Una notte, mentre, illuso, come sempre, di fare l’autostop alla macchina di padre Pio diretta verso la Celeste Gerusalemme nella speranza di poter cogliere al volo, attraverso i finestrini, una visione frontale, ambientata nei grandiosi scenari del Cielo, oppure, di spalle, qualche visione graziosa, piccola, degna del mio piccolo schermo, gironzolavo, ormai più sicuro che circospetto nei pressi della stanza di padre Pio, per colpa della mia malaugurata e solita mancanza di preveggenza, fui sorpreso sulla porta della cappellina, dal molto reverendo padre Agostino da San Marco in Lamis.
Credevo che padre Agostino dormisse. Invece, mi ritrovai vagante, in balia della sua grinta e tenacia “sammarchese” e delle sue caporalesche concezioni disciplinari, per i dormitori, seriamente, anzi furiosamente impegnato in una perlustrazione straordinaria della zona da me occupata, alla ricerca di un pazzo, mio compare, che, qualche notte prima, io stesso avevo scovato in una cella conventuale, bramoso di avvicinare il centro di attrazione dell’equilibrato e dello squilibrato.
Padre Agostino mi sorprese senza lasciarmi la possibilità di crearmi un alibi e, dopo avermi lanciato uno sguardo capace di tostare all’istante un chicco di caffè, mi tenne sull’attenti, tremante, amareggiato, allocchito e mi aggredì con un tono estremamente severo: «Che fai qui a quest’ora?». Faceva una domanda introduttiva, presa dall’antifonario dei salmi minacciosi. Si era reso subito conto di trovarmi lì a spiare le mosse segrete e divine dell’Unto di Dio, oppure, spinto da precedenti sospetti sul mio conto, era venuto apposta per incastagnarmi? Non avrebbe dovuto, comunque, far subito una tragedia, perché anche lui, come me, come il pazzo, come tantissimi altri, era interessato, in una forma non sempre lineare, alle esperienze del mistico Confratello, con la differenza che lui, considerando il riposo notturno doveroso per se stesso e per gli altri, pretendeva far dormire anche gli angeli e i diavoli. [...]. Egli avrebbe certamente punito le molestie da me arrecate al “suo” padre Pio (da chi se l’è comprato? mi domandavo io), e (cosa veramente spaventosa per me), mi avrebbe involontariamente esposto alla derisione di tutti quei carissimi confratelli, sparsi negli uffici del convento o della chiesa e intenti a fare i frati seri, come tanti senatori, ma, come altrettanti burloni, sempre scattanti nel correre a prendere in giro un malcapitato. Infine, complice il linguaggio delle mura conventuali, mi avrebbe dato in pasto alle beffe degli amici sangiovannesi, solidali e comprensivi, in camera caritatis, ma brillanti motteggiatori, nelle allegre comitive. [...].
Il soccorso improvviso
Allora però chi mi spaventava di più era proprio l’innamorato di Gesù, che, quanto più tenero di cuore, comprensivo, candido nella sostanza e nella forma, tanto più capace delle osservazioni intelligenti e mordaci, sprizzanti dalla sua saporosa maturità, una volta frantumata la segretezza delle mie appostazioni, si sarebbe sentito libero da qualsiasi discrezione. Se comincia lui a prendermi in giro, pensavo, mi fa diventare davvero lo zimbello di tutta San Giovanni Rotondo, per le mie notti sprecate in giocose e infruttuose “sedute spiritiche”. Mentre io, gemente sotto il torchio dei rispetti umani spinti al parossismo, ma non rassegnato, anche sotto lo sguardo lampeggiante del Molto Reverendo, a chiudere per sempre gli occhi sulle agognate visioni [...], trascorrevo angosciose frazioni di secondo, apparve sulla porta della propria cella padre Pio in persona, tanto inaspettato da non farsi neppure riconoscere subito.
Padre Pio disse rivolto a me con un tono di rimprovero talmente teatrale che avrebbe indotto anche un bambino a capirne la scherzosità: «Ma quanta vote v’aggia dice ca l’acqua du thermosse nun adda iesse vullente?! Mo vacce a mette nu poche d’acqua fresca» (Ma quante volte devo dirvi che l’acqua nel thermos non deve essere bollente!? Adesso vai a metterci un po’ d’acqua fredda).
Ricco di risorse spirituali ed esuberante di gioia cristiana, ma privo, allora, nella stanza, come di tante altre comodità, anche di acqua calda e fredda, mentre, per togliersi le incrostazioni di sangue dalle piaghe delle mani e del costato, avrebbe avuto bisogno dell’uso prezioso dell’acqua tiepida, ecco che il Poverello del Gargano, dopo avere umilmente riconosciuto le proprie necessità ed aver finalmente ceduto alle premure degli amici, si era preso in regalo (pare dalla professoressa Elena Bandine) un gigantesco thermos, che ogni sera faceva riempire di acqua calda: quella notte parlava appunto dell’acqua contenuta nel thermos.
“Il Rettore Magnifico dell’Università Piozza” (così, qualche volta, veniva chiamato da me il padre Agostino), che, non senza una certa divertente grazia, amava acconciarsi comodamente e compostamente sulla propria cattedra o trono, per dommatizzare, scomunicare ed, eventualmente, accarezzare o premiare i sudditi, con la stessa naturalezza che impiegava nel sedersi sullo stallo riservato del coro, senza girare lo sguardo né a destra né a sinistra, come se, anche nella preghiera, fosse sempre lui a dare ordini perentori perfino al Padre Eterno, dopo l’intervento di padre Pio, non si trovò più di fronte un suddito sperduto e spaurito, ma un pulcino messo, ora, sotto le ali della chioccia; e poiché forse si era reso conto che stava scambiando per un criminale un fraticello soltanto impertinente, cambiò il tono da duro e minaccioso in tenero e dolce: «Vedi cosa vuole Padre Pio».
Completamente trasformato dalla bonaccia sopravvenuta per merito del rappacificatore provvidenziale, osò, sorprendentemente per me, farmi una carezza, accolta naturalmente con poco piacere e con una smorfia meritevole di pedate; mi sorrise cordialmente, mi diede uno di quegli sguardi luminosi, carichi di comprensione e di perfetta intesa e, per alleggerire la pressione sanguigna e rinfrescare la mente accesa, si ritirò, come in una camera di decompressione, nella propria celletta spoglia ed ordinata, accompagnato da un mio piccolo improperio scarica tensione, appena sussurrato: a cuccia!
Bugia non bugia
Padre Pio, nel vedermi ancora sfinito dal terrore provato, comprese subito il mio urgente bisogno di cordiali e, se non avesse tenuta presente la legge del digiuno eucaristico allora vigente, mi avrebbe certamente suggerito di sorbirmi qualche cognacchino. Si limitò a prendermi in giro: «T’à afferrate a saiette, ovè?» (Mo’, ti ha colpito un fulmine, vero?). Mentre rientrava nella sua stanza, girò la testa sulla spalla, mi diede uno sguardo dolce e significativo, oltre che divertito e, frenato il riso, mi raccomandò: «Mo’ piglie nu poche d’aria ncoppa a loggia e po’ vatte a dduorme, se no abbusche veramente» (Ora prendi un po’ d’aria sulla loggia e poi vai a dormire, altrimenti le buschi per davvero). E infine con una semplicità angelica aggiunse: «Lascia stare il thermos l’acqua me la faccio raffreddare nella bacinella».
Con questa ultima espressione, dopo avermi dato ad intendere chiaramente che, per salvarmi da un rimprovero e da una punizione, era intervenuto in extremis, nominandomi sul campo manovratore straordinario del thermos, volle soprattutto liberarmi dalle mie remore puerili, scuotermi dalle mie indecisioni inopportune e spingermi ad avere più fiducia, più coraggio, più intraprendenza.
«Allora lei, per togliermi d’imbarazzo, ha detto la bugia?!», domandai rozzo e scortese, ma commosso e grato per essere stato, provvidenzialmente e senza sforzo da parte mia, liberato dalla pena di essere moralmente stritolato dal suo rigoroso confessore e dal fastidio di dover ridurre al silenzio la pletora degli intriganti assetati di risate ai danni dell’ingenuo.
«E invece io, per levarmiti di torno, ero sul punto di parlare e dire tutta la verità – mi rispose – ma poi, non so perché, mi sono limitato a interrompere il vostro dolce colloquio con la prepotenza».
Tornando in cella pensai che alle mie veglie, in quanto quasi sempre note all’interessato, ormai non potevo più dare la qualifica e la impostazione di un vero e proprio spionaggio e che, se volevo avere la soddisfazione “d’incastrare” la mia vittima nell’atto di stabilire i suoi colloqui televisivi con il Cielo, dovevo contare oltre che sul suo desiderio o almeno sul suo permesso di essere “incastrato”, anche sulla mia ostinazione e scrupolosa preparazione. [...].
I suoi sorrisi beffardi li ritenni incoraggianti per la mia aspirazione, in quanto li giudicai indice di una discreta e spassosa curiosità da parte sua per il mio comportamento strano, paradossale, meno puerile di quanto do ad intendere e, comunque, molto diverso dal suo e, d’altra parte, le sue reazioni benevole e scevre da veri e propri rimproveri per la mia prepotente ingerenza, le giudicai, a ragione o a torto, un tacito, efficace, potente, provocatorio richiamo allo spettacolo notturno.
Padre Pellegrino Funicelli,
Padre Pio tra sandali e cappuccio,
pp. 71-78