ATTUALITÀ
Io non ti lascio solo
dal Numero 2 del 12 gennaio 2020
di Susanna Tacconi

Molto spesso, in presenza di gravidanze a rischio malformativo o con diagnosi di patologie fetali gravi, il medico propone l’aborto eugenetico come unica possibile soluzione. Esiste invece un’altra modalità, che guarda al piccolo paziente chiamandolo per nome ed evita alla coppia un lutto che, oltre ad essere doloroso di per sé, graverebbe sulle loro coscienze.

Nel cuore di Roma ormai da tre anni c’è una struttura ospedaliera che aiuta, quando sono ancora nel grembo materno, i bambini nati con gravi malformazioni, accompagnando i genitori sul piano medico e psicologico. E decine di bambini che altri avevano dichiarato inadatti alla vita oggi corrono e sorridono. Ma anche quei piccoli che sono morti prima del parto, o appena dopo, sono stati trattati con amore, come persone pienamente degne di cura e attenzione. E le loro mamme e papà sono stati accompagnati con premura nel fronteggiare esperienze dolorose ma mai private dell’apprezzamento dell’ineffabile mistero della vita. Stiamo parlando dell’Hospice Perinatale del Policlinico Gemelli, guidato dal bravissimo professor Giuseppe Noia.

I media quasi sempre propagandano cattive notizie, incentivi al consumismo e una cultura di morte. Si parla poco di quelle scintille di speranza che fanno andare avanti il mondo. Ed è bene che noi cristiani, che della Buona Novella siamo portatori, sappiamo trasmettere quanto amore ancora c’è in questa terra disastrata, specie in questo tempo natalizio in cui un Bimbo umilissimo e rifiutato da molti si appresta a restaurare il Regno di Dio fra di noi.

Quella che segue è la sintesi di uno studio presentato da Susanna Tacconi, una giovane ostetrica e militante pro-vita, durante la sua recente discussione della tesi di laurea dedicata al lutto perinatale e alle strategie di accompagnamento dei bambini e delle famiglie.




Esistono nove eventi che contribuiscono alla formazione dell’attaccamento madre-bambino: la pianificazione della gravidanza, la conferma della gravidanza, l’accettazione della gravidanza, la percezione dei movimenti fetali, l’accettazione del feto come un individuo, la nascita, il vedere il bambino, il toccare il bambino, il prendersi cura del bambino. I primi cinque avvengono durante la gravidanza, ossia prima della nascita del figlio. Quando si parla di lutto perinatale si fa dunque riferimento a gravidanza extrauterina, aborto spontaneo, aborto volontario, aborto tardivo, morte fetale endouterina e morte neonatale. I dati sulle morti in utero fanno riflettere: nel mondo 2,6 milioni di morti in utero avvengono ogni anno nel terzo trimestre di gravidanza, il 98% dei casi in Paesi a basso e medio sviluppo. In Italia 1 donna su 6 sperimenta il lutto perinatale. È dunque importante soffermarsi sui fattori di rischio che possono portare all’exitus perinatale. Tra questi ricordiamo l’aumento dell’età materna alla prima gravidanza, la storia ostetrica, la familiarità e la compresenza di patologie materne e i fattori psicosociali. Parliamo infatti di “lutto anticipato” in riferimento alla paura di non avere figli che spesso spinge la coppia a ricorrere alla fecondazione artificiale, la quale comporta ulteriore lutto dato dalla perdita degli embrioni sacrificati a causa della tecnica stessa.

I dati ISTAT sulla Procreazione Medicalmente Assistita del 2017 mostrano un’evoluzione nell’utilizzo delle varie tecniche “a fresco”, evidenziando la crescita dell’applicazione della tecnica FER (Frozen Embryo Replacement), che prevede la crioconservazione e il successivo scongelamento degli embrioni. Tale aumento è avvenuto in concomitanza con la modifica del 2009 della Legge 40 nella quale è stato rimosso il divieto di creare massimo 3 embrioni ed il loro contemporaneo impianto; in termini assoluti si passa da 508 cicli nel 2008 a 17.281 cicli nel 2017. Questo comporta un aumento della perdita di embrioni che rende significativa la problematica in relazione al lutto. Quando si riceve una diagnosi di infertilità si può sperimentare il sentimento della perdita di un “figlio che non potrà esserci”. In questo senso viene vissuto un lutto “anticipatorio” legato alla mancata genitorialità. Inoltre, le coppie che fanno ricorso alla fecondazione artificiale spesso vanno incontro ad un lutto vero e proprio dovuto al fallimento della tecnica e quindi alla perdita del figlio tanto desiderato. Fanno riflettere i dati del 2017 i quali riportano che il numero di nati vivi a causa dei cicli di fecondazione artificiale effettuati con tecniche di secondo e terzo livello è di 10.844 bambini, mentre il numero di embrioni trasferiti è di 64.359. A ragione, dunque, si vuole mettere in evidenza che la fecondazione extracorporea è un fattore di rischio di lutto perinatale che si configura come la principale causa di morte degli embrioni umani.

Il lutto perinatale si può definire come un lutto stratificato in quanto comprende la perdita del figlio “oggetto d’amore”, la perdita di un progetto e della fiducia nella propria capacità riproduttiva ed infine la perdita di un bambino “non nato” che ribalta il principio temporale per cui si nasce e poi si muore. Dal punto di vista psicologico si è molto riflettuto sulla peculiarità di questa perdita che ha delle caratteristiche specifiche che esulano dalla ritualità di ogni altro lutto. Quando il bambino muore in utero, o subito dopo la nascita, si viene a sospendere un legame che è sia immaginario sia percepito fisicamente ma che si interrompe prima che si possa instaurare un processo conoscitivo attivo. È per questo motivo che l’elaborazione del lutto perinatale è divenuto argomento di discussione al fine di rilevare le strategie più adeguate per affrontare una perdita “atipica” fornendo supporto e sostegno alle coppie. Partendo dalla definizione delle varie tipologie di lutto perinatale e delle sue cause principali (tra le quali rientrano fattori genetici, malformativi, vascolari, materno-placentari e fetali), affermiamo che esiste un modello di assistenza e accompagnamento alla coppia alternativo alla scelta dell’aborto eugenetico – scelta che a tutti gli effetti pone i genitori nell’obbligo di decidere per la vita o per la morte del figlio, colpevole solamente di essere malato. Il fine di questo modello alternativo è quello di evitare alla donna e alla coppia un lutto che, oltre ad essere doloroso di per sé, graverebbe sulle loro coscienze. Sapere di non aver deciso per la morte del proprio figlio bensì di averlo amato ed accettato anche per breve tempo, facilita il processo di elaborazione della perdita. Il nostro modello assistenziale è un team multidisciplinare che prende in carico i genitori dal momento della comunicazione della diagnosi infausta.

In particolare, l’Hospice Perinatale si fa carico di gravidanze a rischio malformativo o nelle quali vengono diagnosticate patologie fetali gravi. Esso si configura come una struttura composta da medici ed operatori altamente specializzati i quali cooperano nel seguire e trattare, con le migliori cure disponibili e rigore scientifico, famiglie che hanno ricevuto diagnosi infausta. I componenti del team effettuano un incontro preliminare per inquadrare il caso clinico e studiarlo alla luce delle evidenze scientifiche più recenti e sulla storia naturale della malattia, definendo il percorso di cure personalizzato al singolo caso. Si riuniscono in momenti successivi durante tutta la gravidanza per eseguire nuove valutazioni al fine di prestare assistenza alle vite di quei piccoli pazienti. Il feto non viene visto come una “quasi persona” ma gli si riconosce la piena dignità di persona che deve poter usufruire delle cure al pari dell’adulto. Le figure professionali che abbracciano l’iter dell’Hospice Perinatale comprendono ginecologi, neonatologi, genetisti, bioeticisti, cardiologi, chirurghi pediatrici, ostetriche, infermieri, assistenti sociali, psicologi e sacerdoti per la cura spirituale. Grazie ai progressi della medicina avvenuti nel campo delle cure prenatali, le prognosi di alcune patologie possono ribaltarsi completamente, consentendo di sperare nella sopravvivenza di questi bambini.

Nondimeno bisogna fare chiarezza e distinzione tra i vari quadri malformativi che si possono incontrare durante la gravidanza e che spesso vengono erroneamente presentati tutti come “incompatibili con la vita”. È importante ribadire alcuni concetti che se ignorati possono indurre le coppie a scelte non informate che poi portano all’aborto eugenetico. Esistono condizioni come le gravi tachiaritmie e bradiaritmie fetali, la rottura precoce delle membrane amniotiche prima della 20a settimana, le gravi incompatibilità sanguigne madre-feto, le idropi fetali non immuni, le uropatie ostruttive con megavescica, le emoglobinopatie, l’idrocefalia isolata e la spina bifida, e tutte le malformazioni strutturali che possono essere curate sia in maniera invasiva che non invasiva, con terapie palliative in fase prenatale e postnatale. Alcune condizioni, come ad esempio il cuore sinistro ipoplastico, hanno sopravvivenze esigue dopo la nascita ma, con i trattamenti prenatali, possono arrivare ad una sopravvivenza dell’84,2% dei bambini trattati.

Ma volgiamo lo sguardo ai piccoli che per un motivo o l’altro non ce l’hanno fatta. La cultura dominante tende a mostrare l’interruzione della gravidanza come un atto medico finalizzato a promuovere la salute della donna trascurandone gli effetti ed offuscando il significato intrinseco della perdita di un figlio. Ciò che tende ad isolare la donna e/o la coppia in questo momento tragico è il non riconoscimento sociale di quella vita che c’è stata, seppur per breve tempo. Sorge dunque spontanea la domanda: «Esiste un’alternativa all’aborto eugenetico?». La risposta è certamente affermativa e per tale ragione l’Hospice Perinatale offre un modello assistenziale di cure incentrate sull’accoglienza della vita umana in qualsiasi fase essa si trovi, dal concepimento alla morte naturale.

Per esempio nella nostra società è largamente diffusa l’erronea convinzione che impedire di vedere, accarezzare, abbracciare il proprio figlio perso a causa di un aborto spontaneo tardivo, gravemente malformato o nato morto renda meno dolorosa la perdita di un figlio conosciuto solo in modo parziale in gravidanza. Questo atteggiamento purtroppo può determinare gravi ripercussioni nella successiva elaborazione del lutto. La mamma può sviluppare la cosiddetta “Sindrome Delle Braccia Vuote” che è presente in modo acuto soprattutto nelle prime settimane dopo la perdita ed è legata al venir meno delle funzioni di accudimento, perché non si può negare alla mamma il contatto diretto con il proprio bambino, che è parte integrante di sé. Quando si riceve una diagnosi di patologia fetale grave si assiste ad un evento drammatico. Solitamente questo avviene all’inizio del 2° trimestre di gravidanza, quando l’idea del figlio è già ben strutturata, un momento estremamente delicato. Nella maggior parte dei casi purtroppo il medico che comunica la diagnosi propone automaticamente l’aborto eugenetico come se fosse l’unica soluzione possibile. L’interruzione della gravidanza tramite l’aborto blocca bruscamente un processo fisiologico complesso e questo provoca un trauma carico di complicanze e rischi per la salute fisica e psichica della donna. Una recente revisione del 2017 sui danni provocati dall’aborto sulla salute delle donne, fornisce informazioni utili e complete in particolare agli operatori sanitari i quali sono invitati a conoscere e ad agire in base alle evidenze in essa contenute. Proponendo l’aborto volontario come prima scelta, nei casi sopracitati, viene capovolto il normale sviluppo del processo gravidico e il progetto di vita si trasforma in progetto di morte. La morte di un bambino in gravidanza produce un lutto profondo e pervasivo la cui durata varia dai 6 mesi fino a 2 anni successivi all’evento. È stimato che i genitori impiegano circa 3 anni per tornare ad un livello di serenità come quello precedente alla perdita. Sembra doveroso citare uno (1) fra gli innumerevoli studi effettuati sull’associazione tra aborto indotto e disturbi mentali pubblicato nel 2016 dal quale è emerso che le donne che avevano abortito avevano un rischio maggiore di depressione del 30% e del 25% di ansia, mentre viene stimato che la diffusione dei problemi di salute mentale è dovuta per circa il 10% all’aborto indotto. Tra le conseguenze a lungo termine sulla salute fisica dell’aborto indotto citeremo solo lo sviluppo del cancro al seno poiché è un rischio reale, supportato da ricerche scientifiche, del quale le donne devono essere a conoscenza quantomeno per motivi precauzionali. Una metanalisi del 2013 ha evidenziato che un aborto indotto aumenta del 44% il rischio di cancro al seno, due aborti del 76%, tre aborti dell’89% tra le donne cinesi. Un altro studio (2) pubblicato sull’Indian Journal of Cancer del 2013 attesta una probabilità 6,26 volte più alta di sviluppare cancro al seno rispetto a donne che non avevano mai abortito.


Per quanto riguarda il lutto perinatale, il periodo più critico risulta essere quello immediatamente successivo alla perdita del bambino durante il quale avvengono il consolidamento degli eventi e la formazione dei ricordi. È proprio in questa fase che l’operatore gioca un ruolo fondamentale nell’informare, prendersi cura e dare sostegno alla coppia. È importante che medici, ostetriche, infermieri, psicologi, ecc., siano formati adeguatamente nella gestione di queste situazioni in quanto è confermato dalla letteratura che le frasi ascoltate e gli atteggiamenti dei professionisti sanitari assunti dal momento della diagnosi fino ai momenti successivi al lutto vengono ricordati a distanza di decenni dall’evento traumatico. Se inappropriati, certi atteggiamenti, vanno a costituire un trauma secondario. Quando invece i professionisti sanitari si pongono in atteggiamento di onestà e premura verso i loro pazienti, questi ultimi riportano sentimenti di apprezzamento e fiducia nonostante le circostanze tragiche. Avendo dunque definito l’importanza del rapporto operatore-paziente nell’elaborazione e accettazione della perdita di un figlio, sia essa fisica o psicologica, si vuole mettere in luce l’approccio multidisciplinare adottato dal team dell’Hospice Perinatale all’interno del quale partecipa attivamente la figura professionale dell’ostetrica. La creazione di un clima familiare con le coppie è una peculiarità dell’assistenza messa in atto dai membri dell’équipe che contribuisce a ridurre la paura e l’ansia. Durante tutto il percorso, con particolare riguardo ai casi più fragili, i professionisti si alternano nello stare accanto alla famiglia nei momenti di maggior sofferenza. Dopo il parto continuano ad assistere i loro piccoli pazienti nei reparti e sostengono i genitori cercando di rivivere insieme gli eventi trascorsi sottolineando i momenti positivi.

La prima tappa dell’accompagnamento ostetrico “dedicato”, previsto dall’Hospice Perinatale, è il Counselling Ostetrico ovvero il primo incontro con la coppia, che avviene contestualmente ad una visita della sala parto. Per i genitori è importante familiarizzare anche con i luoghi in cui avverrà la nascita. Accogliere la coppia in sala parto, parlare di nascita, essere presenti e fornire aiuto professionale, genera un rapporto profondamente empatico tra la mamma e l’ostetrica. Nell’ambito di questo incontro i genitori hanno la possibilità di esprimere i propri dubbi o domande. L’obiettivo del supporto ostetrico in queste gravidanze è quello di creare una esperienza positiva della maternità, intendendo per “positiva” ricca di amore e tenerezza anche se ovviamente non potrà essere priva di dolore. Va da sé che la presa in carico della coppia includa anche il padre, figura che svolge un ruolo importantissimo di sostegno alle sofferenze della madre. Il team di esperti redige un elaborato contenente informazioni dettagliate circa la patologia fetale, la modalità del parto, l’assistenza neonatologica improntata al singolo caso. Tale documento è detto “condiviso” in quanto viene approvato e firmato da tutti i membri dell’Hospice e dagli stessi genitori i quali possiedono una copia cartacea dove poter rileggere, riflettere e comprendere meglio tutto ciò che è stato detto loro e quello che è stato pianificato per l’assistenza del proprio figlio.

Fino ad ora, di fronte a diagnosi infausta, ha prevalso la scelta apparentemente “più facile” dell’aborto eugenetico, ma da recenti studi si evince che un numero sempre più elevato di coppie sceglie di portare avanti la gravidanza e di affrontare quindi un percorso di cure e trattamenti palliativi per il proprio bambino. Il metodo interdisciplinare con il quale vengono affrontati i vari casi di patologia fetale, sia essa terminale o meno, fa sì che l’Hospice Perinatale sia giudicato positivamente dalle coppie le quali si sentono prese in carico e confermate nel loro ruolo. È proprio da questi dati che nasce l’esigenza di far emergere l’esperienza delle coppie che direttamente hanno intrapreso la strada delle cure palliative e dei trattamenti offerti dall’Hospice Perinatale del Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma.

Le coppie che si sono rivolte all’Hospice Perinatale romano, intervistate in merito, riferiscono di essere state accompagnate nel loro percorso con professionalità e umanità. Non solo, infatti, hanno potuto avvalersi di terapie all’avanguardia e di specialisti di alto livello, ma anche del supporto empatico da parte dell’équipe. Sono state offerte consulenze con psicologi, genetisti, nefrologi, chirurghi pediatrici, bioeticisti, ostetriche, tutto per trattare al meglio la patologia senza scadere nell’accanimento terapeutico o nell’eutanasia. Il fatto che gli operatori si rivolgessero non ad un “feto” o un “prodotto del concepimento” ma ad un piccolo paziente, chiamandolo per nome, conferendogli quindi la dignità che gli spetta, è stato riportato con grande commozione da parte delle mamme. Tale approccio ha fatto sì che le coppie si sentissero confermate nel loro ruolo genitoriale ed ha aiutato alcune mamme ad entrare in contatto con il bambino.

Tutte le coppie hanno abbracciato ed avuto un contatto fisico con il proprio bambino; momento che è stato accolto con grande emozione ed è stato descritto come il più intensamente vissuto. Alcuni hanno visto spegnersi la vita del proprio bambino tra le braccia, percependo il calore del corpicino per diverso tempo. Chi ha potuto vivere questa sensazione si sente in dovere di incoraggiare le altre coppie a non aver paura di provare tale contatto.

Il puerperio è stato descritto come il periodo più critico. Dopo aver vissuto la perdita, durante il ricovero ospedaliero molte coppie hanno manifestato l’esigenza di avere un luogo dove vivere l’intimità del momento doloroso. La presenza dell’ostetrica nell’immediato post-partum, soprattutto nei momenti in cui le donne si sono trovate sole, è stata “preziosa”. Tutte le donne affermano che la solitudine avrebbe sicuramente aggravato il loro dolore e le avrebbe fatte sentire abbandonate.

Terminato il ricovero ospedaliero e tornati alla quotidianità, i genitori riferiscono il desiderio di confronto con altre coppie e la necessità di far rivivere la loro esperienza. Nascono da queste esigenze varie associazioni e gruppi come la Fondazione “Il Cuore in una Goccia” composta da famiglie che hanno vissuto esperienze analoghe. Tali gruppi hanno lo scopo di sostenere i membri che ne fanno parte e di far conoscere delle realtà come l’Hospice Perinatale del Policlinico “A. Gemelli” di Roma, presenti in numero esiguo in tutto il mondo. Dalle esperienze raccolte dalle famiglie dell’Hospice Perinatale emerge che, nonostante siano state effettuate diagnosi da medici che non lasciavano speranze di vita per i loro bambini, quasi fosse automatica la morte, la tenacia e la forza di questi piccoli pazienti ha smentito ampiamente il cinismo di un certo tipo di “scienza” che lungi dall’essere al servizio della salute e della vita è promotrice di morte. E anche nel dolore, l’ineffabile mistero della vita ha prevalso e ha lasciato nei genitori nonostante tutto un senso di gratitudine per esserne stati parte attiva e non averlo negato.  



NOTE

1) Sullins D. P. Abortion, Substance abuse and mental health in early adulthood: Thirteen-year longitudinal evidence from the United States, in SAGE Open Medicine, 2016, 4, pp. 1-11.

2) Bhadoria A. S., Kapil U., Sareen N., Singh P., Reproductive factors and breast cancer: A case-control study in tertiary care hospital of North India, in Indian Journal of Cancer, 2013, 50 (4), pp. 316-321.

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