Sette missionari francescani furono martirizzati a Ceuta nel 1227, dopo minacce, tormenti ed una lunga prigionia. Il loro eroico sacrificio, affrontato con grandezza d’animo, ci insegna a non temere il rispetto umano nel testimoniare la fede.

Il 10 ottobre l’Ordine Francescano celebra la memoria di San Daniele e compagni, missionari e martiri di Ceuta, uccisi per la predicazione della fede nel 1227. San Daniele e i suoi sei compagni fanno seguito ai cinque missionari martirizzati in Marocco nel 1219, di cui il Serafico Padre poté dire: «Ecco cinque veri Frati Minori». San Daniele fu eletto Ministro provinciale della Calabria dallo stesso San Francesco, e più tardi, con il permesso di frate Elia, allora Vicario generale dell’Ordine, s’imbarcò per la Spagna per poter raggiungere l’Africa. I suoi sei compagni furono: San Nicola di Sassoferrato, San Donulo di Montalcino, Sant’Angelo, San Samuele, San Leone e Sant’Ugolino. Tranne San Donulo, che era fratello converso, gli altri sei martiri erano tutti Sacerdoti.
I sette religiosi partirono per l’Africa con il desiderio di predicare il Vangelo agli infedeli e di coronare la predicazione con il versamento del proprio sangue come testimonianza della propria fede in Cristo. Arrivati in Spagna ad Aragona, il gruppo si divise in due; un gruppo rimase in Aragona, mentre San Daniele e altri tre compagni salirono sopra una nave diretta per Ceuta, una città situata nel Nordafrica, circondata dal Marocco. All’epoca la città di Ceuta era sotto il comando dei musulmani che avevano stabilito l’interdetto a qualsiasi cristiano di entrare in città. Arrivati al porto di Ceuta, i quattro Frati approfittarono per predicare il Vangelo ai mercanti cattolici che si trovavano lì, provenienti da Genova, Pisa e Marsiglia.
Giovedì 30 settembre arrivarono gli altri tre Frati che erano rimasti ad Aragona. Il giorno 2 ottobre, primo sabato del mese missionario, i sei confratelli si confessarono da padre Daniele e ricevettero la Santissima Eucaristia. Il gruppo passò la notte in preghiera, preparandosi a testimoniare la fede in Gesù Cristo con la predicazione e magari con il versamento del loro sangue. Per imitare il Salvatore che volle lavare i piedi degli Apostoli durante l’Ultima Cena, anche i Frati si lavarono i piedi a vicenda, facendosi coraggio nel caso che avessero avuto la sorte di morire come i sette fratelli Maccabei.
Preparati in questa maniera, la domenica mattina presto il gruppo entrò di nascosto in città e cominciò a predicare il Vangelo nelle piazze e sulle strade, sapendo che la loro predicazione non sarebbe durata a lungo. Il messaggio proclamato dai Frati era chiaro: non c’è salvezza fuori la Chiesa Cattolica, e questo messaggio inasprì i musulmani. La loro prima reazione fu di ingiuriare i missionari, poi li maltrattarono con percosse. I Frati furono trascinati davanti al Governatore della città per essere sottoposti all’inchiesta formale sulla loro provenienza e lo scopo della loro presenza in città. Tramite un interprete, i sette religiosi approfittarono della possibilità di predicare la fede cattolica al capo della città e alla sua corte. Il Governatore li giudicò pazzi ad essersi esposti in modo così insensato alla morte sicura; dopo averli burlati tutti, li fece quindi incatenare e portare in prigione, dove rimasero otto giorni, vittime di insulti e sofferenze di vario genere.
Anche in prigione i sette confratelli continuarono l’opera della predicazione attraverso una lettera che scrissero ai cristiani presenti nelle periferie di Ceuta. Nella lettera i missionari esprimevano la loro gioia di poter spargere il loro sangue per testimoniare la verità della fede cattolica, ciò che in vari casi i cristiani lì presenti, per motivi di lavoro e di convenienza personale, avevano evitato per il guadagno del denaro. Questo è un insegnamento anche per coloro che in questi tempi devono trasferirsi per lavoro e trascurano la pratica della fede cristiana a causa della mancanza d’impegno nell’assicurarsi i sacramenti nel nuovo ambiente di lavoro. Nella lettera scritta dai martiri, fra altro, si legge: «Sia benedetto Iddio, Padre delle misericordie e fonte di ogni consolazione, il quale ci consola in tutte le nostre pene!... Il Signore ci ha detto: Andate e predicate il Vangelo ad ogni creatura... Non si dà servo maggiore del suo padrone... Se il mondo vi perseguita, sappiate che prima di voi ha perseguitato me... E noi piccolissimi e indegnissimi servi di Gesù Cristo, mossi da queste parole, abbiamo abbandonato la nostra patria e siamo venuti a predicare in queste contrade per la gloria di Dio, per la salute delle anime, per edificazione dei fedeli e per confusione degli infedeli ostinati. Noi dunque siamo entrati in questa città, abbiamo predicato davanti allo stesso re il Nome di Gesù, e gli abbiamo dichiarato che non vi è salute fuori di questo Nome, provandoglielo con ragioni irrefragabili in presenza anche dei suoi savi. Ma egli, trattandoci come insensati, ci ha fatto mettere in prigione; dove, sebbene abbiamo molto da soffrire, tuttavia siamo grandemente consolati nel Signore, sperando che Egli gradirà il sacrificio della nostra vita. A Lui solo sia onore e gloria in sempiterno!».
La domenica 10 ottobre, dopo una settimana di carcere, il Governatore chiese loro se fossero pentiti di aver parlato contro Maometto e la sua legge, ma il gruppo unanimemente riconfermò ciò che aveva predicato in precedenza. Il Signore dava loro il coraggio dimostrato dai martiri dei primi secoli della Chiesa.
Indignato a tale risposta, il Governatore li fece separare, sperando che così sarebbero stati vinti dalle lusinghe, dalle torture e dalle minacce preparate per ciascun missionario. Ma ad ogni tentativo di farli cadere, il Signore infondeva in loro nuova forza e coraggio che non poteva essere spiegato in modo naturale. Esasperato dalla fermezza della confessione di fede dei Frati, finalmente il Governatore pronunciò contro di loro la sentenza di morte, condannandoli alla decapitazione. Riportati alla prigione, i sei Frati si radunarono in ginocchio attorno al loro Superiore, padre Daniele, ringraziandolo per averli condotti in terra di missione e portati alla soglia del Paradiso, con la corona del martirio ormai quasi fra le loro mani. Infine, chiesero la sua paterna benedizione. Padre Daniele, commosso per una tale dimostrazione di gratitudine e di venerazione, esortò i missionari con queste parole: «Rallegriamoci, o miei fedeli compagni, nel Signore; ecco per noi un giorno di festa. Gli angeli ci vengono incontro per condurre le anime nostre negli eterni tabernacoli. Oggi i martiri ci riceveranno nelle loro sante falangi. I cieli si aprono già sopra il nostro capo, e tra breve saremo in possesso della eterna beatitudine!».
Il martirio di questi sette missionari avvenne la domenica del 10 ottobre 1227. Prima di essere uccisi, furono spogliati del loro saio francescano e, con le mani legate dietro la schiena, furono condotti al luogo dell’esecuzione. Lungo la via cantavano gioiosamente le lodi divine: sembrava andassero a una festa nuziale piuttosto che alla morte. Arrivati al luogo, messi in ginocchio, gli intrepidi missionari presentarono la loro testa al carnefice, il quale li colpì con la scimitarra. Non soddisfatti della decapitazione eseguita, la moltitudine presente alla scena si lanciò sopra i corpi dei martiri e li fece a pezzi in poco tempo. Alcuni cristiani presenti, però, riuscirono a recuperare qualche reliquia rimasta dalla strage; dopo un certo periodo, un principe del Portogallo riuscì ad averla dall’imperatore del Marocco, facendola portare in Spagna.
Il 22 gennaio 1516, Papa Leone X canonizzò solennemente padre Daniele e i compagni martiri, confermando così per l’Ordine minoritico altri “sette veri Frati Minori”, come li avrebbe chiamati affettuosamente il Serafico Patriarca San Francesco.