“Il calice che io bevo anche voi lo berrete”, dice Gesù ai discepoli. Noi non possiamo restare indifferenti di fronte al suo Sacrificio. Quello della croce è il nostro posto, perché noi i malfattori, Lui l’innocente. La Passione di Cristo dobbiamo farla nostra. Questo l’impegno, questa la preghiera per il Tempo di Quaresima.
Ogni cristiano, ogni amico di Gesù, in qualunque stato di vita egli viva, deve vivere di continuo in sé il desiderio, l’impegno e la preghiera di servire il divino Maestro e Salvatore in modo sempre più perfetto, fino alla piena configurazione a Lui. Il Tempo di Quaresima, tempo forte dell’anno liturgico, ci è dato affinché rinnoviamo questo impegno, questa preghiera: di Gesù solo, di Gesù sempre di più.
Noi per questo non siamo del mondo. Il mondo ci vuole alla sua sequela. Noi, a qualunque costo, camminiamo alla sequela di Gesù. Noi siamo contro corrente, contro-vento al mondo. Far carriera, far soldi, aver successo, occupare i primi posti sono i sogni immediati di tanta gente, dei più.
Il battesimo, il calice
Anche tra i dodici amici di Gesù, c’è chi sogna di potersi sedere, uno alla sua destra, l’altro alla sua sinistra, quando Lui, il Vincitore, sarà nella sua gloria. Lo credono, all’inizio, un liberatore dalla servitù ai Romani, il restauratore del regno politico di re Davide. Tra di loro ci sono pure dei filo-zeloti, degli aspiranti insorgenti contro Roma, quali pare fossero i fratelli Giacomo e Giovanni. La loro madre, anche giustamente pensando che ne abbiano le capacità, li raccomanda al Rabbi di Nazareth come suoi primi futuri collaboratori. I suoi “ragazzi” si sarebbero ben sistemati!
Ma Gesù ha un altro progetto per sé e per i suoi: Lui non è un liberatore politico, pronto a impugnare le armi per cacciare gli oppressori del suo popolo e ristabilire la dinastia di Davide e Salomone. Non è né sarà mai il capo del “comitato di liberazione nazionale”, neppure del “comitato di salute pubblica”, quali ce ne sono stati diversi, e pur oggi, nella storia.
Gesù cammina verso Gerusalemme, dove una croce, accettata per obbedienza e amore, avrebbe fatto di Lui il Salvatore dell’uomo dal peccato e dalla morte eterna, il Datore della vita divina, la vita stessa di Dio, il promotore di un mondo e di una umanità nuova, nella perfetta alleanza e intima comunione con Dio.
Sì, mi piace e mi “intriga” molto questa pagina del Vangelo, in cui i figli di Zebedeo, tramite la loro madre, chiedono i primi posti accanto a Gesù, pensato come il re successore di Davide. Continua a raccontare l’evangelista Marco: «Gesù disse loro: “Potete bere il calice che io bevo e ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli risposero: “Lo possiamo”. E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo, anche voi lo riceverete”» (Mt 10,35-45).
Il battesimo del Cristo, il calice del Cristo sono la sua Passione, la sua Morte, la gioia del Risorto, l’Uomo nuovo, trovata attraverso il Sacrificio di sé fino all’effusione del suo Sangue. Configurato a Gesù nel sacramento del Battesimo e nell’Eucaristia, suo perenne Sacrificio, il cristiano è abilitato a bere fino in fondo questo calice del suo Maestro crocifisso, a completare, come scrive san Paolo (cf. Col 1,24), ciò che manca alla Passione di Cristo.
Ora noi sappiamo che la Passione di Gesù è completa, ma è pure vero che non basta che Lui si sia offerto in sacrificio per noi e tutto sarebbe fatto per tutti (come si insegna spesso oggi in modo ingannevole): noi non possiamo restare indifferenti di fronte al suo Sacrificio, come se non ci riguardasse. Quello della Croce è il nostro posto, perché noi i malfattori, gli adulteri, i negatori, non certo il Figlio di Dio, tutto innocente e tutto santo, Gesù, l’uomo-Dio.
La Passione del Cristo dobbiamo farla nostra, dobbiamo riviverla in noi nella sua interezza e nel suo dramma, in uno sforzo continuo di offerta della nostra esistenza, delle nostre energie, della nostra sofferenza, a Dio Padre, con Gesù, per la salvezza del mondo, per la redenzione di ciascuna anima. O meglio, ancora, è Gesù carico della croce, immolato, totalmente disponibile per amore, il Quale vivo in noi per la grazia santificante, continua a vivere in noi il suo olocausto. È Gesù che entra nel mondo – che entra in noi – e dice: «Ecco, Padre, io vengo a compiere la tua volontà» (Sal 39), Gesù che si prolunga in noi e nella Chiesa.
Un innocente che soffre?
Qui assume significato il dramma disperante del dolore, del dolore innocente. Qui il cristiano che soffre diventa segno vivo della presenza di Dio e del suo amore per gli uomini. Gesù soffre, è crocifisso, salva il mondo in tutti coloro che accettano e abbracciano la croce e con Lui ne bevono il “calice amaro”.
A. Camus († 1960) disperava e negava Dio di fronte al dolore degli innocenti. I “comunardi francesi” del 1870/’71 cantavano, bestemmiando, che “Dio non c’è o, se c’è, occorre fucilarlo, perché fa soffrire i bambini”. Il credente sa, per dono di Dio, che Dio è sempre Padre, vede nel dolore innocente, nella sofferenza accettata per amore, la “scala” che porta a Dio, la “scala” d’oro che traghetta e fa salire a Dio, anche chi ha peccato, chi è vissuto lontano da Dio.
«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
Chi era più santo e più innocente, più bello di Gesù? Eppure nel piano di Dio è stato “l’uomo dei dolori”: «Il castigo salutare per noi si abbatté su di Lui e per le sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5). Così l’innocente che soffre è un privilegiato che Gesù associa a sé nell’espiazione, facendone un piccolo con-redentore con Lui che è l’unico Redentore. Il peccato dall’inizio del mondo dilaga sulla terra, e pertanto va espiato per ristabilire l’ordine dei valori. Il peccato offende Dio infinito all’infinito e Gesù solo, l’uomo-Dio, lo può espiare e redimere. Ma Gesù chiede a coloro che ritiene disponibili e capaci di collaborare con Lui.
Leggiamo a meditiamo e facciamo nostro l’aureo libro di sant’Anselmo d’Aosta Cur Deus homo? (Perché un Dio si fa uomo?) e tutto ci sarà limpido. La dottrina anselmiana e quella tomistica è valida sempre a questo riguardo, e non c’è barba di teologo modernista che possa annullarla.
Ma è possibile tutto questo? Non è forse incredibile? Tuttavia è vero. Sono persone come noi a dimostrarlo con i fatti della loro vita.
Chi scrive ha profilato migliaia di servi di Dio, di cristiani esemplari. Ne ha biografato circa un centinaio. Ha avuto occasione di condividere più volte gli uffici delle Cause dei santi, a livello diocesano. Ma chi scrive intende qui citare solo due storie, che ha visto con i suoi occhi.
La prima è quella di Pietro Gonella (1931-1979). Era nato ad Antignano d’Asti da umile famiglia di campagna. Entra in seminario a 12 anni ed è un seminarista ardente, innamorato di Gesù, con un sogno solo: diventare sacerdote dotto e santo. A 18 anni, colpito da un male incurabile, si mette a letto per non alzarsi più. Un malato a vita. Nel 1952 gli muore anche la mamma che gli cambiava le lenzuola tre volte al giorno. È il culmine del dolore, ma Pierino, sostenuto dalla fede e dall’intimità con Gesù Crocifisso, benché impossibilitato a diventare sacerdote, vive tuttavia nell’offerta a Dio, nella preghiera apostolica, nei rapporti personali ed epistolari con le anime un suo singolare “sacerdozio di sangue”. Per 30 anni così, senza mai perdere la speranza, direi la certezza, di diventare vero sacerdote. Il Santo Padre Paolo VI, informato della sua storia d’amore con Gesù, gli concede di essere ordinato il 23 settembre 1978 nel suo letto di dolore, diventato un altare su cui don Pietro offre per 15 mesi il suo sacrificio unito al Sacrificio di Gesù sul Calvario: entrambi sacerdoti e vittime. Se ne va all’incontro con Dio il 28 dicembre 1979. Persino illustri uomini politici, credenti e non credenti, sono toccati dentro dalla sua offerta vittimale: in don Pietro si sentiva il Dio vivo.
L’altra storia è quella di Silvio Dissegna (1967-1979). Non l’ho incontrato di persona, ma “ho toccato con mano” la sua attanagliante vicenda. Nato presso Torino da famiglia di lavoratori cattolici, riceve una dolce e salda educazione cristiana. È un bambino che gioca e va a scuola come tutti, ma appare subito “speciale” per la sua vita di intimità con Gesù. La sua fanciullezza è bella come i “misteri gaudiosi” del Rosario. A 10 anni Silvio si ammala: cancro alle ossa. Dolori atroci. Lento disgregarsi del suo corpo. Una lunga via crucis di 20 mesi tra ospedale e casa, con il sorriso sul volto e la certezza di rivivere in sé la Passione e il Calvario del suo “amatissimo Gesù”. Se ne va a 12 anni, il 24 settembre 1979, nel fulgore della santità e del martirio. Giulio Andreotti, letta la sua vita, scrisse: «Conoscevo già quest’ostia. Consummatus in brevi, explevit tempora multa». Silvio è venerabile e riposa nella chiesa di Poirino (Torino).
Soltanto il Cristo
Don Pietro e Silvio hanno vissuto in sé la Passione di Gesù. Forse incredibile, ma vero. “Contra factum, non est argumentum”. Soltanto il Cristo, nella Chiesa Cattolica, con il suo calice amaro, ma traboccante di salvezza e di gioia, con la sua vita offerta per amore, “in riscatto”, può compiere questi miracoli viventi alla portata delle nostre mani.
Quando Gesù ci chiama a condividere la sua avventura, preghiamolo intensamente perché la nostra debolezza, la nostra paura, il nostro essere di carne non ci ributti indietro, non ci lasci disperare, ma grazie a Lui, possiamo diventare capaci di innalzare sul mondo accanto alla sua grande Croce, la nostra piccola croce. «Il pane che spezziamo non è forse comunione con il Corpo di Cristo? E il calice che noi beviamo, non è forse comunione con il Sangue di Cristo?» (cf. 1Cor 10,16).
* Per saperne di più: Paolo Risso, Pietro figlio di Mamma, Casa Mariana Editrice, Frigento; Idem, Il venerabile Silvio Dissegna, Velar, Gorle.