Servire la Santa Messa a padre Pio era un onore. Autorità civili e religiose, alti ufficiali delle Forze Armate, personalità con incarichi prestigiosi si ritenevano onorati per un tale servizio. Era, fra l’altro, un punto di osservazione privilegiato per seguire il Padre mentre si rinnovava sull’altare il Sacrificio della nostra redenzione. In quel periodo – non era stata ancora costruita la nuova chiesa –, il Padre celebrava all’altare di San Francesco, nella vecchia chiesa, perché non si riteneva degno di celebrare all’altar maggiore. Prima di avviarsi per la celebrazione, un frate gli domandava chi doveva servire. Fece il mio nome per una settimana intera assieme a quello di un altro figlio spirituale.
Per tutta la durata della celebrazione bisognava stare in ginocchio. Per me, che in ginocchio c’ero stato sempre poco, era un tormento; anche perché lo spazio fra la balaustra e la predella dell’altare non permetteva nessun movimento. Si stava in quella posizione un’ora e mezzo e anche più. L’unico momento di sollievo arrivava quando si dovevano porgere al celebrante le ampolle, versare l’acqua per il lavabo e ripiegare il fazzoletto quando si era asciugato le dita. Purtroppo, il tempo era brevissimo. Io cercavo di allungarlo piegando e ripiegando il fazzoletto più di una volta ma, alla fine, bisognava rimettersi in ginocchio. Era un momento critico. Prima di tutto per il dolore, poi non sapevo rispondere all’Orate fratres. Per non fare scena muta, borbottavo qualcosa fra i denti. Il Padre se ne accorse e una volta, in sacrestia, dopo che si ebbe tolti i paramenti sacri, me lo fece notare: «Che borbotti all’“Orate fratres”?». «Padre – risposi un po’ confuso –, faccio così perché non so la risposta». «Allora statte zitto, ché fai sbagliare pure a me!». Non gliene scappava una.
Torniamo alle ginocchia. Al terzo giorno non ne potevo più. Al quarto, il solito frate, la solita domanda: «Padre spirituale, chi serve la Santa Messa stamani?». «L’economo della Casa Sollievo e Giovanni da Prato».
Il frate dà un’occhiata in giro e non mi vede. «Giovanni non ci sta». E il Padre: «Ci sta, ci sta».
Sinceramente, mi ero nascosto. Avevo deciso tutto da me: «Se mi chiama anche stamani, non ci vado».
Per accedere alla chiesa antica dalla sacrestia ci sono due porticine: una a destra e una a sinistra del bancone dove il celebrante indossa i paramenti sacri. A quella di sinistra c’è l’acquasantiera, e il Padre passava sempre da quella. Io mi ero nascosto dietro quell’altra e aspettavo tranquillo che cominciasse la celebrazione.
Trascorse qualche minuto e non succedeva nulla. A un tratto, mi sento battere le mani giunte del Padre sulla spalla e la sua voce: «Vatte avanti!». E andai avanti.
Per fortuna, mi venne in aiuto la Cleonice. Si era accorta del mio disagio nello stare inginocchiato e mi aveva procurato due cuscinetti da mettere sotto le ginocchia. «Tieni questi – mi disse –, sacco di patate».
Durante la celebrazione, tutti gli sguardi erano fissi su padre Pio. Chi ha assistito anche una sola volta a quella Santa Messa non la dimentica più. Quel sacerdote era il mediatore perfetto fra Dio e gli uomini, si aveva la sensazione che avvenisse un commercio continuo fra il Cielo e la terra. Non di rado veniva la pelle d’oca, quando si vedevano cadere dalle mani del Padre gocce di sangue sull’altare. Nessuno, forse, potrà mai tradurre in parole il mistero della Santa Messa celebrata da padre Pio. Si perdeva la percezione del tempo e si arrivava alla fine senza accorgersene. Avevo notato più volte che, quando il Padre lasciava l’altare, bisbigliava qualche cosa. Ero curioso di sapere cosa dicesse. Appena mi capitò l’occasione glielo chiesi. «Oh! Ma tu stai accorto a tutto». «Se lo dice anche a me, mi farebbe piacere», risposi. Con tanta affabilità mi rivelò il segreto. «Senti come dico: Io mi parto e resto Teco. Tu rimani e vieni meco. Per un miracolo d’Amore io nel Ciborio tuo, Tu nel mio cuore».
estratto da: Giovanni Bardazzi,
Un discepolo di Padre Pio, pp. 114-117