RELIGIONE
La “Sinagoga bendata”
dal Numero 14 del 5 aprile 2020
di Carlo Codega

Pochi sanno quanto accadde, a partire dall’anno della morte di Cristo, nel Tempio di Gerusalemme lungo i 40 anni che precedettero la sua distruzione. Dopo il Sacrificio del Golgota, i sacrifici di culto antichi perdono valore. Si avverano le parole di Cristo alla samaritana: «Viene l’ora — ed è questa — in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).

Non è raro trovare all’interno delle grandi cattedrali medievali l’immagine di due donne – l’una a fianco dell’altra oppure contrapposte – raffigurate con caratteristiche antitetiche: una giovane donna avvenente e in piena salute, con in testa una corona e in mano un calice e, talvolta, uno scettro, spesso a cavallo di un destriero. Dall’altra parte una donna malridotta e cenciosa, talora a cavallo di un asino o sdraiata a terra, ma la cui caratteristica più particolare è quella di essere bendata. Se nella prima donna si deve scorgere la Chiesa, con il potere conferitogli da Cristo (lo scettro) e i Sacramenti di cui è dispensatrice (il calice), la seconda è senza dubbio la “Sinagoga bendata”. Con ciò gli artisti tentavano di riprodurre il complesso ma chiaro rapporto esistente tra il “resto d’Israele”, la Chiesa, e ciò che rimaneva di quell’Israele etnico o religioso, che ostinatamente si rifiutava di vedere in Cristo il Messia promesso. Questa “Sinagoga bendata” è quel giudaismo rabbinico che è, certo, in continuità con molti aspetti della rivelazione dell’Antico Testamento e dell’ebraismo classico, ma anche innovatore e profondo modificatore di questo.


Tra Antico e Nuovo Testamento

Dobbiamo prima di tutto cogliere bene questa prospettiva, la quale non sembra molto chiara al giorno d’oggi, ma che dovrebbe essere patrimonio saldo di chi si professa realmente cristiano. La prospettiva che c’interessa non è primariamente quella storica dove può anche darsi – ma la cosa è da dimostrarsi storicamente – che si possa ammettere che la Chiesa Cattolica e il Cristianesimo siano assimilabili a un movimento deviato dell’ebraismo veterotestamentario, a un rampollo fuoriuscito da un ramo che, d’altronde e nonostante ciò, continua la sua crescita nella stessa direzione. Da una prospettiva teologica dobbiamo invece ammettere che l’Antico Testamento si compie in Gesù Cristo, il quale non è un qualsiasi predicatore, ma il Messia promesso, il Figlio di Dio venuto per salvare il suo popolo, adempiere le profezie e dare compimento alle promesse. In altre parole il tronco dell’ebraismo veterotestamentario non continua al di fuori di Cristo, ma germoglia e fiorisce in Cristo, mentre gli altri rami se ne distaccano e, così, perdono il contatto con la linfa e periscono. Oppure, secondo il linguaggio di san Paolo, dobbiamo dire che l’unico modo per salvare quella pianta vetusta ma ammalata dell’ebraismo fosse quello di innestare sulla radice dell’ebraismo veterotestamentario i rampolli nuovi provenienti dalle “genti” – cioè dai non ebrei convertiti al Cristianesimo – affinché la pianta sopravvivesse, nonostante gli altri rami per la loro infedeltà dovettero essere recisi (cf. Rm 11,16-21). Tutto ciò appunto per rappresentare tramite immagini naturalistiche una verità teologica che dobbiamo avere per certa: Cristo è venuto a compiere le promesse di Dio date al popolo d’Israele e ha trasfuso una nuova vita – la vita divina della grazia – facendo sì che leggi e cerimonie, che fino ad allora vigevano come immagini, si compissero come realtà nella sua persona e nella Chiesa da Lui fondata, in quanto prolungamento “mistico” della sua persona.

Al contempo ciò comportò l’abbandono del particolarismo etnico in favore dell’universalismo, già adombrato nei grandi profeti come Isaia: non è più dunque questione di essere figli di Abramo secondo il sangue ma secondo lo spirito e la fede, perché la salvezza non è promessa solo ai discendenti di Abramo secondo la carne ma a tutti gli uomini della terra. In ciò il particolarismo etnico – cioè il fatto che Dio avesse scelto un popolo tra tanti e lo avesse segregato dagli altri – va visto come una disposizione transitoria in una determinata fase storica, per la quale la sapienza divina riteneva necessaria questa separazione, sapendo che un eccessivo contatto con altri popoli politeisti e pagani avrebbe messo a rischio l’alleanza siglata con Lui.

Dall’ebraismo veterotestamentario al giudaismo rabbinico

In questo processo di passaggio dalla promessa all’adempimento, dal culto secondo la carne a quello «secondo spirito e verità» (Gv 4,23), dal particolarismo etnico di Israele all’universalismo salvifico e spirituale, dal “tipo” e “figura” delle leggi e delle cerimonie ebraiche alla verità di quelle cristiane, evidentemente qualcosa si oppose a una piena adesione di tutto il popolo d’Israele alla rivelazione definitiva di Cristo, così che la Chiesa Cattolica rimase “il resto d’Israele”: «Così al presente c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia» (Rm 11,5). Non è qui importante determinare cioè se il passaggio da ebraismo a cristianesimo coinvolgesse o meno la maggioranza degli ebrei etnici, ma importante è sottolineare che questo “resto” – al pari di quel resto dei tempi dell’esilio babilonese (Is 11,11-16; 46,3; Mic 2,12; Ger passim) – è quello destinato a portare avanti l’alleanza con Dio. Al di là di questo resto, invece, vale quanto perentoriamente scritto da san Paolo: «Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti; gli altri sono stati induriti» (Rm 11,7-8). “Induriti”, bendati o ciechi... in qualsiasi modo si voglia definire, ci si trova davanti al rifiuto del Rivelatore definitivo, all’indifferenza di fronte al Messia e Salvatore promesso, all’uccisione del Figlio di Dio stesso, conformemente a quanto preannunciato da Gesù stesso nella parabola dei vignaioli omicidi (Mt 12,1-12).

Ciò che ci interessa qui però è come avvenne questo rifiuto. Normalmente si dice che in effetti il giudaismo rabbinico, che continua la linea dei farisei, sia una conseguenza degli eventi del 70 d.C.: in quell’anno infatti, come già preannunciato da Gesù («Non rimarrà pietra su pietra», Lc 21,6) il Tempio venne distrutto e con esso finì anche il culto veterotestamentario. La diaspora poi seguita a questo, alla successiva ribellione ebraica di Simone Bar Kochba (135 d.C.) e alla violenta repressione romana, comportò anche la fine della linea sacerdotale ebraica, che, come è noto, era ereditaria. Dunque l’ebraismo che non aveva aderito al Cristianesimo, si trovava nel II secolo senza possibilità di culto – il quale era lecito solo nel Tempio di Gerusalemme, distrutto e soppiantato da un tempio pagano – e senza sacerdoti... si trovava dunque a doversi riorganizzare fuori dalla Terra Promessa, nella diaspora, e senza un successore della monarchia davidica: in questa situazione era impossibile una vera continuità con l’ebraismo veterotestamentario. Prevalse dunque la linea farisaica che d’altronde non era mai stata troppo legata al sacerdozio e al culto, in prevalenza prerogativa degli avversari sadducei, e questa era proprio rappresentata dai “rabbini”, i dotti studiosi della Legge. Ora questi rimanevano gli unici rappresentanti ufficiali delle comunità e gli unici in grado di dirimere le questioni legali, soprattutto quelle nuove, legate alla convivenza con stranieri in terra straniera. Inoltre spettò ad essi introdurre un nuovo culto non più legato a Gerusalemme e non più basato su sacrifici – dato che erano possibili solo nel Tempio – ma che, modellato sul culto del periodo dell’esilio, si basava su preghiera orale e spiegazione della Scrittura e della Legge all’interno delle sinagoghe. A una religione del culto del Tempio si sostituiva una religione della Legge.

La Sinagoga bendata e la nuova religione rabbinica

Proprio dopo la distruzione del Tempio infatti l’influente scuola farisaico-rabbinica di Jabna (oggi Yavne) prese il sopravvento all’interno delle varie fazioni ebraiche, incapaci di spiegare ciò che era successo nel 70 d.C., con la distruzione del Tempio da parte dell’imperatore Tito. Anche se si discute circa il presunto “Concilio di Jabna” – che avrebbe fissato il canone ebraico dei libri veterotestamentari – ciò che certamente avvenne fu la redazione da parte delle scuole rabbiniche della diaspora della Legge orale. Secondo i farisei e i rabbini infatti Dio sull’Oreb non avrebbe consegnato a Mosè solo la Torah, la legge scritta del Pentateuco, ma avrebbe anche rivelato una “Legge orale”, che oralmente era stata trasmessa e di cui gli ultimi depositari erano proprio i rabbini, che in questo momento (tra I e II secolo) la misero per iscritto. Siamo agli albori di quel processo che porterà nei secoli successivi (III-V secolo) alla redazione del Talmud, nelle sue due versioni babilonese e gerosolimitana.

Ma perché abbiamo deviato il discorso sui rabbini e la redazione della Legge orale e del Talmud? Perché proprio qui – secondo alcuni studi recenti – si potrebbero trovare degli indizi che dimostrerebbero ancor più quanto la “Sinagoga” si sia dimostrata “bendata”, anzi ancor più cieca e indurita di fronte alla verità del Cristianesimo e come – almeno per quanto riguarda i capi – si sia trovata di fronte a un’alternativa: accettare il Cristianesimo come compimento dell’Antico Testamento, oppure costruire una nuova religione solo apparentemente legata alla rivelazione veterotestamentaria, ma in realtà privata proprio di ciò che era il fulcro e il nucleo di quella: i sacrifici nel Tempio di Gerusalemme. Certo per il giudaismo tutto ciò non è del tutto abbandonato, ma rimandato a un’aspettativa futura quando verrà riconquistata la Terra Promessa, ricostruito il Tempio e ritrovata la linea sacerdotale. Tuttavia ciò che si vuole dire è comunque che nel Talmud ci sarebbe la testimonianza di come, ancor prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Tito (70 d.C.), Dio avrebbe dato abbondantemente prova di come fosse venuta meno la necessità del culto del Tempio, non perché Dio non volesse più sacrifici e atti di culto, ma perché i sacrifici dell’Antico Testamento si erano ormai compiuti nell’unico e vero Sacrificio: il Sacrificio di Cristo sulla Croce, l’unico veramente degno di Dio.

Gesù stesso infatti nel suo magistero pubblico aveva più volte fatto capire come il centro e il fulcro non fosse più il tempio ma la sua persona, segnalando – davanti alla sorpresa di chi non poteva ancora capire – come il vero “Tempio”, cioè il suo corpo, Lui lo avrebbe ricostruito in tre giorni, con chiara allusione cioè alla sua Risurrezione. Dio avrebbe cercato quindi di far capire questo ai rappresentanti dell’ebraismo di allora, attraverso quattro miracoli di cui il Talmud dà testimonianza, ma che purtroppo non sono stati ascoltati dagli orecchi induriti né visti dagli occhi bendati di coloro che avevano messo a morte Gesù.

1° segno: la sorte sinistra

Si legge nel Talmud babilonese: «I nostri rabbini insegnarono: Nel corso degli ultimi quaranta anni prima della distruzione del Tempio il sorteggio [“per il Signore”] non venne su con la mano destra, né il cinturino color cremisi divenne bianco, e la lampada occidentale non ha più brillato di lucentezza, e le porte del Hekel [Tempio] si sarebbero aperte da sole» (Soncino versione, Yoma 39b). Sostanzialmente la stessa cosa è riportata nella versione del Talmud di Gerusalemme, ma questi passaggi risultano oscuri per chi non abbia pratica con il culto veterotestamentario.
Il primo di questi quattro eventi straordinari verificatisi dal 30 al 70 dopo Cristo – cioè precisamente dalla morte e risurrezione di Gesù alla distruzione del Tempio per mano dei romani – riguarda una delle principali festività ebraiche, lo Yom Kippur (giorno dell’espiazione). In questo giorno si ricordava il peccato di Israele ai piedi del Sinai, e la successiva espiazione operata tramite penitenza e digiuno, al termine del quale Mosè scese dal monte con le tavole della Legge. Era un giorno importantissimo nella ritualità ebraica, in quanto era l’unico giorno in cui il Sommo Sacerdote poteva pronunciare il nome sacro di Jahvè ed entrava nel Sancta Sanctorum, la parte più sacra del Tempio, per compiere un rito espiatorio in nome di tutto il popolo. Prima di tutto però doveva compiere un altro rito, che consisteva in un’estrazione a sorte: gli venivano portati due capri, sui quali doveva gettare la sorte, perché uno sarebbe stato il capro espiatorio e l’altro, il secondo, il capro emissario, che doveva essere “caricato” dei peccati di Israele e portato nel deserto a dodici chilometri da Gerusalemme. Ben più importante era però il primo capro, quello espiatorio, perché veniva sacrificato sull’altare degli olocausti e poi con il suo sangue il Sommo Sacerdote aspergeva il Sancta Sanctorum. L’evento straordinario e luttuoso riferito dal Talmud riguarda proprio l’estrazione: questa avveniva tramite due sassi, uno nero e uno bianco. Ora per 40 anni avvenne che il sacerdote estrasse sempre il sasso nero (cioè la “mano sinistra”), il che fu considerato evento infausto, perché durante il sacerdozio del grande sacerdote Simone il Giusto si verificò esattamente il contrario, e questo era stato considerato un segno dell’accettazione da parte di Dio del rito espiatorio, e quindi del perdono dei peccati del popolo.

2° segno: il cinturino cremisi non diventa bianco

La seconda delle indicazioni dateci dal Talmud però spiega meglio la prima: essa si riferisce sempre al rito espiatorio dello Yom Kippur, seppure relativamente a un rituale non ricordato dalla Bibbia (in particolare assente dal cerimoniale in Lev 16) ma ampiamente presente negli altri testi ebraici. Sul secondo capro – quello su cui il sacerdote imponeva le mani per scaricare i peccati del popolo e che poi veniva mandato nel deserto – si appendeva una striscia color rosso cremisi che, prima del rito espiatorio di aspersione del sangue dell’altro capro, veniva rimossa e legata alla porta del Tempio. Ciò che generalmente si produceva era che il panno cremisi diveniva, dopo il rito espiatorio nel Sancta Sanctorum, bianco come la neve, ricordando così le parole di Isaia («Se i vostri peccati fossero come lo scarlatto [cremisi], diventeranno bianchi come la neve, anche se fossero rossi come porpora, diventeranno [bianchi] come lana», Is 1,18). Ora il significato di questo rito, che comportava l’intervento miracoloso di Jahvè, è chiaro: quel panno che da rosso diveniva bianco, era il segno dell’accettazione da parte di Dio della richiesta di perdono da parte del popolo, oltre che dell’effettiva purificazione di esso. Ora tale miracoloso effetto non sempre si produceva, ma per 40 anni dopo la morte di Gesù mai si produsse. Non è difficile intuirne il significato, e la Lettera agli Ebrei viene in nostro soccorso. Al capitolo 9 rammenta il rito dello Yom Kippur, ma sottolinea come esso sia stato superato dal Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza, Cristo: «Non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente?» (Eb 9,12-14). È evidente dunque quello che avvenne: il rito dello Yom Kippur era solo una figura di ciò che doveva avvenire con il Sacrificio di Cristo sulla croce. Gesù, vero Agnello innocente e senza macchia, ricondusse a sé il rito di espiazione allo stesso tempo caricandosi dei peccati del popolo – come il capro emissario – e lavando con il suo Sangue i peccati degli uomini. Dopo un tale Sacrificio, che procurò una «redenzione eterna», il rito di purificazione dello Yom Kippur perse qualsiasi valore anche se, purtroppo, non tutti gli ebrei lo capirono.

3° segno: la lampada occidentale si spegne

Come è noto la Menorah del Tempio – la tipica lampada ebraica – aveva sette braccia, ma le lampade non rimanevano sempre accese secondo il cerimoniale: le 2 lampade orientali rimanevano accese di giorno ma non di notte, mentre le 4 centrali venivano accese al tramonto e lo rimanevano fino all’alba. Queste comunque dovevano essere accese dalla fiamma della lampada più importante, quella occidentale, che in effetti era perenne: essa segnalava la presenza di Dio nel Tempio di Gerusalemme, e quindi proprio in mezzo al suo popolo. Un suo eventuale spegnimento era considerato una sciagura, e per questo i leviti erano incaricati di vegliare perché fosse sempre ben rifornita di olio e una negligenza in ciò era considerata un peccato gravissimo.

Ora cosa avvenne tutte le notti a partire dall’anno 30 all’anno 70 d.C.? Per tutte le notti di quaranta anni di fila la lampada occidentale si spegneva spontaneamente, segnalando così che Dio aveva definitivamente lasciato quel luogo. Il Tempio aveva sostituito la Tenda dell’incontro in cui negli anni di cammino nel deserto risiedeva la Shekinah, la Presenza divina che accompagnava il suo popolo. Il Tempio di Gerusalemme così non era più il luogo della Divinità, non era più la dimora di Dio tra gli uomini. Ciò perché – come segnala sempre la Lettera agli Ebrei – dall’Incarnazione di Cristo vi è “una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo”: è Cristo stesso, in quanto Dio incarnato, a rappresentare la presenza più perfetta di Dio tra gli uomini. Ed è la sua permanenza sacramentale nell’Eucaristia ad assicurare questa presenza sostanziale, così come la Chiesa – suo Corpo mistico – assicura a sua volta la presenza mistica di Cristo tra noi. La luce occidentale della Menorah può così spegnersi mentre è la luce del Tabernacolo nelle nostre chiese che segnala ormai che Dio è tra di noi.

4° segno: la porta spontaneamente aperta

Un ultimo segno straordinario che i cronisti ebrei non mancarono di segnalare è quello della porta del Tempio, che tutte le sere si spalancava spontaneamente. Anche questo si verificò per ben quarant’anni, a partire dal 30 d.C. Non sappiamo precisamente a quale porta si riferisca, pertanto non possiamo con certezza identificarla con la “Porta aurea” o “Porta speciosa”. Se fosse questa infatti il significato messianico dell’evento sarebbe chiaro: secondo gli ebrei dalla Porta aurea transitava nel Tempio la presenza divina (Shekinah) e, al compimento dei tempi, da lì sarebbe entrato anche il Messia. Se fosse questa la porta in questione, sarebbe chiaro che la sua apertura significherebbe la venuta del Messia, che al contempo porta con sé la presenza divina. Ovvero sarebbe un chiaro segno della messianicità e della divinità di Gesù. Tuttavia va detto che la “Porta aurea” non è proprio una porta del Tempio, quanto piuttosto essa si apre nelle mura del Tempio. Nell’impossibilità di dirimere la questione, possiamo comunque riferire l’opinione di rabbi Yohanan Ben Zakkai, il principale rabbino dopo il 70 d.C. e guida della comunità di Jamna, che segnalò come questo evento fosse stato interpretato come un segnale della prossima distruzione del Tempio. E così si compì... senza però che rabbi Yohanan ne traesse motivo per scovarvi la verità del Cristianesimo.

Il mistero della “Sinagoga bendata”

È evidente come il mistero del mancato riconoscimento del Messia e del Salvatore in Gesù sia uno degli avvenimenti al contempo più dolorosi e più misteriosi della storia dell’umanità (cf. Rm 11,25-32). Il fatto che il popolo eletto abbia rinunciato alla sua elezione, rifiutandosi di vederla compiuta e perfezionata in Gesù Cristo, è qualcosa che interroga profondamente la nostra visione storica e religiosa. Non si può tacere l’unilateralità odierna nel presentare la “fedeltà di Dio” nelle sue promesse, fino a dimenticarsi che in effetti gli ebrei hanno «urtato contro la pietra d’inciampo» (Rm 9,33), hanno rifiutato la giustizia di Dio per imporne una propria (cf. Rm 10,3) e quindi solo un resto – che è la Chiesa – è rimasto fedele all’alleanza: «Che dire dunque? Israele non ha ottenuto ciò che cercava: lo hanno ottenuto invece gli eletti» (Rm 11,7). Il mistero della mancata corrispondenza di Israele si apre però a una prospettiva provvidenziale ed escatologica che non si può dimenticare e che anche san Paolo ricorda (cf. Rm 11,25-32). Allo stesso tempo non va dimenticato come la cecità di questa “sinagoga bendata” rimane per noi tutti un monito: il ramo tagliato e morto – ma che la potenza di Dio potrebbe rinnestare nel tronco – è per noi un monito salutare a essere corrispondenti alla grazia della fede che abbiamo ricevuto da Gesù Cristo nostro Redentore.

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