Quando si tratta di vita o di morte c’è poco da scegliere. Essere “per la scelta” significa approvare la morte, significa chiaramente essere “per la morte”. Con la vita non si scherza.
Ci sono delle parole e degli insiemi di parole che assurgono a livello di slogan (politici, pubblicitari, ideologici), e ci sono altre parole che difficilmente potrebbero essere usate in tal senso. Come mai? Perché anche nel linguaggio e nella letteratura esistono delle ovvie e legittime disuguaglianze e certe parole sono più belle, più forti, più toccanti, più importanti e convincenti di altre. Il relativismo linguistico è un puro non-senso e nessun pubblicitario sostituirebbe uno slogan di sicuro effetto, con una locuzione debole, insignificante o vuota di senso.
Nel campo della difesa della vita si è imposto, praticamente fin da subito, lo slogan e il motto, sintetico e ineccepibile di: Pro life. Esso è diventato una bandiera in qualche modo universale, ben al di là dell’ambiente anglofono da cui dipende e in cui probabilmente è nato. Oggi sono centinaia le associazioni, i gruppi e i movimenti che fanno riferimento ad esso, e nella cultura di oggi basta dire Pro life per avere una carta d’identità morale chiara e riconoscibile. Al contrario, nel campo sinistro della «cultura della morte» (come lo chiamò Giovanni Paolo II), tanto inferiore al primo per valori morali e linearità antropologica ed etica, quanto superiore per diffusione e possibilità, si è imposto, per contrappasso, uno slogan simile ed esattamente contraddittorio: Pro choice.
La filosofia di vita di cui sono espressione i due slogan è assolutamente contraddittoria e rappresenta nella società odierna una delle massime opposizioni logiche che si possano immaginare. L’opposizione destra-sinistra per esempio, se astrattamente presa, è netta (o vado a destra o a sinistra), presa nella sua accezione politica e storica, si smussa di molto, risentendo dei movimenti della società che tende al cambiamento e muta i connotati delle realtà che ne fanno parte. Si può ben immaginare infatti di trovare dei punti in comune tra l’odierna destra politica italiana e l’odierna sinistra: entrambe per esempio accettano come ovvio il sistema politico democratico, oppure la separazione tra Stato e Chiesa, o l’obbligo scolastico, o l’inammissibilità della schiavitù, e molte altre cose. Se però andiamo nell’astrazione e opponiamo bianco e non-bianco, evidentemente l’opposizione è massima e non solo sono termini che si auto-escludono, ma neppure è possibile immaginare qualcosa che non sia né bianco, né non-bianco. Questa opposizione massima, detta in logica principio di non contraddizione, si incarna nel contesto sociale nel contrasto, insuperabile, tra cultura della vita e cultura della morte. I fautori della cultura della vita infatti vogliono che sia distrutta, in nome della vita, la cultura della morte (aborto, eutanasia, suicidio assistito, droga, ecc.). I fautori della cultura della morte lottano invece affinché crepi ogni resistenza ai loro progetti e la “libertà” sia data a chi voglia uccidere (il feto, il malato inguaribile, il comatoso, il matto, l’anziano inutile, ecc.). Se la cultura della vita vincerà, mentre ora ha certamente la meglio la cultura della morte, non ci sarà spazio per i Pro choice nella vita pubblica; se invece la cultura della morte si affermerà ovunque come un diritto, saranno i Pro life ad essere arrestati, braccati e distrutti.
I due slogan scelti dalle due culture (Pro life – Pro choice) sono davvero emblematici e sintetizzano due visioni etiche del mondo, assolutamente antitetiche e oppositive.
Perché la definizione di Pro life? Perché ciò che si afferma da parte di questo mondo è il bene, la pace, cioè la tranquillità dell’ordine, la giustizia, detto in una sola parola che in fondo le riassume tutte, la vita. Senza la vita infatti che cosa resta degli altri valori? Affinché ci sia pace in una coscienza o in una società, in una famiglia o in una cultura è necessario che prioritariamente questa realtà sia in vita: un morto non è in pace, ma è semplicemente morto (semmai è in pace l’anima, proprio perché essa è ancora viva in Paradiso). Essere per la vita, essere aperti alla vita, essere in favore della vita significa essere per la protezione di un bene prezioso, di un bene fondamentale, del bene dei beni. Del bene più grande che vi sia, umanamente parlando, sulla terra. Se io sono per il rispetto della vita e di ogni vita, sono inoltre per un bene concreto, reale, inalienabile e questa posizione non si può strumentalizzare in nessun modo. La vita è vita a prescindere che la si osservi con lenti di destra o di sinistra, cattoliche o laiche. La vita è un bene indisponibile e universale, ed è posseduto anche dai miei più acerrimi nemici (come per esempio i Pro choice).
Dichiararsi invece Pro choice, in contrapposizione a Pro life, è molto pericoloso e nel contempo molto significativo. Cosa significa infatti essere per la scelta? Quale scelta? La scelta della casa, del lavoro, della moglie o della squadra del cuore? Se così fosse, tutto sarebbe apposto, e non ci sarebbe da obiettare nulla dal punto di vista etico. Ma se io creo un movimento per difendere i bambini dalla pedofilia e lo chiamo Per la purezza e di fronte a me, i miei avversari, ne creano uno che chiamano Per la libera scelta (in materia di sessualità), io opino che costoro siano dalla parte dei pedofili e contro la difesa dei bambini. O sbaglio? Così, chi si oppone alla militanza Pro life, non può che essere annoverato tra i Pro death (cioè Pro morte). I cultori della morte forse hanno pensato, con grande ipocrisia, che evitando di scrivere Pro aborto sui loro vessilli, ma Pro choice, sarebbero sembrati più innocui: così come i pedofili olandesi quando fondarono in Olanda un partito politico, non lo chiamarono Partito pro pedofilia, ma Partito dell’Amore...
Ma infondo la realtà non si lascia imprigionare dagli slogan ed essere Per la scelta (sottinteso libera) in materie etiche e bioetiche, significa senza dubbio stare nel campo della cultura della morte. Dalla difesa del bene unico della vita umana innocente, come era ovvio quando esisteva una civiltà umano-cristiana, si sta passando rapidamente, attraverso la parola demagogica scelta, alla sub-cultura del genocidio a geometria variabile: esso dipende dalla scelta di ognuno. Chi non vuole abortire non abortisca, ma lasciateci la libera scelta di abortire, cioè di uccidere il bambino innocente (o l’anziano inguaribile). Una donna giusta non abortirà mai, ma un’altra lo farà 5 volte; un medico obiettore (in realtà Pro life) darà testimonianza pubblica del valore di ogni singola vita umana, ancorché malata e difettosa; un altro compirà un piccolo genocidio ospedaliero (certi medici hanno praticato oltre 1.000 aborti!) e lo farà in nome della sua libera scelta. Pro choice dunque, lo si è capito, significa licenza di uccidere: non per legittima difesa, non per proteggere lo Stato dall’aggressore, non per causa di pazzia incontrollabile. No: licenza di uccidere per scelta volontaria, autonoma e assoluta. La ragione ultima dell’omicidio sta nella scelta stessa. In questa prospettiva lo Stato deve liberalizzare l’aborto perché c’è chi lo vuole fare. È la scelta il fondamento “morale” del genocidio in atto da mezzo secolo (solo negli Stati Uniti, uno dei primissimi Paesi ad ammettere l’aborto, si parla di oltre 55 milioni di vittime).
Dunque e conclusivamente se Pro life resta connotato come l’emblema, luminoso, di una filosofia di vita serena, altruista, pacifica e ottimista; Pro choice è il simbolo, oscuro e oscurantista, di una visione cadaverica della realtà umana, in cui l’unica filosofia che resta è il mors tua vita mea.
Da ormai 3 anni i Pro life italiani ed europei si danno appuntamento per una bellissima Marcia per la vita (marciaperlavita.it) che quest’anno si terrà il 12 maggio a Roma, con partenza alle 9 dal Colosseo e arrivo a Castel Sant’Angelo verso le 11. Non mancare!