SPIRITUALITÀ
Incontro con il santo del 25 maggio | „Vorrei essere Ildebrando”
dal Numero 20 del 22 maggio 2022
di Paolo Risso

“Sono rari i buoni che anche in tempo di pace sono capaci di servire Dio. Ma sono rarissimi quelli che per suo amore non temono le persecuzioni o sono pronti ad opporsi decisamente ai nemici di Dio. Perciò la religione cristiana – ahimè – è quasi scomparsa, mentre è cresciuta l’arroganza degli empi” – San Gregorio Magno

Da più di 900 anni riposa in esilio nella cattedrale di Salerno. Fuggiasco da Roma, era stato accolto da Roberto il Guiscardo nella sua bella Salerno, capitale normanna del primo regno d’Italia. Si era spento il 25 maggio 1085 dicendo le celebri parole: «Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, per questo ora muoio in esilio».

Uno sconfitto della storia? Eppure Napoleone Bonaparte era solito dire: «Se non fossi Napoleone, vorrei essere Ildebrando».

Già, si chiamava Ildebrando ed era nato a Soana in Maremma (oggi vi passa pure il treno che va a Roma, ma allora ci si muoveva solo con cavalli e carrozze... o a piedi). In gioventù aveva lasciato tutto per farsi monaco benedettino e dedicarsi solo alla preghiera, pronto però a ogni chiamata che fosse per la gloria di Dio e il trionfo di Gesù e della sua Chiesa.

A strapparlo dal suo monastero di San Paolo a Roma ci pensò Gesù stesso quando, il 22 aprile 1073, a circa 50 anni di età, si trovò eletto papa e volle chiamarsi Gregorio VII, come Gregorio Magno, da lui scelto a modello.

La vita come milizia

L’anno prima della sua morte era accaduto un fatto grave, anche se non unico, nella storia della Chiesa.

Il re di Germania e imperatore, Enrico IV, aveva infranto, dopo lungo assedio, le difese di Roma e aveva occupato l’Urbe. I difensori del Papa tenevano ancora Castel Sant’Angelo, l’Isola tiberina e alcuni sbarramenti sui ponti. Enrico convocò un’assemblea di laici e di vescovi ribelli, della sua fazione, decretò di testa sua che Gregorio VII non era più papa e mise al suo posto un anti-papa. Da costui si fece incoronare imperatore romano.

La sconfitta di Ildebrando, dopo una vita tutta per Gesù e per la Chiesa, era, a giudizio solo umano, completa. Il re normanno Roberto il Guiscardo, da Salerno accorse in suo aiuto con trentamila soldati e seimila cavalieri. Papa Gregorio lo seguì in esilio per sempre.

Ildebrando, exul immeritus, ricordava Canossa. Sette anni prima, Enrico IV era sceso in Italia e si era recato in abito da penitente a Canossa, la rocca della duchessa Matilde, sull’Appennino emiliano, affinché il Papa lo liberasse dalla scomunica. Ricordava il re, giovane di 27 anni, che lo supplicava per non perdere il trono di Germania: un re scomunicato sarebbe stato, a quei tempi, abbandonato da tutti. 

Eppure, quando era stato eletto papa, Ildebrando aveva avuto fiducia in Enrico che gli prometteva ogni aiuto per condurre a termine una delle più profonde riforme della Chiesa: una Chiesa che fosse libera dagli intrighi di questo mondo e tuttavia continuasse, come è nella sua missione divina, a illuminare tutte le realtà del mondo, di Gesù stesso, con il Quale solo tutus stat ordo civicus (sicuro sta l’ordine civile).

Ma quale maledizione gravava sulla cristianità, perché si arrivasse a quei tragici scontri tra Chiesa e Stato?

La spina nella vita della Chiesa era data dal fatto che spesso diocesi e monasteri, con i loro estesi possedimenti, dipendevano dai sovrani, i quali li davano e li vendevano a persone di loro fiducia: non importava loro che fossero persone indegne, importava che fossero docili vassalli del re. 

Era una vecchia piaga, che in questo modo, vescovi e abati, spesso fossero più politicanti che uomini di Dio. 

Per estirpare questa piaga ci voleva un uomo d’acciaio come Ildebrando. Con coraggio di milite di Cristo, di guerriero, e di crociato benché in esile fisico di monaco santo, abituato a dure penitenze, ma sommamente capace di governare, Ildebrando aveva lottato per la riforma della Chiesa, durante tutta la sua vita: con la preghiera, con le lettere, le direttive chiare e sicure. Tant’è che si parla ancor oggi di “riforma gregoriana”.

Ora da papa gli restavano due strade: l’accordo con Enrico per compiere la riforma insieme a lui, ciò che era la cosa migliore. Oppure la rottura con Enrico e la riforma contro di lui.

Ildebrando aveva tentato la prima strada e si era illuso. Aveva ripiegato sulla seconda ed era stato un disastro, però solo apparentemente. Ma Gregorio non aveva ceduto. Non era ricattabile per qualche debolezza o intrigo personale. E non si lasciò intimorire né ricattare da nessuno: neanche da un potente che faceva il prepotente. Anche oggi ogni uomo di Chiesa, ogni cattolico dovrebbe essere così. 

Ora, mentre da Roma a Montecassino, a Salerno, papa Gregorio VII si avviava verso l’esilio e la morte, poco più che 60enne, il suo puro slancio mistico di sempre lo avvicinava a quel suo e nostro Gesù per il quale soltanto era vissuto. Esemplare eterno di lotta, di martirio, di libertà, non di fare ciò che pare e piace, ma di obbedire solo a Dio a fronte alta. Oltre il papa, per il momento sconfitto, c’era già vittorioso il santo: e quale santo!

Uomo libero

In una lettera ai vescovi della Germania, in quei suoi anni di lotta immane, Gregorio aveva scritto: «Voi mi siete testimoni che nessuna idea di secolare potenza mi ha spinto contro i sovrani ingiusti e contro i pastori indegni, ma solo la comprensione di quale sia il mio dovere e la missione della Santa Sede Apostolica. Meglio per noi morire a causa dei tiranni, che con il nostro silenzio renderci complici dell’empietà».

Con la sua immolazione egli vinse. La riforma della Chiesa, ripetiamo, quella che si chiama appunto “riforma gregoriana”, sarà compiuta qualche anno dopo di lui. Ancora una volta, il potere di questo mondo si era infranto contro la roccia di Pietro. Il quale, pur essendo di nascita solo un pescatore, diventato Vicario di Cristo, in quanto tale è invincibile e insuperabile, nel suo autentico magistero e nel suo governo, come il divino Maestro e Redentore Gesù. 

Nella memoria liturgica di papa san Gregorio VII, il 25 maggio, la Chiesa prega così: «O Signore, che sei la forza di coloro che sperano in te, e hai dato al santo pontefice Gregorio una fermezza incrollabile nel difendere la libertà della Chiesa, per sua intercessione, accordaci di trionfare con il medesimo suo coraggio, di tutte le opposizioni del mondo».

Ecco, questo è lo stile del cristiano cattolico, tanto più del sacerdote e dei pastori: mai correre dietro al mondo, mai secolarizzarsi né tantomeno confondersi con i mondani, chiunque essi siano, svendendo il culto a Dio e al suo Cristo, con “il culto dell’uomo”. 

Mai essere ricattabile, quindi mai ricattati dal mondo e avere la libertà di dire al mondo Gesù solo, Gesù tutto intero, anche quando costa l’emarginazione, la solitudine, il martirio. La libertà di governare le anime nella luce sovrana del Credo cattolico: «in captivitatem, redigentes omne intellectum in obsequium Christi» (2Cor 10,5), rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza a Cristo. 

Cioè, la vera libertà. La libertà dei figli di Dio.

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