ATTUALITÀ
Harper-Mae, la bambina che sfida l’eugenetica danese
dal Numero 37 del 27 settembre 2020
di Francesca Romana Poleggi

In Danimarca la strategia per debellare la sindrome di Down non è quella di combattere la patologia ma quella di eliminare i pazienti, con l’aborto dei bimbi affetti da trisomia 21. L’aborto è considerato non solo un “diritto” ma anche un “dovere civico”, per liberare la società dalla piaga dei “bambini difettosi”. Quale sarà la prossima categoria da “eradicare”?

Il Foglio di qualche giorno fa riporta la notizia che lo scorso anno in Danimarca sono nati solo 18 bambini con la sindrome di Down. E i principali media danesi ne parlano soddisfatti. Perché la società aspira alla perfezione ed è un bene che le diagnosi prenatali riescano a segnalare i bambini imperfetti: questa è ormai la “cultura” diffusa nel Paese scandinavo, dove il 98% delle madri incinte di bambini “difettosi” non “scelgono” di abortire, ma lo ritengono una prassi, un qualcosa che si fa “naturalmente”. Insistono con l’essere riusciti ad “eradicare” la sindrome di Down, continuando a confondere le persone con le malattie: eradicare il vaiolo vuol dire che non ci sono più casi di vaiolo. “Eradicare la sindrome di Down” vuol dire uccidere i bambini che portano quel cromosoma in più.

La “cultura” che ha conquistato la Danimarca cerca di farsi strada dappertutto. E ovunque miete un numero sempre crescente di vittime innocenti. Anche in Italia. 

Secondo i dati dell’ultima Relazione ministeriale, cala il numero degli aborti. Comunque 80.000 bambini uccisi – nel 2018 – non sono pochi. E il numero di aborti cala perché nello stesso anno hanno venduto 500.000 scatole di pillole post-coitali, Norlevo e ellaOne. Ciò vuol dire che calcolando mediamente che il 20% dei rapporti sessuali sono fecondi, agli 80.000 vanno aggiunti circa 120.000 cripto-aborti.

Per un momento, però, prendiamo in considerazione la vulgata che dice che il numero degli aborti è in calo: ebbene il numero degli aborti tardivi, invece, è in aumento. Quelli che “loro” chiamano aborti “terapeutici” perché vogliono farci passare l’idea che la morte serva a “curare” le malattie. In realtà sono aborti eugenetici, che indicano chiaramente che anche noi siamo sulla strada intrapresa dalla Danimarca. Una strada che conduce verso scenari da incubo: oggi tocca ai bambini imperfetti che si trovano nel grembo materno, ma già l’eutanasia neonatale prende piede nel nord Europa. E poi? Le imperfezioni – di vario genere – insorgono anche nel corso della vita delle persone. Verrà il giorno in cui qualcuno avrà il potere di decidere chi è degno di vivere e chi no? In base a quali parametri?

È dovere di tutti i cristiani e – direi – di tutti gli “umani” degni di questo nome prendere coscienza di queste derive e non lasciarsi fare il lavaggio del cervello dalla cultura della morte. Ed è bene alimentare la speranza con le testimonianze di chi sfida questa mentalità nichilista.

Come la mamma di Harper-Mae, in Florida, che a 18 settimane di gravidanza è stata caldamente invitata ad abortire la bambina perché aveva la mieloschisi, la forma più grave di spina bifida: sarebbe stata paralizzata dall’ombelico in giù, farla vivere in quel modo era una crudeltà da parte dei genitori. Nonostante tutto essi hanno rifiutato l’aborto. A 25 settimane la bambina è stata operata in utero. Ma, nel 2016 è nata paralizzata e i medici hanno detto che sarebbe rimasta così. I genitori non si sono arresi e hanno cominciato subito la fisioterapia.

Oggi Harper-Mae cammina (per tratti non troppo lunghi anche senza deambulatore) e va anche in bicicletta. È una bambina felice che ha imparato già a superare gli ostacoli che la vita le pone davanti.

La sua fortuna è stata la convinzione della madre che sa che la mobilità e le altre funzioni non definiscono un bambino. Il valore delle persone è dato da quel che sono, non da quel che fanno.

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