RELIGIONE
La sfida di Roma
dal Numero 16 del 24 aprile 2022
di Paolo Risso

Dopo aver lasciato l’ebraismo, il giovane Cristianesimo dovette incontrare un’altra grossa difficoltà nella religione ufficiale dell’impero di Roma. Una sfida accolta e vinta, che costò molte lacrime e sangue. Fu la vittoria della Fede vera e pura, nuova e definitiva che non adora uomini e cose, ma il Padre che è nei cieli, così definitiva che non potrà mai essere superata.

Al pozzo di Sichar, dove la samaritana era andata ad attingere acqua con la brocca, era venuta fuori la dichiarazione perentoria di Gesù: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questa montagna [il Garizim] né a Gerusalemme adorerete il Padre [...]. Viene l’ora ed è adesso, in cui i genuini adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,19-24).

Qui il punto nuovo: adorare Dio in modo degno di Dio, che è purissimo Spirito. Adorarlo come persona amica, come Padre e come Redentore, perché Egli stesso ha preso l’iniziativa di farsi conoscere da noi.

“Padre nostro”

La Fede nuova di Gesù richiede uno slancio filiale, affettuoso, intenso verso Dio, Padre di tutti: «Quando pregate – dice Gesù – non imitate gli ipocriti, i quali amano stare nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere veduti dagli uomini. Tu invece, quando preghi, ritirati nella tua stanza, chiudi la porta e prega il Padre tuo nel segreto, e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà».

Fiorisce così sulle labbra di Gesù, la preghiera nuova dei figli di Dio raccolti attorno a Lui: «Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo Nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male» (Mt 6,5-13).

Sembrano umili parole, invece racchiudono una forza immensa. Contengono l’annuncio della sfida di Gesù al paganesimo.

Il quale – paganesimo – era allora un fenomeno enorme, che interessava il mondo intero. Per la sfida gigantesca, occorreva scegliere una direzione cui orientarsi. Il Cristianesimo, scegliendo di andare dall’Oriente all’Occidente (sarà questa la scelta che caratterizza la nuova Fede), si diresse alle città del Mediterraneo, e puntò a Roma, la capitale del mondo allora conosciuto, l’Urbe al centro dell’Orbe, unificato ormai dalla Legge romana.

Oltre Augusto

Appunto: la Legge di Roma. La sfida di Gesù non investiva soltanto “l’esercito di dèi e dee”, ma doveva urtare necessariamente contro la macchina potente dell’Impero. Quando Gesù venne al mondo, l’imperatore Augusto, già avanti negli anni, era ancora affaccendato nella sua riforma religiosa, che in fondo si richiamava al secondo re di Roma, Numa Pompilio. 

Così Augusto scrive nelle sue memorie: «Ho restaurato in Roma 82 templi degli dèi, né ho trascurato alcuno che fosse bisognoso di restauri. Nella mia proprietà ho edificato un tempio a Marte, e il foro di Augusto con le prede di guerra. Ho offerto in dono le predei in Campidoglio, nel tempio di Apollo, Vesta e Marte» (da: Res gestae divi Augusti, IV, 20-21).

Altri particolari sono riferiti dallo storico Svetonio: «Augusto crebbe il numero, il prestigio e i privilegi dei sacerdoti e specialmente delle vestali. Rimise in vigore i riti da tempo andati in disuso, come i presagi per il benessere dello Stato, la dignità dei sacerdoti di Giove, i giochi secolari e i giochi compitali. Stabilì che due volte all’anno fossero adornati i Lari posti agli incroci delle strade, in primavera e in estate» (da: Svetonio, Augusto, 31).

Lo stesso storico aggiunge che l’Imperatore introdusse il nuovo culto religioso al “divo Giulio imperatore”, e al “genio di Augusto”. Con il suo buon senso, forse dovuto al fatto che spesso aveva la bronchite (di cui parlava volentieri con Virgilio, il poeta di corte altrettanto bronchitico!), Augusto non pretese mai che la sua persona fosse venerata come un dio in Roma; lo permetteva per il calcolo politico, nelle provincie dell’Impero. 

La riforma religiosa augustea deve essere vista con intelligenza nel suo significato: così si capirà quale generi di problemi avrebbe affrontato tra qualche decennio il Cristianesimo di fresco arrivato a Roma. Dopo secoli di conquiste armate, dopo le torbide vicende politiche interne, Augusto voleva dare ai suoi sudditi il senso di una nuova profonda pace, la “pax augustea”.

Ma essa aveva bisogno di una forza spirituale che la sostenesse: ecco quindi la riforma che lega il paganesimo più profondamente alla vita e alle sorti dello Stato. C’è un delicato equilibrio da rispettare tra i due poteri dominanti: quello del senato che rappresenta soprattutto la tradizione delle genti italiche, e quello dell’Imperatore che rappresenta l’universalità dell’Impero. C’era bisogno di rifarsi più che a Numa.

La riforma augustea restaurava quindi le credenze delle genti italiche, affezionate agli dèi familiari e a quelli propizi alla fecondità della terra. E apriva le porte alle innumerevoli divinità dei popoli conquistati, affinché anch’esse, venerate nella patria comune, ne divenissero le custodi.

Al di là di questa facciata religiosa e politica, si stendeva la selva infinita delle divinità inventate dai popoli italici, ellenici, asiatici e africani.

In questo intreccio aggrovigliato, venne a cadere l’umile seme del Cristianesimo. Sì, a Roma, ancora Gesù vivente in mezzo a noi, si parlava di Lui, dai militari che erano di stanza in Palestina e che, espletata la loro “ferma”, rientravano in Italia. Gesù, molto presto, è giunto a Roma. Ma da dove incominciare?

“Costui è Dio!”

Occorreva porre in discussione la divinità dell’Imperatore, senza negargli obbedienza. Fare pulizia delle divinità italiche e straniere senza provocare il senato e la corte imperiale. Entrare nell’intimità delle case e liberare stanze e giardini dagli amati Lari domestici, senza incrinare le virtù familiari là dove erano state mantenute, come la forza più preziosa della Romanità. Bisognava prendere contatto con persone colte, filosofi, magistrati, scrittori, generalmente stufi e increduli riguardo agli antichi dèi e attratti verso le misteriose religioni d’oriente, senza far sospettare che il Cristianesimo fosse come un’altra di quelle.

In una parola era necessaria “una sintesi” singolare, superiore e umanamente impossibile. Una conversione totale.

C’era poi la difficoltà più grossa di tutte: occorreva mettere in tavola e dichiarare che la nuova Fede, quella vera e pura, universale e definitiva, era stata fondata da un povero ebreo – Gesù di Nazareth, noto a tutti come il figlio del falegname – condannato a morte come un malfattore dai suoi concittadini, con la firma del governatore di Roma, Ponzio Pilato, imparentato, per via di moglie, la signora Claudia Procula, con lo stesso Augusto.

Davvero era una follia, era una cosa assurda, pensare che la grande Roma al massimo della sua potenza, si piegasse a quel fino ad allora ignoto Gesù detto il Cristo. Chi studia a fondo i rapporti tra Cristianesimo e Impero, si trova preso in un vortice di cose, infinitamente più alte di quelle umane: allora sale dal cuore la confessione del centurione romano che aveva comandato il “plotone di esecuzione”, l’“exactor mortis”, sul Calvario sotto la croce di Gesù: «Certamente costui era il Figlio di Dio» (Mt 27,54). Lo è sempre stato, il Figlio di Dio, e lo è in eterno.

Con l’aiuto di niente, che non fosse l’amatissimo Gesù, la fede in Lui, la testimonianza della santità e della purezza dei costumi, la dedizione apostolica, la carità fraterna, l’eroismo nel sopportare avversità e persecuzioni e morte, i primi credenti vennero e dilagarono a Roma e nell’impero dei Cesari Augusti. Entrarono nelle famiglie, accostarono giovani intelligenti e onesti, vissero la vita degli schiavi e della gente del popolo, raggiunsero magistrati, ufficiali, comandanti militari, senatori, filosofi, membri delle corti imperiali.

Fu un lavoro silenzioso e doloroso di trecento anni. Non ebbero chiese, se non le case degli amici, dove si faceva la catechesi e si celebrava l’Eucaristia e si annunciava il Vangelo. Non ebbero favori dallo Stato, se non qualche pausa di tolleranza di tanto in tanto, seguita da crudeli scoppi di persecuzione. Non solo tra gli umili, degli angiporti, si diventava cristiani, ma nelle “domus” degli aristocratici, il patriziato di Roma, quali la famiglia di Pomponia Grecina, al tempo di Nerone, o della gens Clodia, da cui spuntò quel fiore candido e vermiglio di sant’Agnese, martire a 13 anni, al tempo di Diocleziano.

Non ebbero altri alleati se non la capacità di presentare non un Gesù da nanerottoli, ma Gesù vivo, sublime, unico al mondo e nell’eternità, quindi di convincere e convertire, il tutto fondato sulla Parola veritiera e sulla Grazia di Gesù.

Dopo trecento anni, i due Augusti imperatori, Costantino e Licinio, nel marzo del 313 d.C. con l’editto di Milano, decretarono: «Abbiamo deliberato che tutti coloro che osservano la religione cristiana possano d’ora innanzi farlo con tutta libertà». Come risposta alla profezia di Gesù alla samaritana: «Ma viene l’ora... in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,19-24). Era primavera a Milano, ma non solo: l’umanità poteva avere la sua autentica primavera: Gesù Cristo!

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