APOLOGETICA
Una cura dimagrante per una Chiesa rinunciataria?
dal Numero 46 del 26 novembre 2013
di Guido Vignelli

Dio è Signore dell’Universo, della storia e delle società umane. È fondamentale quindi che la sua Chiesa non si limiti a salvaguardare una vaga religiosità individuale e privata, ma svolga anche il suo ruolo apostolico e missionario, docente e militante.

Uno spiritualismo falso e pericoloso

Si sa qual è il moto del pendolo: esso si slancia da un estremo a quello opposto. Questo può accadere anche nel comportamento umano, perfino in quello religioso. L’eccesso di una Chiesa ipertrofica, appesantita, burocratica e mondana può favorire lo slancio verso l’opposto eccesso di una Chiesa “dimagrita” e umiliata fino a diventare debole, flebile e inconsistente.
Da un certo tempo, nel dibattito ecclesiale è tornata a diffondersi una vecchia tendenza, tipica dei momenti di crisi e di scoraggiamento: alludo al sogno utopistico di una Chiesa meramente “spirituale”, nel senso protestante del termine. Ossia una Chiesa intesa come una comunità piccola, semplice, povera, debole, informe, disimpegnata; una comunità che rinuncia al “proselitismo” missionario e ad esercitare ogni forma di potere e d’influenza nella società, preferendo ripiegare su una “testimonianza profetica” che sarebbe la sola a preservare la purezza dell’impegno religioso e soprannaturale di una élite di cristiani “adulti, maturi e consapevoli”.
Secondo questa tendenza, la Chiesa dovrebbe limitarsi ad assicurare la sopravvivenza di una vaga religiosità individuale e privata, senza preoccuparsi della sua proiezione e protezione sociale e pubblica, nella illusione che questa religiosità possa salvarsi dal dilagante secolarismo non combattendolo ma anzi adeguandosi ad esso allo scopo di “ridurne i danni”. Questo modello di Chiesa debole presuppone quello di un Cristianesimo debole, inteso come religione di un “piccolo gregge” che si limita a santificare gl’individui e le famiglie, rinunciando a convertire le società, i popoli, le Nazioni.
In questa prospettiva, si sostiene che la Chiesa possa rendersi credibile solo ritornando al suo presunto modello storico originario, che alcuni identificano nella comunità apostolica e carismatica “pre-costantiniana”, altri invece nella comunità dell’antico Israele patriarcale, tribale e nomade. Di conseguenza, si auspica che la Chiesa rinunci a dogmi, norme e leggi, si liberi dalle proprie autorità e istituzioni, rifiuti protezioni e aiuti politici, in modo da “abbattere i bastioni” della Cristianità, demolire le strutture ecclesiastiche, “uscire dal Tempio” e disperdersi nel mondo moderno, “pellegrinando nel deserto della storia” in attesa del finale e risolutivo ritorno di Cristo. Insomma, una Chiesa non più Domina et Magistra gentium, ma solo “lievito di spiritualità”, “esperta in umanità” e “ospedale dei popoli”.
Questa falsa riforma presuppone che la Chiesa rinunci ad essere una “società giuridica perfetta” gerarchicamente organizzata, dotata di sacri diritti e poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e si riduca a una mera comunità spirituale-carismatica, priva di autorità, strutture e d’istituzioni: una sorta di mollusco privo di uno scheletro che gli permetta di stare in piedi, di agire, d’imporsi, di difendersi e di attaccare.
Lo spiritualismo minimalista e rinunciatario quindi nega alla Chiesa quel diritto di elevare un Tempio, di stabilirsi in una Città e di conquistarsi un Regno temporale – insomma quel diritto di stabilità, sicurezza e dominio – che il suo Fondatore Le ha concesso per compiere la missione di santificare l’umanità. Come affermava mons. Cordovani, tale spiritualismo presuppone quell’«errore moderno che tenta di ridurre l’insegnamento e l’opera di Gesù ad una riforma morale del tutto interiore, senza contenuto storico e sociale»; presuppone in particolare una errata concezione del Regno messianico, che viene ridotto al suo aspetto trascendente, ossia invisibile, spirituale ed eterno, escludendone quello immanente, ossia visibile, materiale e temporale.
Questa tesi pretende che le sconfitte subìte dalla Chiesa negli ultimi secoli, e perfino la grave crisi interna che oggi la travaglia, siano positivi “segni dei tempi” e anzi abbiano un valore mistico, perché il fallimento delle scelte pastorali fatte negli ultimi tempi sarebbe la prova della loro validità, del fatto di aver realizzato una “testimonianza profetica”. In particolare, si pretende che quelle sconfitte e quella crisi costituiscano una provvidenziale occasione che costringerà la Chiesa a conformarsi alla “mistica della kenosis e dell’esilio”, rinnegando il proprio passato teocratico e “costantiniano”, rinunciando ad ogni sostegno, vantaggio e potere terreni. Si giunge così a prospettare una paradossale idealizzazione del fallimento, quasi che la sconfitta e l’impotenza fossero garanzie di fedeltà a un Vangelo proclamato da un Cristo considerato come “un giudeo marginale” inevitabilmente votato al fallimento.
Insomma, le claunnie anticristiane lanciate ieri dai pagani e oggi dai neopagani vengono riproposte da certi cristiani come se fossero una verità, anzi la vera natura della Chiesa. 


Le esigenze sociali della evangelizzazione

Questa tendenza falsamente spirituale è molto pericolosa e quindi merita una critica severa e motivata, per evitare che le virtù di semplicità, povertà e mitezza diventino un pretesto per imporre i vizi del minimalismo, del miserabilismo e della viltà.
Orbene, bisogna ricordare che Dio è Signore non solo dell’“Universo”, ma anche della storia e delle società umane. Pertanto la Rivelazione divina, la Redenzione cristiana e la Santificazione ecclesiale non possono essere ridotte all’aspetto spirituale e individuale, ma anzi debbono avere una proiezione e una protezione temporale e sociale.
Ciò esige che la Chiesa non si limiti alla “presenza” e alla “testimonianza” (sia pure “profetiche”), ma svolga anche un ruolo apostolico e missionario, dunque docente e militante; ciò comporta ch’Essa non rinunci ad avere leggi, istituzioni e strutture giuridiche che le permettano di vivere, agire e imporsi. Infatti, come insegnava il cardinale Journet, «la legge generale della Chiesa, fin dalla sua origine, è una legge progressiva d’incarnazione, in virtù della quale essa, quanto più spirituale è, tanto più visibile appare».
Se si vogliono realizzare i fini, bisogna voler usare tutti i mezzi adeguati, non solo soprannaturali ma anche naturali. San Paolo esorta i cristiani a «riscattare il tempo presente» (Ef 5,16) «approfittando di tutte le occasioni» (Col 4,5) offerteci dalla divina Provvidenza. Fra questi mezzi, primeggia la società umana. Finché vive, quindi, la Chiesa non può rinunciare a costruire (o ricostruire) il Regno di Dio, non solo nel suo aspetto individuale ma anche in quello sociale, ossia in quella sua proiezione politica che è la Cristianità, a qualunque costo e qualunque cosa accada: fiat justitia, pereat mundus, specie se la giustizia è quella divina e il mondo è quello tenebroso.
La santificazione dell’umanità, pur partendo da una eroica élite di avanguardia e da un “piccolo gregge”, deve arrivare a conquistare tutti gli ambienti per plasmare una civiltà cristiana e organizzare le società sui dettàmi del Vangelo. Secondo mons. Guardini, «le norme etiche divengono storicamente operose incarnandosi negl’istinti vitali, nelle tendenze spirituali, nelle strutture sociali, nelle creazioni culturali e nelle tradizioni storiche».
Insegnava al riguardo il cardinale Daniélou: «La religione e la civiltà dipendono strettamente l’una dall’altra. Non esiste vera civiltà che non sia religiosa; inversamente, una religione delle folle è possibile solo se sostenuta dalla civiltà [...]. Un popolo cristiano non è possibile in una civiltà che gli sia contraria [...]. La fede può davvero radicarsi in un popolo solo se ne ha penetrato la civiltà, quando esiste una cristianità. Il Cristianesimo è accessibile come rivelazione alle folle popolari, solo se viene radicato come religione in quel popolo [...]. Senza cristianità, nessun cristianesimo delle folle [...]. È l’insieme della società che i cristiani devono sforzarsi di trasformare, affinché la vita cristiana sia resa accessibile all’insieme degli uomini [...]. Un popolo cristiano non è possibile in un mondo in cui le istituzioni sono moralmente perverse o ideologicamente erronee» (L’oraison problème politique, Cerf, Paris 2012, pp. 7-16, 48).
Insomma, la Chiesa ha il diritto-dovere di evangelizzare non solo le “culture” e le “civiltà”, ma anche le comunità, le società, i popoli, le strutture e le istituzioni giuridiche e politiche (sia nazionali che internazionali), allo scopo di edificare la Cristianità, «fondando un novo regno / ove abbia la pietà sede secura» (T. Tasso, Gerusalemme Liberata, I, 23).


Crisi di crescita o mutazione mortale?

Viene il legittimo sospetto che questa idealizzazione del fallimento sia un maldestro tentativo di giustificare, anzi di santificare, due cose che invece andrebbero rivedute e corrette. La prima riguarda il recente passato, e consiste in quelle scelte e strategie ecclesiali che effettivamente si sono rivelate fallimentari perché hanno portato la Chiesa a diventare minoritaria e marginale, ininfluente nella vita culturale e politica, disobbedita dai suoi stessi seguaci. La seconda riguarda il presente, e consiste nella rinuncia a combattere per la Fede e a difendere la Cristianità residua, cadendo nella tentazione di cedere ai compromessi ed arrendersi al Nemico.
A questa vile prospettiva fatalistica obiettava a suo tempo il cardinale Daniélou: «Il fallimento riguarda Dio, a noi riguarda il successo. Voglio dire che Dio riesce sempre a rimediare; Egli è capace di trarre un risultato dal fallimento trasfigurandolo mediante l’amore [...]. Dio si serve di tutto; Egli può trasformare la persecuzione in un mezzo di santificazione. Ma noi, noi malgrado tutto restiamo colpevoli. I martiri riscatteranno queste colpe, ma sarebbe stato meglio se esse non fossero state commesse [...]. In una certa spiritualità del fallimento, ci potrebbero essere facili giustificazioni per le nostre pigrizie e negligenze. Dio trarrà dalle cose ciò che vorrà, ma noi abbiamo innanzitutto il dovere di combattere» (L’oraison problème politique, pp. 130-131).
La struttura istituzionale, la proiezione sociale e la protezione politica del Cristianesimo servono a impedire che la religiosità tenda a disincarnarsi e a privatizzarsi, isolando la Fede dalla vita civile e ponendo la Chiesa in balìa dei suoi nemici. La storia recente dimostra che il falso spiritualismo, che ha imposto la cosiddetta “scelta religiosa” condannata sul nascere da papa Pio XII, è una tentazione non solo meschina e sterile ma anche pericolosa. Essa infatti ha favorito il diffondersi nel mondo cattolico di una mentalità minimalista, di una pastorale rinunciataria e di una strategia disfattista. Questa scelta ha provocato le ben note gravi conseguenze che oggi subiamo: ripiegamento individualistico, privatizzazione della religione, disimpegno politico, rinuncia a evangelizzare la società, complesso d’inferiorità, subordinazione alle “forze emergenti della Storia”, infine resa al nemico.
L’astrattezza, l’artificiosità e il settarismo di tale falsa riforma porterebbero la Chiesa al definitivo fallimento, se non altro per il semplice fatto che «un soprannaturale liberato dalla patria, dalla famiglia, dalle vite individuali con le loro caratteristiche temporali inquadrate nei loro vincoli, sarebbe un’anima senza corpo, non realizzerebbe più la realtà umana, il suo regno si svolgerebbe in un campo di astrazioni; il Pensiero creatore non sarebbe veramente incarnato e il suo Spirito non sarebbe stato inviato a rinnovare la faccia della terra» (padre A. Sertillanges).
Questa paradossale riforma deformante provocherebbe non una “crisi di crescita” ma una mutazione mortale. Sarebbe la fine non della Chiesa “autoritaria”, ma semplicemente di quella autorevole. Sarebbe la fine della Chiesa docente, in quanto un maestro che insegna le proprie idee senza autorevolezza e che non ha modo di farsi rispettare e obbedire dai discepoli è ovviamente condannato all’insuccesso. Sarebbe la fine della Chiesa militante, ossia intesa come società che non solo “soffre” e “prega”, ma anche “combatte” gli errori e i vizi, come diceva il Manzoni nel suo inno sulla Pentecoste. In tal modo, la Chiesa si adeguerebbe alla nuova società “postmoderna”, basata sul relativismo e fomentatrice d’incertezza, insicurezza e anarchia, e ne condividerebbe la sorte fallimentare.
A cosa può dunque rinunciare una Chiesa, in cosa può “dimagrire”, di cosa può spogliarsi? Può rinunciare a ruoli che non le competono, a una burocrazia inefficace, a una pompa meramente esteriore, a beni superflui o perfino utili, come insegnava Giovanni Paolo II (cf. Sollicitudo rei socialis, n. 31), ad esempio quando vescovi e Papi vendettero preziosi oggetti liturgici per soccorrere la popolazione colpita da grave miseria. Ma la Chiesa non può rinunciare ai diritti e ai poteri ricevuti dal suo divino Fondatore, a cominciare da quelli d’insegnare, santificare e governare, i quali implicano quelli di fare apostolato, convertire e sottomettere le genti a Gesù Cristo. Il che implica il possesso di tutti i mezzi necessari a questo scopo.

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