APOLOGETICA
Perché si è passati da un’arte bella a una brutta?
dal Numero 17 del 29 aprile 2018
di Corrado Gnerre

Dietro all’inestetismo di gran parte dell’arte contemporanea c’è la rivoluzione filosofica di Cartesio che ha spodestato il realismo e inaugurato il razionalismo. La convinzione filosofica per la quale non è più la realtà oggettiva a garantire l’esistenza del pensiero bensì il contrario, ha avuto forti ripercussioni nell’arte...

Come mai l’arte è così radicalmente cambiata nel corso della storia?
Prendiamo la pittura. Da pittura bella a vedersi e comprensibile, è divenuta pittura incomprensibile e anche brutta.
Perché è accaduto questo? A che si deve?
La risposta è molto più semplice di quanto possiamo immaginare. Alla fine due più due fa quattro anche nelle cosiddette “scienze inesatte”, come quelle umanistiche. Insomma, le motivazioni ci sono; e non sono affatto complesse. Nel senso che sono molto più intuibili di quanto possiamo pensare.
Veniamo al dunque. Fino ad un certo periodo della storia il metodo della filosofia era quello realista, ovvero quello secondo cui la verità è nell’adeguamento del soggetto all’oggetto. E non a caso. Oltre ad un motivo di buon senso, perché ovviamente così è, infatti la verità non può fare a meno dell’osservazione, vi era anche un motivo antropologico. Il realismo filosofico era l’esito della convinzione di essere limitati, dipendenti, creature. Il realismo, infatti, conduce alla constatazione di quanto l’uomo è “piccolo”, di quanto all’uomo non sia dato stravolgere la propria natura finita.
Ma ad un certo punto le cose iniziarono a cambiare. Si passò dal realismo al razionalismo. Un “certo” Cartesio (“certo” si fa per dire) operò una vera e propria rivoluzione filosofica. La sua frase rimasta famosa, cogito ergo sum (penso, quindi esisto), non è solo una frase ad effetto che molti studenti ripetono a mo’ di cantilena senza capirla (perché non gliela fanno capire), bensì – come dicevamo – una vera e propria “rivoluzione” filosofica. Per farla breve: non era più la realtà oggettiva a garantire l’esistenza del pensiero, bensì il contrario, era il pensiero a garantire l’esistenza della realtà. Era il passaggio dall’oggettivismo al soggettivismo. Ancora non aveva trionfato il relativismo, ma si era presa la cosiddetta “piega” per arrivarci.
È ovvio che un tale passaggio abbia avuto anch’esso delle motivazioni antropologiche. Dal momento che l’essenza della modernità è una sorta di antropocentrismo radicale, occorreva, per sostanziare il delirio di onnipotenza umana, fare man bassa della realtà e promuovere a criterio una sorta di volontà soggettiva onnipotente.
Tutto questo ha avuto – eccome – dei riflessi nel campo dell’arte. Fino a quando dominava il realismo filosofico, pittoricamente s’impose la descrizione. Quando poi il realismo filosofico, con metafisica annessa, fu fatto fuori, l’elemento descrittivo venne gradatamente abbandonato per far posto al delirio immaginifico, fino alla nascita dell’astrattismo completo.
Insomma, da un certo momento in poi ciò che conta non è più la realtà, ma ciò che il pensiero vede, immagina, crea ed eventualmente distrugge.
Piaccia o non piaccia, dietro ogni errore – e possiamo aggiungere: dietro ogni bruttezza – c’è sempre una cattiva filosofia... e anche una cattiva antropologia.
E c’è da aggiungere anche un’altra cosa. In tal modo l’arte (sedicente tale!) è divenuta una grande mistificazione. Come infatti si fa dire quando un’opera è bella o meno? Senza criteri oggettivi, l’estetica è passata totalmente in mano ai critici, che ovviamente, secondo i loro interessi, a piacimento fanno il bello e il cattivo tempo... pardon: il bello e il cattivo quadro!

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