Nel Cristianesimo ha valore soprannaturale e reale solo ciò che vien fatto in unione con Cristo, ossia nella sua grazia, partecipando alla sua Vita divina. Ecco perché – si dice – ognuno sarà giudicato sull’amore, che è l’essenza della vita cristiana e dev’essere sostanza e non solo apparenza.
Quando giocavo a calcio ero un innamorato della sfera di cuoio, nel senso che tendevo a giocare in maniera che definire individualistica è un eufemismo. Prendevo il pallone, mi cercavo l’avversario, lo superavo in dribbling e poi... invece di passare al compagno libero, mi tenevo ancora il pallone con la speranza di trovare qualche altro avversario da superare. Nell’allora squadra dell’oratorio, che si chiamava Forza e Coraggio, mi hanno raccontato che il buon parroco, appassionato di calcio, vedendomi giocare in quel modo dicesse in dialetto beneventano: «Mo’ (“mo’” significa “ora”) passa, mo’ segna; mo’ segna, mo’ passa...». E io non passavo mai, ma il problema è che non segnavo nemmeno. Era ovviamente un calcio da oratorio, in altri contesti mi avrebbero convinto ad un altruismo di gioco con altri mezzi, molto più convincenti.
Il mio era un gioco con tanto, tantissimo fumo, ma poco arrosto. Nella vita succede spesso che ci facciamo prendere dall’aspetto formale senza tener conto della sostanza: ci concentriamo sul contorno dimenticandoci la bistecca, stiamo maniacalmente attenti alla cornice tralasciando la qualità del dipinto. Certo, bisogna evitare di cadere nell’eccesso opposto: una bistecca senza un buon contorno o un quadro senza una bella cornice non vanno mica bene... così come un calciatore tutto muscoli e potenza senza un po’ di tecnica. Ci vuole quello e quello, ci vuole la sostanza e ci vuole la forma, ci vuole la forma e ci vuole la sostanza; né solo la forma né solo la sostanza.
Passiamo alla vita spirituale. Una delle bellezze del Cristianesimo che lo rendono inconfutabilmente unico (dico “inconfutabilmente” perché sfido chiunque a dimostrare il contrario... e in questo caso – vi assicuro – non mi troverete impreparato a fare gol)... Dicevo: una delle unicità del Cristianesimo è l’affermazione che Dio, infinito, assoluto, onnipotente, talmente infinito che non può essere contenuto dalla grandezza dell’Universo intero, è disposto ad inabitare nella piccolezza di ognuno di noi. Una verità inimmaginabile, che non è certo contro la ragione, ma va ben oltre la comprensione razionale. Dio entra nell’uomo, con l’Eucaristia addirittura si riduce a cibo e si fa ingoiare e mangiare. E proprio per questa grandezza e per questa meraviglia che avvengono se l’uomo è disponibile ad accogliere l’infinità del divino, la inabitazione di Dio nell’uomo diventa il criterio di salvezza e si chiama “Vita di grazia”. Infatti, se l’uomo è in grazia di Dio si salva; se non lo è, si riduce a tralcio secco che serve solo per essere gettato nel fuoco: «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano» (Gv 15,1-6).
Insomma, alla fine vale principalmente la sostanza, cioè la Vita di grazia. Quando si dice giustamente che il Cristianesimo afferma che ognuno di noi verrà giudicato sull’amore, si dice una cosa giusta, nel senso che al momento del Giudizio non servirà al cuoco ostentare solamente un buon contorno, gli verrà chiesta la sostanza; al pittore non servirà ostentare solo una bella cornice, gli verrà chiesto un bel quadro... al centravanti non servirà ostentare chissà quali dribbling funambolici, ma gol a palate. Fuor di metafora: nel Giudizio verremo giudicati per quanto abbiamo veramente amato Dio e, attraverso Dio, i fratelli. Un amore che non deve essere stato solo forma ma soprattutto sostanza, cioè – e torniamo al punto nodale – Vita di grazia. Amare Dio a parole, ma stando nel peccato, non serve. D’altronde è affermazione di sempre che se non si è in grazia si possono fare anche le cose più grandi, i gesti più eroici ma nulla valgono per la Vita eterna. Questo è il significato delle parole di san Paolo nel suo inno alla carità quando appunto dice che nulla serve se non si ha la carità.
C’è un racconto di Guareschi che s’intitola: Il cero (presente nella raccolta: Lo spumarino pallido). Si narra di una grande ingiustizia. Un ricco proprietario, Alcibiade Santini, aveva tempo addietro fatto stilare uno strano contratto a un suo dipendente, il Bazziga, facendogli pagare un falso fitto che in realtà, per loro accordo, doveva essere un pagamento rateale per l’acquisto di una piccola casa di campagna. Dal momento che il contratto è anomalo, il disonesto Santini ne approfitta e nega la natura del contratto. Il povero Bazziga cerca in tutti i modi di farsi valere, ma – come si suol dire – oltre il danno anche la beffa: viene processato per falso e finisce col perdere soldi e casa. Dopo il verdetto del tribunale a lui favorevole, Santini, ben consapevole della sua disonestà, arriva a fare ciò che è inimmaginabile: si reca in parrocchia e, senza spiegare il motivo, consegna a don Camillo un grosso cero che per ringraziamento offre all’altare della Madonna. Ovviamente il curato non sa nulla di nulla ed esegue, ma...
«Don Camillo allora, trovato un grosso candelabro, vi infilò il cero e andò a portarlo davanti all’altare della Madonna.
Poi accese il cero.
La fiammella tremolò per qualche istante e poi si spense.
Qualche spiffero d’aria, evidentemente. Don Camillo spostò il cero e lo riaccese. Adesso non c’erano spifferi perché il cero del vecchio Alcibiade era vicino agli altri ceri che ardevano tranquillamente. Ma neppure stavolta volle rimanere acceso.
Doveva essere per un difetto della pasta o dello stoppino.
Don Camillo portò il cero in canonica e lo studiò alla luce della grossa lampada elettrica sospesa sopra la tavola.
Col temperino tolse un po’ di cera attorno allo stoppino che sfilacciò.
Accese il candelotto e la fiamma brillò sicura e ferma, e continuò a brillare.
“Adesso è a posto – borbottò don Camillo –. Era una questione di rodaggio”.
Non spense il cero per non fare della puzza e, riparando la fiammella con la grande mano, uscì dalla canonica e tornò in chiesa.
Rimise il cero sul candelabro che era rimasto sopra l’altare nella cappella della Madonna.
Il cero si spense.
Lo riaccese e tornò a spegnersi.
Don Camillo, che non si arrendeva dinanzi ai mitra dei rossi e che aveva fatto andare a gambe all’aria i malintenzionati partigiani rossi, figuriamoci se poteva arrendersi dinanzi ad un cero che faceva i capricci. Tentò più volte. In sagrestia il cero si accendeva e rimaneva acceso, dinanzi all’altare della Madonna il cero si accendeva ma non rimaneva acceso. Era un mistero.
Erano le ventidue: a mezzanotte don Camillo stava ancora ripetendo i suoi esperimenti e aveva la fronte piena di sudore ghiacciato.
Adesso il candelabro era posato sul pavimento, al centro della chiesa, e il cero ardeva. Provò a sollevare il candelabro e lo tenne così, all’altezza della spalla, per un bel pezzo e il cero non si spense. Appena lo depose sulla tovaglia dell’altare della Madonna, la fiamma morì».
Non rimaneva che prendere atto di un’evidenza: il Cristianesimo o è Vita di grazia o non è; non basta la semplice devozione...
«...allora don Camillo tolse di tasca il gran fazzolettone e coprendosi con esso la palma della mano, cavò il cero dal candelabro.
Uscì di chiesa e camminò nel buio fino a quando non fu arrivato al canale.
Si fermò sulla riva del canale perché voleva buttare nell’acqua fangosa il cero.
Ma il cero gli sgusciò via di mano come se fosse diventato una biscia.
“Meno male che non mi ha morsicato” sussurrò don Camillo che ormai non capiva più niente».