I FIORETTI
Padre Pio, un abile formatore
dal Numero 3 del 22 gennaio 2017

Nella nuova residenza a San Giovanni Rotondo, all’inizio le principali occupazioni del Padre erano la lettura di libri ascetici, in modo principale la Sacra Scrittura, la direzione di tante anime che per corrispondenza gli chiedevano consigli ed alle quali egli – avendo ricevuto il permesso dai superiori – rispondeva; la direzione spirituale dei nostri collegiali, i quali si confessavano volentieri da lui ed ascoltavano con molta attenzione le sue conferenze, informate tutte allo spirito di amore verso il Signore e alla più grande pietà religiosa, e quantunque non perfettamente in salute, per il perfezionamento del Seminario a lui spiritualmente affidato si offre anche vittima, supplicando il Padre provinciale a non voler negargli il permesso, perché Gesù gli darà la forza per sopportare quest’altro sacrificio.
Superati i disagi e le difficoltà iniziali di questa nuova forma di apostolato e la ritrosia quasi diffidente dei seminaristi, Padre Pio conquistò il cuore e l’apertura delle anime adolescenti ed incominciò a provare la gioia di trovarsi in mezzo ai futuri ministri del Signore, anche se non mancavano delusioni ed incorrispondenze.
Parlando con i seminaristi superstiti di quegli anni abbiamo potuto ricavare, a grandi linee, ma con mano sicura il suo modo di agire con i ragazzi [...].
Quando Padre Pio salì a San Giovanni Rotondo era sui ventinove anni; Padre Benedetto, provinciale e suo direttore spirituale, in un primo tempo lo nominò direttore spirituale e poi direttore in senso pieno, non appena partì il Padre addetto alla disciplina.
Era la grande Guerra (1915-1918) e dei frati non era rimasto che qualche esemplare; la famiglia del «collegetto» era composta dal Padre Paolino da Casacalenda, rettore e insegnante, dal Padre Pio, direttore e padre spirituale, e da tre fratelli laici.
Padre Pio pensò sempre ai seminaristi, sin quando il collegio restò a San Giovanni Rotondo, anche se con responsabilità diversa: negli ultimi anni li confessava soltanto, non potendo continuare quella vita di famiglia così come era stata inaugurata con i primi gruppi.
La figura fisica del nuovo Padre spirituale immediatamente ed indelebilmente si impresse nell’occhio curioso e scrutatore dei giovanetti.
«Di volto sempre fresco – racconta Padre Emmanuele da San Marco la Catola – in genere roseo; a volte circonfuso di pallore, in contrasto con il colorito roseo delle labbra. Barba breve, appena ravviata; nera in gioventù; occhi grandi, profondi, lucenti (forse meglio: luminosi); fronte alta, diritta, spaziosa. Il volto e lo sguardo mi rivelavano un misto di semplicità e di bontà infantile (nel senso di carezzevole e cara). Io vi coglievo un’impressione di grande sincerità».
Pur nella fragilità della salute (da giovane gracile e cagionevole) e nell’umiltà e modestia del portamento, la sua statura fisica appariva (nonostante tutto) robusta, anche organicamente. [...].
I giovanetti a lui affidati notarono anche la stima che si aveva di lui come uomo di preghiera; sentivano, anche se vagamente, «il notevole alone di vita santa che gli rifulgeva già in ben ampio circuito, per quanto ancora limitato; filtravano qua e là notizie su avvenimenti conventuali inesplicabili ed intesi come “lotte con il diavolo”, nonché sulle varie misteriose indisposizioni o infermità; durante quell’anno prima delle stimmate fummo e vivemmo con lui in un vero “contubernium” di vita. Avemmo un tempo utile e disteso perché lui conoscesse noi e noi – nei limiti di fanciullezza – conoscessimo lui».
La educazione che impartiva senza sforzi visibili, senza schemi o tecniche, affatto convenzionale, era fatta di poche parole ma di una presenza che si sarebbe detta anche fisicamente continua: era un’educazione umana, armoniosa e complementare con quella soprannaturale.
Vigilava le faccende (mezz’ora prima di pranzo i seminaristi pulivano convento e chiesa); dal finestrone dirimpetto alla montagna sorvegliava le ricreazioni, quando bene spesso non vi prendeva parte; conduceva a passeggio, specie a ridosso del convento verso le cave di arena; mangiava con i ragazzi e, soprattutto, «presenziava attivamente e immancabilmente alle nostre preghiere, sia quelle proprie del collegetto, sia quella della comunità, a cui nella quasi totalità noi tutti con lui si interveniva».
Teneva immancabilmente la conferenza settimanale (spesso anche due volte), che preparava e stendeva mentre vigilava durante le ore di studio, il cui argomento in principio fu di indole generale: la Santa Messa, la Madonna, la preghiera, la meditazione, la vocazione...; e poi a mano a mano che ci conobbe meglio, adattandole ai nostri bisogni particolari, ai nostri temperamenti...».
Riguardo la Confessione settimanale: «Le Confessioni fatte con lui era comune impressione che ci apportassero un aiuto validissimo. Sono nel giusto se denomino quella educazione umana e religiosa, educazione sacramentale, in quanto egli rilanciava la nostra anima in Cristo e nella vita della grazia. Il suo lavoro era d’integrazione della nostra natura per le “sublimazioni” del soprannaturale».
Quanto alla divina Eucaristia egli dimostrava nelle parole e nei fatti che la vita dell’educatore e quella dei suoi alunni deve essere ordinata al Santo Sacrificio. Quale il suo apparecchio e quali ringraziamenti erano i suoi, per la Santa Messa; e quali esigeva da noi per la Santa Comunione!
Attirava con ammirevole facilità l’attenzione dei giovanetti sulla persona di Gesù con un parlare «che ci riusciva nuovo ancorché le espressioni fossero consuete»: c’era «qualche cosa» che traspariva dal suo lessico e che insieme traspariva dalla sua vita: «Come sapeva entrare nel cuore quando con una dolcezza infinita ci diceva che “Gesù è la Luce, la Via, la Vita”; con quanta tenerezza si esprimeva allorché gli toccava di citare testualmente le parole del Signore!».
Assicurato anzitutto l’aiuto soprannaturale della Grazia, egli si preoccupava della formazione pedagogica e naturale. A mensa mangiava pochissimo (a cena la sua era una presenza soltanto fisica), leggendo quasi sempre lui, invece di far leggere i ragazzi, com’era d’uso; il suo pane colmava a turno «la fame rabbiosa che ci torturava – afferma sempre il Padre Emmanuele – (il cibo era scarso, date le inesorabili requisizioni di guerra) e le sue cosucce – che erano pur tanto poche – portavano un lenimento ad una insufficienza doppiamente ineliminabile, perché mancavano le “alimoniae” e ben miseri erano e scarsi i poteri di acquisto».
Tutto era condito, però, con una gioiosa umanità. Durante le passeggiate, quasi quotidiane anche se brevi, c’era la lettura – camminando – con intramezzato commento al gruppetto, che l’attorniava, composto dallo sfacciatello, dall’imprudente, da qualche pensoso: più di una volta si aveva più di una interruzione, ed a volte non era pertinente. Il gruppetto non era sempre lo stesso per il desiderio di tutti di essere – anche con arrembaggio – accanto a lui.
«Il suo cibo spirituale era ammannito con grazia e non ricordo sia stato mai rifiutato o contestato o meno stimato. Solo una volta il solito imprudente ebbe una parola meno che riverente e anche un poco più giù sulla Sacra Scrittura: lui diventò di fiamma e fece ritirare la parola all’incauto» (Padre Emmanuele).
Alle passeggiate va riportato – come sollievo – il gioco delle bocce, a cui egli partecipava con un poco più di distensione, felice come un bambino ad una boccia ben azzeccata, «senza oltrepassare il punto limite dove era al traguardo il suo raccoglimento e la sua fuga nell’intimo». Allora si verificava in pieno la fraternità con i suoi figliolini, che però non osavano, anch’essi, «andare troppo oltre quella barriera misteriosa interposta tra loro e lui, a cui guardavano, ma di cui non si rendevano conto se mai avessero toccato con mano tutto il mistero». 

cf. Alessandro da Ripabottoni,
Padre Pio da Pietrelcina,
pp. 164-169

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