APOLOGETICA
Il significato, ovvero il desiderio di rispondere alle domande di senso
dal Numero 22 del 31 maggio 2015
di Corrado Gnerre

Letterati e filosofi d’altri tempi appassionano l’uomo contemporaneo con le loro domande. Questo perché gli interrogativi profondi dell’uomo, di ogni terra e d’ogni tempo, sono sempre inesorabilmente gli stessi. Dove cercare le risposte?

L’uomo non solo vive ma sa di vivere; dunque, anche nei momenti in cui non soffre, sa di dover soffrire; e anche nei momenti in cui la morte è lontana temporalmente, sa di dover morire.

L’ineluttabilità delle domande di senso

Da ciò si capisce perché l’uomo non può prescindere dalle domande di senso, cioè dalle domande sul senso della vita, le cosiddette domande ultime: perché vivo? da dove vengo? perché esiste la sofferenza? perché esiste la morte?... L’uomo anela al significato e non ne può fare a meno.
Scrive Blaise Pascal (1623-1662) nei suoi Pensieri: «Bruciamo dal desiderio di trovare un fondamento solido e una base ultima e duratura per costruirvi sopra una torre che si innalzi all’infinito, ma il fondamento crolla e la terra si apre fino agli abissi». Facciamo attenzione alle singole parole che il filosofo e matematico francese non pone a caso. Egli non parla di un semplice desiderio, bensì di un desiderio così forte che arriva a dominare l’esistere umano, a “bruciare”: bruciamo dal desiderio... E questo desiderio non è l’avere di più, non è l’acquisire maggiore successo... bensì il desiderio del fondamento: bruciamo dal desiderio di un fondamento solido. Un “fondamento solido” che faccia da base per costruire una torre che s’innalzi verso l’infinito, cioè che faccia incontrare all’uomo la soluzione del suo esistere. Ma – constata Pascal – se questo fondamento poggia sulla terra non è destinato a resistere perché la terra è fragile, incapace a “fondare”: ma il fondamento crolla e la terra si apre fino agli abissi. Il fondamento – ci dice Pascal – deve invece poggiare su qualcos’altro, allora sì sarebbe capace di fare da base ad una torre che s’innalzi verso l’infinito. 

L’universale condizione umana

Nel corso della storia, l’uomo cambia nei suoi elementi accidentali. Cambia il proprio modo di comportarsi, cambia alcuni giudizi sulle cose così come contestualmente si presentano, cambia anche il modo di “arricchire” e di migliorare la propria vita. Ma nel divenire storico l’uomo non cambia la propria sostanza. I suoi problemi fondamentali sono sempre gli stessi. Ecco perché ciò che ha scritto un Sofocle 2500 anni fa, o un Dante 700 anni fa o un Leopardi 200 anni fa ci interessano ancora. Da un certo punto di vista possiamo dire che tanto Leopardi quanto Dante e quanto Sofocle, che pur non avevano lo smartphone, che pur non beneficiavano del nostro progresso tecnologico, vivevano consapevolmente i nostri stessi problemi. Ecco perché la loro arte è come se parlasse (anzi, utilizziamo il presente)... è come se parli di noi... è come se parli di me.
Un esempio tra innumerevoli che possono essere fatti: l’Antigone di Sofocle (496-406 a.C.) parla di quella universale condizione di chi avverte di dover ubbidire a ciò che è giusto e per questo è costretto a pagare. L’insopportazione della pena, però, è data dalla mancanza di un senso che motivi a fondo il rispetto di ciò che è giusto adempiere. La tragedia narra di Eteocle e Polinice, figli di Edipo, che lottando tra loro per il potere, si sono uccisi a vicenda a duello. Lo zio Creonte, successore sul trono di Tebe, ordina che Polinice rimanga insepolto perché traditore della patria nei confronti della quale avrebbe fatto guerra con aiuti esterni. Antigone, sorella di Polinice, non intende però obbedire: decide di seppellire il fratello per non violare la legge degli dèi che consente la sepoltura dei traditori purché oltre i confini della patria. Ma per questa sua decisione Antigone viene condannata a essere sepolta viva in una caverna buia, nonostante le richieste che il suo fidanzato Emone, figlio dello stesso Creonte, rivolge al re. Antigone allora (ecco la disperazione quando è assente un senso vero che motivi il rispetto di ciò che è giusto adempiere) si suiciderà e lo stesso farà Emone. Sofocle così descrive la scena in cui Antigone sta per essere condotta nella caverna buia: «Mi vedete, gente di questa mia antica terra? / Gli ultimi passi allineo, / l’ultima scintilla di sole mi abbaglia. / Poi il buio. Il grande sonno, / Il nulla mi vuole. E sono ancora viva». Attenzione a questa espressione che abbiamo appositamente riprodotta in grassetto: Il nulla mi vuole. E sono ancora viva. Non si può negare che qui c’è un grido universale che è di tutti i tempi. è il grido dell’uomo che si chiede che logica può avere un destino di nullificazione, cioè l’andare verso il nulla, se poi constatiamo continuamente in noi la capacità di governare il tempo, di costruire affezioni che sanno andare oltre la pura dimensione temporale e che chiedono e invocano una permanenza destinata a non dissolversi.

L’uomo convive con la morte

L’uomo è l’unico essere vivente che convive coscientemente con la morte; e ciò, in un certo qual modo lo determina; lo rende consapevole di un timore attraverso cui si sostanzia il suo essere, ma soprattutto il suo desiderio di trascendere la fine. La morte costantemente lo interpella.
Leopardi (1798-1837) nel Canto del gallo silvestre (Operette morali) scrive: «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono». Qui Leopardi dice chiaramente che la morte è il tema dominante dell’esistere. Lo nasconde con un “pare”, ma si tratta di un “pare” debole che sta lì a significare quanto la morte costituisca una sorta di “principio di definizione” dell’esistere umano: Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obietto il morire. E poi Leopardi, non avendo risposta, si lancia verso un nichilismo fondativo, l’essere nascerebbe dal nulla: perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono.

Il dramma della condizione umana

L’uomo vive un’originale condizione che gli è peculiare. È una condizione drammatica: la constatazione della grandezza delle “domande” che porta nel cuore e la piccolezza delle “risposte” che offre la sua precaria vita terrena. Qui si manifesta l’inganno che spesso spinge l’uomo ad affidarsi all’illusione di poter trovare nella sua vita e nelle sue cose la risposta.
Il filosofo Kierkegaard (1813-1855) definisce la disperazione una “malattia mortale”, essa coinvolge i rapporti del singolo con se stesso: se l’io decide di realizzarsi fino in fondo, si scontra con la propria limitatezza, se invece cerca di essere qualcosa di diverso va verso un’impossibilità ancora più grande. In tutte e due le possibilità vi è il fallimento. Non c’è esito positivo se non nella fede, cioè se non aprirsi a Dio come soluzione.
Ecco perché è illusorio convincersi di poter trovare soddisfazione in se stessi; e quindi che passeggere felicità possano trasformarsi in vera gioia.
Leggiamo questi versi del poeta spagnolo Jorge Guillen (1893-1984), sono tratti dalla raccolta Guerra e pace: «Gioia. Palpita con un battito crescente la magnolia. / I tetti vanno cedendo al verde, tanto nobile, sera e uccelli. / Tra foglie, mormorii d’invisibile inquietudine implorano ombra, / Palpita l’albero, ormai quieto, col battito del suo cuore velato. / Che accade dunque? / Un al di là si crea con tenerezza e notte». In questi versi si coglie bene come il Poeta abbia voluto far seguire delle immagini inquiete all’invito alla gioia: il vento che agita l’albero è cosa ben diversa da un’immagine serena. La gioia che l’uomo può sperimentare nella sua vita è una gioia inquieta, che si esprime in un’inconscia paura di smarrirla. Senza una prospettiva ulteriore, questa gioia è destinata a perdere qualsiasi speranza. Insomma, questa “gioia”, cantata dal Guillen, è paragonabile a quella illusoria dell’uomo contemporaneo, che si illude di essere contento ma che invece avverte dentro di sé un senso di profondo smarrimento. Proprio le parole «un al di là si crea con tenerezza e morte» significano che l’unica speranza perché la gioia sia vera è che debba proiettarsi in una prospettiva ulteriore.

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