APOLOGETICA
L’affanno di Santa Marta, prefigurazione dell’errore “moderno”
dal Numero 39 del 6 ottobre 2019
di Corrado Gnerre

Il pensiero dominante nel nostro tempo afferma il primato della prassi sull’essere, dell’azione sulla Verità. Ma le parole di Gesù nel celebre episodio di Marta e Maria dirimono la questione e insegnano a porre ogni cosa nella giusta prospettiva.

«Marta, accolse Gesù nella sua casa. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”» (Lc 10,38-42).
Cosa rimproverò Gesù a Marta? Il fatto che stesse lavorando? Il fatto che volesse riordinare e preparare qualcosa che pur la situazione imponeva che si facesse? No. La risposta sta in un riferimento che Marta stessa fa. Ella chiede a Gesù di rimproverare la sorella Maria che stava lì, ferma, contemplando Gesù. E il Signore dice a Marta di non affannarsi, ma non solo: di capire che la sorella in quel preciso momento, stando ferma, stava “operando” scegliendo la cosa più importante.
Dunque, si sbaglierebbe se si pensasse che Gesù abbia voluto condannare l’agire, il fare, il preparare, il programmare. Se fosse così, dovremmo buttare a mare le radici stesse della civiltà occidentale. Intendiamo la civiltà occidentale autentica, non quella della deriva individualistica moderna.
Se Gesù avesse voluto condannare l’agire, verrebbe smentito anche il grande principio benedettino dell’ora et labora.
Piuttosto l’episodio di Marta e Maria afferma una verità che non può essere messa in discussione, ovvero che non c’è azione senza contemplazione; meglio: non può esserci azione seria, giusta e opportuna senza il primato della contemplazione.
Il Faust di Goethe (1749-1832) presenta il dottor Faust che sta leggendo il Prologo di San Giovanni. Lo colpisce la frase: «In principio era il Verbo». Letto questo, il protagonista chiude il libro e afferma: «Non è possibile. In principio deve essere l’azione». È questo il “manifesto” non solo del Romanticismo, ma di tutta l’“eresia” moderna: il primato della prassi sull’essere, cioè il primato dell’agire sul Vero. Si badi bene: è anche questa una sorta di “metafisica”, non quella vera dello studio dell’essere in quanto essere; bensì dell’agire in quanto agire. Tutto è azione e nient’altro che azione, nulla può esserci al di fuori dell’azione; e, di conseguenza, l’azione si giudica attraverso l’azione medesima.
Ed è così che si genera l’affanno. Proprio quell’affanno che Gesù rimprovera a Marta. L’affanno è quando il respiro si fa pesante, faticoso e gonfia il petto. È quando il respiro si fa appunto “affannoso”. Il respiro non si può sopprimere. È talmente fondamentale che permane anche a livello d’incoscienza o di immaturità di coscienza: i bambini appena nati subito respirano. Se non si respira si muore, perché è il respiro ciò che lega costitutivamente alla vita. Di un uomo appena morto si dice “non respira più”. Dunque, essendo il respiro ciò che lega alla vita, quando esso si fa affannoso, il vivere stesso diviene problematico. Meglio: l’agire diventa faticoso, se non impossibile. Quando non si è allenati o si è eccessivamente in sovrappeso, si fa grande difficoltà a salire lunghe scale o inerpicarsi per una ripida salita.
Torniamo a Gesù e Marta. Gesù rimprovera Marta di affannarsi. È un rischio che ella sta correndo non solo perché si dà freneticamente da fare, ma soprattutto perché non ha capito che in quel momento c’è una cosa più importante da compiere: contemplare. Contemplare Dio che è nella propria casa, che è a pochi centimetri da sé.
In questa contemplazione della presenza di Dio nel proprio luogo e dinanzi a sé c’è la soluzione affinché si possa scongiurare l’affanno, cioè il rapporto problematico con le faccende da compiere. È proprio privilegiando questa contemplazione che poi si riesce a dare senso a tutto ciò che si può e si deve compiere. Senza la contemplazione, l’agire si svuota, nel senso che rimane come una bella elegante scatola, ma dentro la quale non c’è nulla. Ugo di San Vittore (1096-1141) afferma: «La preghiera cerca, la contemplazione trova». Potremmo dire, in questo caso, che la contemplazione scopre l’essenza del reale ed è da questo – dal centro – che poi il contorno diviene percepibile e – soprattutto – comprensibile. Nell’ottica avviene un processo chiaro: per osservare l’interezza di un oggetto bisogna guardarlo al centro. È un processo istintivo di cui non ci accorgiamo facilmente. Se poi, dinanzi ad un oggetto, proviamo a chiudere un occhio, ci accorgiamo che l’oggetto si sposta, verso destra o verso sinistra a seconda di quale occhio decidiamo di utilizzare. Ritornando poi alla visione bioculare, l’oggetto si “centra”... e diviene più chiaro. La contemplazione è una questione di desiderio di pienezza, di sguardo finalmente completo.
Prima abbiamo fatto cenno all’errore della modernità, e abbiamo detto che esso sta fondamentalmente nella pretesa di negare la priorità della Verità, negando in tal senso un’altra priorità, quella della contemplazione sull’agire. Ebbene, l’affanno di Marta è lo stesso affanno che fonda in un certo qual modo i secoli dell’apostasia moderna e soprattutto dei nostri tempi.
L’affanno è l’agitazione che prende quando, invece di dominare, si è dominati. Dominati da tutto, anche dalle sciocchezze più evidenti. Quando gli idoli del nulla occupano maniacalmente e compulsivamente la mente. È l’affanno moderno per il divenire: lo storicismo. È l’affanno moderno per i diritti individuali: l’individualismo. È l’affanno moderno per la libertà: il liberalismo. È l’affanno moderno per l’economia: l’economicismo. È l’affanno moderno per l’esaltazione del desiderio: il relativismo morale... e l’elenco potrebbe continuare.
Un affanno che ha preso anche la Chiesa di oggi. Dove tutto si riduce a fare e ad agire. Dove finanche la Liturgia si misura dalle innovazioni creative e dal protagonismo dei fedeli: «...la Messa nella mia parrocchia è più bella della tua...».
Il domenicano padre Tomas Tyn (1950-1990), teologo morto prematuramente in concetto di santità, amava la Liturgia tradizionale. E non a caso scrisse queste parole: «[...] la nostra vita, anzi la vita della nostra vita, è la contemplazione del mistero di Dio; di questo noi viviamo, di questo noi siamo destinati a vivere per tutta l’eternità. Se un’anima mi dice: “La Trinità non mi interessa”. Oh! L’aridità di quell’anima è preoccupante. Come? Il mistero di Dio non mi interessa? Ma è spaventoso! Guardate che i santi in Cielo, gli angeli, non finiscono mai di adorare la Trinità Santissima. [...]. La beatitudine eterna consiste nella visione di Dio, la visione dell’essenza di Dio, non più nell’enigma, nell’oscurità della fede. Faccia a faccia, vedere il Signore nella sua essenza [...]».

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