contro il male, non può raccomandarsi a me; io, che sono un diavoletto “buono buono”, disposto anche al compromesso di rinunziare alla visione di Gesù; pur di assistere almeno a una zuffa tra lui e i capitani delle forze malefiche, desidero soltanto di essere lasciato in pace, senza le seccature dei suoi ordini perentori: a letto! a letto! Io il lavoro non glielo levo; semmai, nel mio peccato, glielo aumento.
Lui invece, ricattatore di nuovo genere, protetto per giunta dai “gorilla dell’aldilà”, mi dà ad intendere, ora con insinuazioni velate e delicate come allegorie, ora con parole chiare e tonde come appelli di piazza, che, per lo spettacolo, vuol farmi pagare un biglietto costosissimo, anzi, sotto molti aspetti, impagabile per me; ed ogni notte, tra un’offerta e un rifiuto, ne alza il prezzo. Forse soltanto se m’incamminassi sulla via della perfezione cristiana, otterrei da lui l’impossibile; ma allora non avrei più bisogno di procurarmi le visioni a forza di contrabbando.
Così pensavo allora.
Padre Pio, però, quasi certamente, non si preoccupava affatto delle mie elucubrazioni sui prezzi del biglietto e delle mie fantasticherie sulle lotte diaboliche: mi seguiva con paterna tolleranza e sollecitudine, per chiedermi di farmi la croce e iniziare, con la sua benedizione, una vita novella in Dio.
Mi aveva detto una notte: «Vu vedé? E vide! Vu stà ‘Uoche? E statte!» (Vuoi vedere? E vedi! Vuoi stare qui? E stai qui!).
Non aveva niente da vendere e niente da nascondere; né si assumeva alcuna responsabilità sui veri scopi delle mie appostazioni; si contentava di supporre buone le mie intenzioni.
Intanto, dopo l’incidente del padre Agostino, io, ripreso dalla euforica voglia di far perdere la pazienza ai santi, ritornai quasi subito ai miei progetti, e mi dissi: ora, per qualcosa d’inspiegabile, questa mia benedetta macchina da presa, già piazzata, non senza sforzo, sul rosone della Cattedrale, con l’obiettivo puntato nel meraviglioso e inaccessibile interno, si è inceppata, ma, dopo le riparazioni, riprenderà certamente il Celebrante nell’esercizio delle sue funzioni; verrà il giorno, dicevo nelle mie follie pseudo-mistiche, o meglio la notte, in cui potrò stringergli a lungo una mano e porgli l’altra sulla spalla per dirgli: Padre spirituale, ora che siamo pari, cioè veggenti tutti e due, possiamo scambiarci finalmente le impressioni e le confidenze “eucaristiche”.
Per dimostrare a me stesso che non m’importava gran che delle furie urtanti del padre Agostino, la notte successiva a quella del thermos, dopo essermi scrupolosamente accertato che non avrei bissato l’incontro sgradevole, ritornai all’appuntamento.
Ma che vuoi?
Padre Pio per mia sfortuna non era ancora andato sulla loggia. Grato ai Superiori per aver da essi ricevuto in regalo come coinquilino «nu cucciute de prim ‘ordene» (così mi qualificava: testa dura di primo ordine), quella notte si appostò anche lui e quando, nonostante le precauzioni dei piedi scalzi, mi sentì attraversare i corridoi, si affacciò sulla porta della cella e, assunta la posa di chi ha preso una nuova decisione ed è sul punto di esprimerla felicemente, mi chiamò con un cenno della mano e una voce molto discreta: «Uagliò’, vié qua!» (Ragazzo, vieni qui!).
Mi parve che per colpa mia si rendesse ridicolo; diventava invece sublime per la pazienza e la bontà; inconcepibili in un uomo comune; ma lui era un uomo non comune. Mi precedette nella cella, ove rimase in piedi, sia perché intendeva essere breve, sia perché, in camera, era rimasto privo di sedie, offerte la sera precedente, durante l’ora di ricreazione, agli amici e rimaste sulla loggia. Era lieto di avermi visto schivare il padre Agostino con le mie puerili macchinazioni e con i suoi provvidenziali interventi, ma seccato, ormai, dalla mia tacita, assillante persecuzione, mi fece, con la preghiera implicita di smetterla una volta per sempre, la seguente domanda: «Ma tu che va truvanne a notte da me?» (Ma tu che cosa vuoi la notte... da me?!).
Questa frase, che avrebbe dovuto allontanarmi per sempre da lui, divenne per me come un ritornello portafortuna, anzi come un turibolo sempre acceso, che, successivamente, avrebbe accolto e bruciato tutti i miei desideri notturni, quali preghiere e grani d’incenso. (Ora gli risponderei: Non solo la notte, ma anche il giorno, cerco da lei la salvezza dell’anima).
Fuochi pirotecnici e visioni
Intanto la domanda, anche se fatta con un accento seccante per me, esigeva una risposta. Per quanto fossi preso dalla ossessione di godermi una visione, non potevo sempre trascurare quello che mi sentivo dire da lui, tanto più che lui, per eccesso di bontà, le mie corbellerie le ascoltava qualche volta, anche con attenzione.
Gli dissi: «Padre, io ho un rimpianto».
Mi rispose: «Tu sei l’uomo dei rimpianti! Comunque sentiamo». E si mise ad ascoltarmi con gli occhi attenti e ridenti fissi su di me. Avrebbe avuto mille ragioni per essere disinteressato alle mie cose, eppure si mostrò interessatissimo alla mia risposta. Ma quanti ne ha ascoltati, durante tutta la sua vita, di fatui e di vanesi padre Pio!
Cominciai: «Quando avevo 8 o 9 anni, cioè nel mese di luglio del 1936 o ’37, dissi ai miei genitori che volevo assolutamente vedere lo spettacolo dei fuochi pirotecnici, programmati per la festa di sant’Elia Profeta, Patrono del mio paesello. I genitori, abituati alle rese e agl’insuccessi autoritari di fronte ai miei capricci, si lasciarono strappare la promessa di svegliarmi prima della mezzanotte festiva; e me ne andai a letto per sognare tutti i colori delle polveri piriche. Come se non contassi niente in famiglia, fui tradito; mi svegliai da solo allo scoppio dell’ultima granata, quella più forte. Ah, io non conto niente?! Con i miei strilli, molto più acuti e fastidiosi delle trombette azionate dalla bocca dei bambini nei giorni di festa misi la rivoluzione in casa e nel vicinato e cominciai a dare pugnetti contro la capezziera del lettino: perché non mi avete fatto vedere il fuoco di zio Giacomo e di zio Gennaro (i fuochisti del paese)? Quella notte non feci dormire più nessuno».
Padre Pio, afferrato a volo il senso del mio racconto, fu certo di avere, tra i confratelli residenti nel convento, se non un matto, almeno un povero fanaticuccio; mi disse in seguito che per la prima volta, quella notte, considerò seriamente la eventualità di farmi ricoverare in qualche clinica per ammalati di mente.
Leggendo sulla mia faccia la sete di colmare il rimpianto dei fuochi pirotecnici, perduti ieri, con le eventuali visioni celesti di oggi, non poté fare a meno di scoppiare a ridere e disse: «Cosicché a batterie de ze Giacheme e ze Gennare per te iè a stessa cosa de na vesione de Gesu Criste?» (Cosicché la batteria di zio Giacomo e di zio Gennaro sono la stessa cosa che una visione di Gesù Cristo?).
Seguì una pausa, durante la quale la mia speranza di visioni aumentò, anzi prese consistenza più che in tutte le altre precedenti occasioni; ma, subito dopo, uscì fuori la solita delusione, un po’ più amara delle altre: «Vai a letto immediatamente e non farti vedere più».
Chi sa se padre Pio era interessato un poco ai miei desideri di estasi? Chi sa se, per quel po’ di bene che certamente mi voleva, era tentato qualche volta dalla voglia di farmi contento?
Comunque mi stava mettendo in croce con gl’interessi che aveva destato in me e certamente, dopo un certo periodo di recupero dall’ultimo insuccesso, a cui quella notte mi aveva esposto, sarebbe ritornato l’oggetto primario delle mie curiosità e dei miei affetti. Ma, in quel momento, mi sentii così stanco, così smontato, che vidi nel suo brusco licenziamento una liberazione.
Contento di andarmene per i fatti miei, gli baciai la mano con trasporto; e, per nascondere la gioia che provavo nell’allontanarmi, gli dissi che non potevo più restare, perché avevo il dovere di andare a letto. Se ne accorse e mi rimproverò: «Mo’ nen fà u fauzone» (Adesso non essere falso).
Padre Pellegrino Funicelli,
Padre Pio tra sandali e cappuccio, pp. 78-83