CATECHESI
I requisiti di un buon confessore
dal Numero 27 del 7 luglio 2013
di Don Leonardo M. Pompei

Non solo dal penitente ma anche dal sacerdote dipende la validità e la fruttuosità del Sacramento della riconciliazione. Al confessore infatti sono richieste alcune caratteristiche. Questo ministero divino è molto importante ed esige un adeguato atteggiamento…

L’ultimo aspetto da trattare riguardo questo Precetto della Chiesa concerne i requisiti che deve avere un buon confessore. Anche questo punto sarà trattato sotto il duplice profilo della validità e della fruttuosità del Sacramento.
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nella sua aurea operetta Pratica del confessore (edito recentemente da Casa Mariana dopo essere finito per più di qualche lustro nel dimenticatoio...) – che ogni confessore farebbe assai bene a leggere, rileggere e meditare – enumera quattro doti del buon confessore: deve essere padre, maestro, medico e giudice. L’assenza di uno o più di questi requisiti influisce, a seconda dei casi, sulla validità o sulla fruttuosità della Confessione. Cerchiamo di vederli più da vicino.
Anzitutto un confessore deve essere padre. Deve quindi trattare le anime con la cura, l’amore e la premura che avrebbe un padre verso un figlio, ma anche, se necessario, con l’autorevolezza e l’autorità che un padre può e deve avere ed esercitare nei confronti di un figlio “scapestrato”. In questo senso deve sempre tenere unite la dolcezza e la fermezza (una “dolce fermezza” e una “ferma dolcezza”) e la misericordia alla verità – come ci ricorda il Salmo: «Misericordia e verità si incontreranno» (84,11) –. Guai a sbilanciarsi imprudentemente verso una di queste direzioni (misericordia senza verità o verità senza misericordia; dolcezza senza fermezza – che diventa debolezza – e fermezza senza dolcezza – che diventa severità eccessiva oppure sterile rigidità). Questo requisito influisce molto sulla dimensione psicologica della Confessione (non importante da un punto di vista strettamente sacramentale e canonico, ma molto dal punto di vista esistenziale) e può compromettere in direzione speculare la fruttuosità del Sacramento (un confessore troppo rigido può scoraggiare il penitente e rendergli odioso il Sacramento, mentre un confessore troppo largo può letteralmente rovinare un’anima, spalancandole il baratro di una vita dissoluta dentro una coscienza rilassata).
Deve inoltre essere maestro. Questo requisito, stando a varie testimonianze dei fedeli, non sembra oggi molto curato e quando qualche confessore “osa” esercitarlo può andare incontro a spiacevoli alterchi. Essere maestro vuol dire che, attraverso un dialogo prudente ma anche chiaro, deve aiutare il penitente a prendere coscienza del peccato e, qualora si accorga che non è stato capace di esaminarsi, porgli le debite domande perché si renda conto dei peccati che ha commesso e, pentendosene, possa riconciliarsi con Dio. Una maldestra comprensione del sacrosanto principio del rispetto della persona, inibisce molti confessori dall’esercitare il ministero dei maestri con la scusa che si invaderebbe indebitamente la sfera personale. Ora, è indubbio che la coscienza della persona, in quanto tale, è inviolabile. Ma è altrettanto certo che per poter ricevere la misericordia divina, la coscienza deve essere formata sulla base dei principi della Morale cristiana (cattolica). Non è il penitente a stabilire ciò che è bene o male (e, per la verità, nemmeno il confessore!), ma la Legge di Dio. Se il penitente non riconosce la bontà della Legge divina e, di riflesso, la malizia e la perversità del peccato, la Confessione è totalmente nulla e inutile. Si ricordi, infatti, che Dio perdona chi, sinceramente pentito, confessa bene e tutte le colpe gravi commesse contro i Dieci Comandamenti. Si capisce che il difetto di questo requisito può causare una Confessione invalida, sia nel caso in cui il penitente sia in mala fede (omette volutamente di confessare alcuni peccati perché, secondo lui, non c’è niente di male), ma anche qualora sia in buona fede (non li confessa perché non si rende conto della loro intrinseca malizia). Un buon maestro, dunque, scongiura non poche Confessioni nulle e sacrileghe. Si tenga inoltre presente che la Confessione termina, ordinariamente, con un’esortazione che il confessore rivolge al penitente, in cui continua ad esercitare il suo ministero di formatore delle anime. Un buon maestro rivolgerà una buona esortazione, quella di un cattivo maestro sarà cattiva (forse pessima o addirittura fuorviante), alla stregua del cieco che guida un altro cieco.
Il confessore deve essere anche medico. Il peccato, infatti, lascia delle piaghe profonde nell’anima e queste devono essere, come ricorda metaforicamente la parabola del figliol prodigo, lavate, medicate e fasciate in vista di una completa guarigione. Un buon medico sarà capace di condurre, immediatamente o gradualmente, il penitente a tagliare radicalmente e definitivamente con il peccato, specialmente nei casi di peccatori recidivi, scegliendo penitenze adatte e proporzionate ed efficaci per lo scopo (purificazione e guarigione dell’anima in vista di una perfetta vita di grazia). La terapia, a volte, può essere caustica e dolorosa; a volte può essere necessario usare il bisturi. È il confessore che deve capire quando e come comportarsi. Ordinariamente è bene seguire una certa gradualità (specie con i peccatori recidivi), ma a volte può rendersi necessario l’uso immediato del bisturi. Sulla base di questo requisito si comprende quanto sia importante avere un confessore fisso, che conosca le patologie (croniche e acute...) dell’anima e possa lavorare per azzeccare la terapia risolutiva. L’assenza di questo requisito, evidentemente, non mina la validità del Sacramento, ma ne condiziona grandemente la fruttuosità.
Infine il confessore deve essere giudice. Un giudice senz’altro clemente e magnanimo, ma un vero e proprio giudice. Il confessionale veniva tradizionalmente chiamato “tribunale della penitenza” o “della misericordia”, nel senso che ivi avviene una sorta di processo senz’altro “sui generis”, ma che termina con una vera e propria sentenza (assoluzione o non assoluzione). Anche se questo requisito e questo linguaggio può far storcere il naso e la bocca a più di qualcuno, esso conserva (e in toto) tutta la sua piena importanza e urgenza, tanto più che esso condiziona pesantemente la validità della Confessione. Se il confessore, infatti, si accorge con certezza che il penitente non è pentito e non reagisce positivamente agli inviti al pentimento fatti durante la Confessione, non solo non deve ma non può assolverlo, perché, facendo ciò, oltre a far commettere un sacrilegio al penitente, lo commetterebbe a sua volta egli stesso. Un’assoluzione data in assenza certa di uno dei requisiti di validità (soprattutto il pentimento) è, infatti, nulla e sacrilega. Massima attenzione va prestata con i peccatori recidivi (che non possono essere sempre assolti immediatamente se non danno segni di progresso nella lotta contro i vizi) oppure con coloro che nascondono le colpe o hanno chiari e manifesti segni di totale assenza di pentimento. Qualche esempio: un ragazzo confessa di avere rapporti con la fidanzata e non ha alcuna intenzione nemmeno di provare a vivere castamente; una persona sposata prende la pillola e non vuole per nessun motivo smettere; una persona che non va a Messa la domenica e afferma che non ha intenzione alcuna di osservare il Precetto; una persona che ha una relazione extraconiugale e non ha alcuna intenzione di smettere; ecc. Guai a quei confessori che inducono in errore le anime assolvendo “l’inassolvibile”. Ma guai anche a quei penitenti che, con malizia, premeditazione e dolo, vanno in cerca di confessori con pochi scrupoli e larghe maniche per illudersi di avere il perdono senza lasciare il peccato. Risponderanno gravemente davanti a Dio (che non si irride) della loro ipocrisia e simulazione, presentandosi a Lui con l’anima macchiata, oltre che dei peccati non rimessi, anche di gravi e reiterati sacrilegi (Confessioni sacrileghe e Comunioni sacrileghe).

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